Dubbi e fede nella mistica ebraica
Secondo la tradizione ebraica, la storia progettata dalla mente creatrice divina avrebbe dovuto concludersi il Sabato, quando Dio avrebbe rivelato tutte le fonti della propria santità e quindi la spiritualità del mondo. Questa spiritualità non contempla il paradiso in quanto luogo, bensì in quanto stato, e il rinvio indefinito di questo stato ideale è conseguenza diretta della trasgressione di Adamo.
Adamo ha trasgredito perché ha dubitato. Non certo di Dio,ma della capacità, da parte della creazione, di rispondere all’idea del divino. Dubitare è disperare del senso della creazione e voler quindi affrettare l’avvento del senso della creazione e voler quindi affrettare l’avento del senso auspicato, ma un simile dubbio non può generare che l’amplificazione del dubbio stesso.
Sempre stando alla tradizione mistica, conseguenza dell’errore adamitico sarebbe anche tentare di far venire il Messia prima del tempo – egli (Adamo) colse il frutto quando non era ancora maturo al punto giusto (zohar) – desiderio che da sempre sembra ossessionare lo spirito del popolo ebraico.
Ma c’è anche un’altra conseguenza della precipitazione adamitica: la separazione dell’albero della vita da quello della conoscenza del Bene e del Male, visto che l’interdizione divina concerneva l’albero della conoscenza e non quello della vita. L’errore – perché si tratta di errore più che di colpa – consisteva nell’aver separato ai due elementi che fanno la storia: la vita e la conoscenza, per cui la storia diventerà più incomprensibile, in quanto Adamo (l’uomo) ha perso il senso del tempo.
Se però le conseguenze del gesto di Adamo sono state a dir poco negative, l’intenzione che animava il gesto non lo era affatto. L’effetto della trasgressione adamitica è opposto alla vera intenzione di Adamo, che ritarda la rivelazione delle fonti della santità, nell’istante stesso in cui cerca di affrettarla.
Dubitando però che la creazione sia in grado di rispondere all’idea del divino, e ritardando quindi la rivelazione delle fonti della santità, motrici della spiritualità del mondo, Adamo non ha fatto che rendere la fede ancor più necessaria. Anzi, indispensabile per guidarlo attraverso la storia, che non è affatto una punizione divina, quanto piuttosto una pedagogia divina. Spetta quindi ad Adamo, all’uomo, di riscoprire nella storia l’idea prima, e in ciò consta la fede. Ma di chi la colpa, se l’idea prima si è celata?
Quando il Santo, Benedetto Sia, si accingeva a creare Adamo, i servitori celesti si divisero in gruppi contrastanti. Questi dicevano: «Dev’esser creato» e altri protestavano: «Non dev’essere creato perché dispenserà atti d’amore». Verità disse: «Non dev’essere creato: sarà pura menzogna». Giustizia disse: «Dev’essere creato: praticherà la carità». E Pace protestò: «Non dev’essere creato, perché non susciterà che dispute». Cosa fece il Santo, Benedetto Sia? Prese Verità e la gettò sulla terra. Allora gli angeli celesti dissero al Santo Benedetto Sia: «Signore dell’Universo! Perché copri di disprezzo il Tuo Sigillo? (Il sigillo del Signore è verità). Che verità risalga dalla terra». (Midrash Rabbà). Se l’uomo fosse stato creato per cercare la purezza della propria anima, la religione servirebbe solo a soddisfare i suoi bisogni, ma se servire Dio significa servire se stessi, cosa ne è della fede? Compiete atti di devozione a proprio esclusivo vantaggio è idolatria. Ne consegue che la dottrina in base alla quale compito dell’uomo è dedicarsi alla propria personale salvezza, lo porterebbe ad adoperare un idolo. No: lo scopo supremo non può essere la salvezza individuale. «Io credo in Dio» non significa che sempre io accetto la realtà della Sua esistenza, e che quindi vengo prima io e poi Dio, come implica il soggetto che in questa frase precede il complemento. È perché Dio esiste che io sono capace di credere. Cos’è infatti la fede, se non fedeltà a chi ci precede da sempre?
La fede è più profonda della conoscenza. L’acquisizione di conoscenze non trasforma la natura profonda degli individui, mentre l’esperienza veritiera della maestà divina fa capire che l’ego è una trappola. Confinato nell’ego, un individuo autentico sente di non essere al proprio posto: la sua vera dimora è lì dove egli vive in amicizia con Colui che è tutto e tutto implica.
«I nostri rabbini hanno insegnato: Quattro uomini penetrarono nel Frutteto Celeste: Ben Azai, Ben Zomà, Akher e R. Akiba. Ben Azai guardò e morì; Ben Zomà guardò e diventò pazzo; Akher strappò delle piante. Solo Rabbi Akiba uscì in pace com’era entrato». (Talmud, Chaghigà).
Secondo lo Zohar, ai quattro personaggi del racconto talmudico corrispondono i quattro elementi della creazione: fuoco, aria, terra e acqua. A ognuno di questi quattro elementi corrisponde n modo di concepire la storia. Il fuoco simbolizza la giustizia, l’aria, la metafisica, la terra, la presa concreta e prosaica della storia e, infine l’acqua simbolizza l’amore come trascendenza del dubbio.
Il primo personaggio – Ben Azai – muore. Non ha potuto sopportare l’ingiustizia del mondo, ingiustizia che è alla base stessa della storia: «Fin dall’inizio della creazione del mondo, Dio creò l’angelo della morte, come è scritto: «E la terra era solitudine e caos; e l’oscurità copriva la superficie dell’abisso».
Si tratta qui dell’angelo della morte che oscura le facce degli uomini. Siccome l’uomo è stato creato il sesto giorno, l’ammonimento divino – «Il giorno in cui ne mangerai, morirai» – sembra già un programma. Dio fa qui l’effetto di un marito che, volendo ripudiare la moglie, scrive l’atto di divorzio.Prima di tornare a casa, cerca un pretesto qualsiasi per presentarglielo. Cosa fa rientrando? Le chiede di versargli un bicchiere gi acqua calda. Quando se lo porta alle labbra, non trovando l’acqua abbastanza calda, la ripudia. La moglie allora gli chiede come faceva, prima ancora di rientrare a casa, a sapere che l’acqua non sarebbe stata di suo gradimento. Perché scrivere in anticipo un atto di divorzio?
Analogamente, qui, Adamo dice a Dio: «Prima di creare il mondo, avevi già redatto la Torà, e nella Torà è scritto: «Ecco la regola, quando si trova un morto in una tenda…». (Numeri 19, 14). Non è legittimo dedurne che la morte era già stata programmata?
Il problema dell’ingiustizia è in effetti il problema del libero arbitrio e quindi dell’implicazione dell’uomo nella storia. Come può, l’uomo, disporre di un qualsiasi libero arbitrio, se il progetto divino deve essere realizzato a qualunque costo?
Il secondo personaggio – Ben Zomà – diventa pazzo. La contraddizione fra cielo e terra è tale da essere per lui insostenibile. Egli non riesce a sistematizzare il concetto dinamico dell’essere, perché Dio è a tal punto nascosto nel mondo, che ogni tentativo di trovarlo risulta sconvolgente.
Il terzo personaggio – Akher – diventa apostata. Akher si pone il problema dell’immediatezza della storia: il desiderio di comprendere tutto subito. Akher non capisce la necessità di passare attraverso tante contraddizioni.
Il quarto personaggio – Rabbi Akiba – trascende i propri dubbi con l’amore: se il progetto divino è l’unica verità possibile, solo dall’annullamento dell’ego può scaturire un amore capace di contribuire alla realizzazione di questo progetto. Amare è dare libero corso alla vita, è lasciare che il progetto divino Prima di tornare a casa, cerca un pretesto qualsiasi per presentarglielo. Cosa fa rientrando? Le chiede di versargli un bicchiere di acqua calda. Quando se lo porta alle labbra, non trovando l’acqua abbastanza calda, la ripudia. La moglie allora gli chiede come faceva, prima ancora di rientrare a casa, a sapere se l’acqua non sarebbe stata di suo gradimento. Perché scrivere in anticipo un atto di divorzio?
Analogamente, qui, Adamo dice a Dio: «Prima di creare il mondo, avevi già redatto la Torà, e nella Torà è scritto: «Ecco la regola, quando si trova un morto in una tenda…». (Numeri, 19, 14). Non è legittimo dedurne che la morte era già stata programmata?
Il problema dell’ingiustizia è in effetti il problema del libero arbitrio, se il progetto divino deve essere realizzato a qualunque costo?
Il secondo personaggio – Ben Zomà – diventa pazzo. La contraddizione fra cielo e terra è tale da essere per lui insostenibile. Egli non riesce a sistematizzare il concetto dinamico dell’essere, perché Dio è a tal punto nascosto nel mondo, che ogni tentativo di trovarlo risulta sconvolgente.
Il terzo personaggio – Akher – diventa apostata. Akher si pone il problema dell’immediatezza della storia: il desiderio di comprendere tutto subito. Akher non capisce la necessità di passare attraverso tante contraddizioni.
Il quarto personaggio – Rabbi Akiba – trascende i propri dubbi con l’amore: se il progetto divino è l’unica verità possibile,solo dall’annullamento dell’ego può scaturire un amore capace di contribuire alla realizzazione di questo progetto. Amare è dare libero corso alla vita, è lasciare che il progetto divino si dispieghi. Questo è l’ultimo insegnamento di Rabbi Akiba.
Il vero amore non è reperibile solo nelle lettere della Torà. L’amore corrisponde alla vera conoscenza nella misura in cui questa si fonda anche sul bianco degli spazi che si offrono al nero delle lettere. L’amore è l’unificazione delle quattro lettere del telegramma. Ogni lettera del tetragramma. Ogni lettera del tetragramma dà ricetto a emanazioni diviene, ognuna delle quali è un valore unico a se stante. L’inchiostro e la pergamena formano un’unità, quella fra legge scritta e legge orale, fra legge divina e legge dell’uomo, un’unità che solo l’amore può palesare.
Per la Kabbalà, il vero amore è il bacio. Dio non riprende forse la vita di Mosè con un bacio? La parola bocca in ebraico si dice Peh. La lettera P ha in ebraico la forma di una bocca aperta. La bocca è la storia, cioè le vocali che la legge orale, (l’uomo), pone sotto le consonanti della legge scritta. La storia è, per l’uomo, la vocalizzazione corrisponde quindi a collaborare al compiersi del piano divino.
È con l’amore che Rabbi Akiba accetta l’alterità del senso della storia. La mancanza che caratterizza i tre predecessori di Rabbi Akiba consiste nel non percepire il legame fra le diverse consonanti del tetragramma.
«Perdere la fede è perdere il senso della storicità d’Israele» (Zohar).
Michel Monheit