Purim per noi oggi
«Non distinguerai la destra dalla sinistra»
Che cos’è Purim per noi, oggi? Il carnevale degli ebrei? La commemorazione di un evento storico? Ma la vicenda di Ester, che si ripete anno dopo anno, la conosciamo bene. Ci si può chiedere allora quale significato possa aver per noi il ripetersi delle mizvoth di Purim: il digiuno di Ester, la lettura della Meghillah, i festeggiamenti, lo scambio dei doni e i regali ai poveri.
Perché si legge ogni anno la Meghillat Ester? Cosa vi si nasconde, al di là del senso letterale? In fondo, è una storia comune, come ce ne sono state e ce ne sono tante: quella di un momento difficile nella storia della vita ebraica della diaspora (e in effetti si tratta dall’unica festa collegata a una vicenda che ha luogo e si conclude fuori d’Israele). Non ci sono miracoli, né apparizioni divine. Dall’inizio alla fine della Meghillat Ester, il nome del Signore non compare mai. Ma i nostri saggi ci dicono che è proprio questo aspetto a renderla una storia-paradigma. Tutto ciò che appare è una serie di circostanze, la cui concomitanza comporta la salvezza finale: la provvidenza divina è implicata, e si nasconde entro la trama degli eventi. Questa mancanza di esplicità è del resto evidente anche nel nome stesso di Ester, dato che Ester Panim è chiamata la provvidenza, quando opera nel mondo senza che l’intervento del Signore appaia in modo chiaro. Essere ebrei e penetrare il significato intimo e profondo di Purim, vuol dire riconoscere la presenza attiva del Signore negli eventi di Susa come nel corso delle nostre vicende personali di ogni giorno. Un Midrash paragona la presenza del Signore in questo mondo al modo con cui l’aquila cova i suoi aquilotti appena nati, «toccando e non toccando il nido»: alla stessa maniera il Signore sostiene il mondo e l’esistenza di ognuno di noi. Quello che si richiede da parte nostra è lo sforzo di riconoscere l’essenza profonda di questa realtà. Sforzo che senz’altro non è facile: perché di prove vere e proprie non ce ne sono. Ma già Maimonide (Sefer ha-Madà, 8) faceva notare che la fede di chi crede in base a prove e a segni non è fede vera né profonda, perché le prove possono essere frutto di magia. Non c’è fede se non quando essa comporti riflessione e pensiero. Ma c’è davvero bisogno dei miracoli, per credere? Non è un miracolo la natura stessa? Forse ci è difficile esserne consci, perché ci si è abituati: e l’abitudine rende difficile cogliere l’essenza intima più profonda delle cose. Ma chi può dire di non aver mai avvertito la sensazione del miracolo davanti a una manifestazione del tutto naturale, come un paesaggio, una nascita? È vero che si tratta, in genere, di sensazioni sporadiche, soffocate dal grigiore della routine quotidiana. Penetrare al di là dell’apparenza delle cose richiede, senza dubbio uno sforzo; ma è altrettanto vero che di solito niente di veramente importante e valido si ottiene facilmente. La lettura della Meghillah propone dunque problematiche che vanno ben al di là della storia che essa ci presenta.
Purim è preceduta da un giorno di digiuno. Esso ha un significato storico, dato che ricorda il digiuno osservato da Ester, da Mordechai e dagli ebrei quando fu emesso il decreto di distruzione. Essi digiunarono, come avevano digiunato, in tempo di pericolo, anche le generazioni che li avevano preceduti. La pratica del digiuno era osservata dal popolo d’Israele ogni qualvolta essi erano minacciati dalla guerra; lo scopo era quello di affermare che l’uomo non prevale per messo della forza fisica o militare, ma solo rivolgendosi in preghiera al suo Creatore, perché Egli lo salvi. Si deve a questo spunto notare come questo aspetto abbia un significato particolare anche per noi: perché in tempi difficili è fondamentalmente importante il ricordarsi che, nonostante le apparenze, non siamo soli al mondo.
Dopo l’afflizione del digiuno di Ester, c’è la gioia di Purim, che si manifesta nei festeggiamenti materiali. Il pranzo di Purim è una Seudàt Miryah, e una speciale preghiera di ringraziamento, Al ha-Nisim, viene aggiunta nella Birkat–Ha–Mazon (Benedizione che si recita dopo il pasto). Questo aspetto così materiale, mangiare e bere, può apparire singolare. Perché bere «fino al punto di non sapere più la differenza fra «Maledetto Amman» e «Benedetto Mordechai»? In questo modo, spiegano i nostri saggi, è come se dicessimo: la nostra salvezza non dipende da noi; noi, non sappiamo neppure distinguere fr ala nostra mano destra e quella sinistra, e abbiamo fede solo nell’aiuto del Signore.
La festa di Purim è un capitolo della storia ebraica: ma anche, nello stesso tempo, un momento della nostra storia personale, quella dei rapporti fra il nostro ego e il nostro Creatore. Queste due storie, la nostra personale e quella ebraica collettiva, sono due fenomeni distinti solo in apparenza. In realtà, si tratta di un unicum, indissolubile: dato che l’esistenza di ogni ebreo è strettamente collegata a quella di tutto il suo popolo. Questo concetto dell’amore fraterno, stabilito come precetto al tempo del Mattàn Torah, e cardine della vita ebraica fin dal tempo di Abramo (chiamato dai saggi «il pilastro dell’amore») si manifesta in modo chiaro nelle altre due mizvoth di Purim, i doni ai poveri e lo scambio dei regali, mizvoth che simboleggiano l’amore fraterno che legava Ester e Mordechai al loro popolo, e il legame che ci unisce tutti, oggi come sempre.
Marina Pucci
(Molti dei concetti che appaiono qui sono tratti da A.A. Dessler, Mikhtav me-Eliahu, II, Jerushalaim 1963 e da E. Kitov, The Book of our Heritage, Jerusalem 1978).