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Nel momento in cui pronunciamo la parola “comunità“, ecco che ci torna subito alla mente l’antica disputa tra “collettivismo” e “individualismo“. In altre parole, si ripropone l’antica questione se, dal punto di vista metafisico e non cronologico, sia comparso per primo l’individuo, inteso come entità libera e indipendente, che rinuncia ad alcuni aspetti della propria sovranità allo scopo di vivere all’interno di una struttura sociale, oppure se sia vero il contrario: che l’individuo nasca all’interno della comunità, la quale gli conferisce certi diritti. Questo problema eterno rimane tuttora irrisolto.
Oggi, tuttavia, la controversia va al di là del dibattito puramente teorico. I popoli cercano di risolvere la questione non con un dialogo ideologico, non partecipando ad accademici simposi filosofici, ma ricorrendo a violenti spargimenti di sangue che devastano attualmente gran parte dell’Asia e dell’Africa. Il confronto politico in atto tra Est e Ovest è, ipso facto, quello che sul piano filosofico è il confronto tra il “collettivismo” da una parte e l’”individualismo” dall’altra.
Proviamo a porci una domanda: che cosa ha da dire l’Ebraismo a proposito di questo conflitto? Si potrebbe rispondere semplicemente: l’Ebraismo respinge ambedue le teorie. Nessuna teoria per sé è vera. Entrambe le esperienze, sia quella della solitudine, che quella della partecipazione, sono elementi basilari e inseparabili della coscienza che l’Ebreo ha di se stesso.
La Bibbia narra come Iddio creò un simbolo uomo, un uomo solo: “Allora il Signore Iddio formò l’uomo, polvere della terra, e soffiò nelle sue narici un alito di vita, e divenne l’uomo uno spirito vivente” (Genesi, 2:7).
La Bibbia aggiunge però che l’Onnipotente, dopo aver creato Adamo, disse “Non è cosa buona che l’uomo resti solo; farò un aiuto per lui” (Genesi, 2:18). Allora Iddio creò Eva e la condusse da Adamo: “e dalla costola che aveva preso da Adamo, il Signore Iddio fece una donna e la condusse da Adamo” (Genesi, 2:19). Che cosa venne prima: la comunità — la coppia — oppure l’uomo (o la donna) da solo? Che cosa ha la precedenza: Adamo ed Eva nella loro assoluta solitudine al momento della loro creazione, oppure Adamo ed Eva, come coppia, al momento in cui furono messi insieme per essere congiunti nel matrimonio?
Come si è detto, ogni individuo, sia come entità legata alla società che come entità a sé stante, uomo o donna, è stato ugualmente creato da Dio. Pertanto non è possibile adattare la concezione della Bibbia ad una delle due teorie filosofiche. La risposta alla questione è di natura dialettica: l’uomo è l’uno e l’altra cosa. Da una parte è un singolo, un individuo isolato che non fa parte di alcuna collettività, comunque strutturata, dall’altra è un uomo che è in relazione con il prossimo e che coesiste con l’altro.
In verità, la grandezza dell’uomo si manifesta proprio in questa contraddizione: nella natura dialettica, egli è un individuo singolo e contemporaneamente un’entità legata ad altre, attraverso la struttura comunitaria di cui fa parte.
Individuo e collettività
Proviamo ad approfondire questa strana filosofia dell’uomo che sembra abbracciare due concezioni apparentemente contraddittorie.
Mi sia concesso, però, premettere alcune considerazioni:
1) L’Ebraismo non si occupa del problema dei rapporti dell’individuo con la collettività in termini socio-economici, bensì in termini esistenziali e metafisici. L’Ebraismo non è interessato al problema che ha angustiato tanti filosofi dell’età illuministica, se cioè l’uomo sia un essere auto-sufficiente; se Robinson Crusoe — in altre parole — sia realtà o fantasia. L’Ebraismo pone una questione del tutto diversa: quello che viene definito una “creazione ad immagine divina” è l’uomo nel suo individualismo e nella sua solitudine oppure l’uomo che agisce all’interno di rapporti con altri uomini?
2) Per l’Ebraismo la comunità non è un organismo funzionale-utilitaristico, ma addirittura un’entità ontologica. L’Ebraismo ha sempre sottolineato la totalità e l’unità della comunità (keneseth) d’Israele. La comunità non è un agglomerato di individui, ma un’entità dotata di vita propria. Per esempio, riferendoci ad Erez Israel, Dio l’ha concessa a noi come dono. Ma a chi è stata concessa la Terra? Né ad un singolo individuo e né ad un certo numero di milioni di persone. Dio ha dato la Terra alla Keneseth Israel, alla comunità intesa come un’unità indipendente, una persona giuridicamente e metafisicamente distinta. Dio non ha promesso la Terra ad un singolo individuo; Abramo non ricevette la promessa della Terra come un individuo, ma in quanto padre di una futura nazione. Il possessore della Terra Promessa è la Keneseth Israel ovvero una “persona comunitaria”. Per quanto strana possa apparire questa teoria ad un sociologo empirista, non lo sembra a colui che segue la halachà o al qabbalista, per il quale la Keneseth Israel è come una madre che vive, ama e soffre.
3) L’entità personalistica e la realtà della comunità, cioè a dire della Keneseth Israel, sono basate sulla teoria della complementarietà esistenziale tra tutti gli individui che ocmpongono la Keneseth Israel1. Infatti, gli individui, che compongono la comunità sono dal punto di vista esistenziale complementari gli uni agli altri. Ciascun individuo possiede qualcosa di unico e di raro che è sconosciuto agli altri; ciascun individuo ha un messaggio “unico” da comunicare, un colore speciale da aggiungere alla gamma dei colori comunitari. Perciò, quando il singolo si associa alla comunità aggiunge una nuova dimensione alla coscienza comunitaria. Egli contribuisce con qualcosa che nessun altro era in grado di dare. Arricchisce la comunità dal punto di vista esistenziale; è insostituibile. L’Ebraismo ha sempre guardato al singolo individuo come se fosse un piccolo mondo (microcosmo)2; con la morte dell’individuo finisce questo piccolo mondo. Resta un vuoto che gli altri non possono riempire. Il detto “chiunque salva una vita è come se avesse salvato un mondo intero“3 va inteso proprio in questo senso. Le norme della halachà, così ricche di sensibilità, relative al lutto (aveluth), trovano le loro radici nella percezione della tragica singolarità dell’individuo, nella consapevolezza che l’uomo, come essere naturale, esiste una sola volta in tutta l’eternità. A causa di questa singolarità, gli individui si associano,divengono complementari gli uni agli altri, e conseguono così un’esistenza completa.
Queste due componenti della comunità (individualità e complementarietà) si ritrovano nella descrizione biblica della comunità-matrimonio. Essa è composta da due singole personalità. L’uomo e la donna rappresentano due diverse esperienza esistenziali,differiscono non soltanto come persone naturali, ma pure come persone metafisiche. L’uomo è uomo in ogni suo pensiero e sentimento; e lo stesso vale per la donna: essa è tale in tutte le proprie esperienze esistenziali. Quando i due si congiungono nel matrimonio, si viene a formare una comunità di due esseri tra loro “incommensurabili”. L’uomo e la donna si completano a vicenda dal punto di vista esistenziale; insieme essi non costituiscono un’associazione, bensì una individualità, una persona. La comunità-matrimonio corrisponde alla comunità in generale; la sua forza corrisponde alla comunità in generale; la sua forza risiede non tanto in ciò che di comune c’è tra i compartecipanti ma nella loro singolarità e nella loro originalità.
Procediamo ora nell’analisi dell’individuo di fronte alla comunità.
Che cosa significa essere solo? La solitudine non indica una condizione di lontananza fisica quanto invece una lontananza esistenziale, un’alienazione dell’essere, tra l’”io” e il “tu”, per quanto vicini l’”io” e il “tu” possano essere.
Due persone si amano reciprocamente. Il marito giovane e bello e una giovane e graziosa sposa sono legati strettamente l’uno all’altra. Condividono gioie e dolori. Improvvisamente, Dio ci liberi, avviene la disgrazia. Uno dei due innamorati si ammala; la prognosi non lascia speranze. Cosa accade in una situazione simile?
All’inizio, il compagno che gode buona salute ne rimane traumatizzato: non è capace di immaginare una vita senza la compagnia dell’altro e la propria partecipazione a situazioni di gioia o di ansia. Sprofonda in uno stato di disperazione buia e crudele; per un momento vive in una condizione di assenza mentale che rasenta la pazzia. La vita diventa qualcosa di assurdo e di mostruoso. Con il passare del tempo però, la coscienza comincia gradatamente a razionalizzare la crudele prognosi, si fa strada, senza pietà, un processo di alienazione. L’ammalato e il suo amato compagno cominciano lentamente a separarsi e ad allontanarsi l’uno dall’altro; il processo di estraneazione raggiunge proporzioni spaventose, l’amore si trasforma in indifferenza e successivamente in ostilità. Colui che in passato era un compagno innamorato, comincia adesso a provare disgusto per il fatto di dovere condividere con una persona ammalata la propria stanza. Nell’uno si fa strada il risentimento perché l’altro continua a vivere. L’allontanamento esistenziale tra coloro che una volta erano compagni innamorati, raggiunge proporzioni inimmaginabili4.
L’uomo solo
Ho cercato di descrivere l’alienazione esistenziale in termini acuti e crudeli, dipingendo una tremenda situazione in cui all’amore si sostituisce la paura, la confusione isterica, una condotta brutale. L’allontanamento e l’alienazione esistenziale possono essere osservare anche in circostanze più normali. Sono tentato di affermare che nella vita di ogni giorno l’alienazione e il distacco sono proporzionali all’intensità e alla profondità del rapporto emotivo. Più intenso è il rapporto di interesse e di amore, più grande è il disappunto e l’estraneazione. Esiste infatti in ogni esperienza affettiva un momento di alienazione. Una giovane madre, piena d’amore per la sua bambina dalle guance rosee, e per il giovane marito, viene improvvisamente svegliata dalla graziosa bambina nel cuore della notte. La madre, esausta, tenta di calmare la bambina e di riaddormentarla. Il marito non si muove; ella meravigliata si domanda: è sveglio o dorme? La giovane madre che da sola sopporta il peso della situazione, è al limite della pazienza e mormora tra sé: “che cosa volete dame voi due? Perché questi due non mi vogliono più bene?”. Per un momento respinge sia la figlia che il marito. Per pochi secondi una lontananza esistenziale li separa. È irrilevante qui se la giovane madre abbia ragione nella sua breve ribellione contro l’istituto del matrimonio; è invece importante per noi il fatto che per pochi secondi si sia separata da un’esistenza in comune per tendere verso una solitudine e una lontananza esistenziale. Per un momento infinitesimale lei è stata cosciente della propria solitudine nonostante che il suo matrimonio fosse felice. Per una frazione di secondo ha identificato se stessa con quell’uomo — o donna — creato solo in quel misterioso venerdì5.
Naturalmente la psicologia possiede una ricca e varia terminologia per descrivere tale comportamento. L’Ebraismo, invece, non è interessato a situazioni comportamentali quanto ad esperienze esistenziali. Dal punto di vista esistenziale, l’uomo si rende conto assai spesso di essere solo e di come tutti i discorsi dell’essere insieme non siano altro che un’illusione.
L’uomo solitario e l’uomo sociale
Perché fu necessario creare un uomo singolo? Perché non fu creato fin dall’inizio un uomo-sociale?
1) L’originalità e la creatività che sono nell’uomo sono radicate nell’esperienza dell’uomo allo stato di singolo e non della sua coscienza sociale. La “solitudine” dell’uomo è la condizione della sua singolarità e quella della sua creatività. L’uomo sociale è superficiale: egli imita, emula. L’uomo solitario è profondo: crea, è originale.
2) L’uomo solitario è libero; l’uomo sociale è legato a forme e a regole. Dio volle che l’uomo fosse libero. Ogni tanto si richiede all’uomo di staccarsi dal mondo, di riformare il vecchio e l’obsoleto con qualcosa di nuovo e di importante. Soltanto l’uomo solitario è capace di rompere i legati che lo rendono schiavo alla società. Chi fu Abramo? Chi fu Elia? Chi furono i profeti? Si trattò di gente che ebbe il coraggio di rimproverare la società allo scopo di distruggere lo status quo e sostituirlo con un nuovo ordine sociale. La storia dell’Ebraismo non è soltanto la storia delle comunità, ma anche quella del singolo che si confronta con la maggioranza. “Che cosa fai qui Elia? E questi rispose: Sono stato tanto geloso per l’Eterno, il Signore delle Schiere; perché i figli d’Israele hanno dimenticato il Tuo patto, distrutto i Tuoi altari, ed ucciso con spada i Tuoi profeti; sono rimasto soltanto io, ed essi cercano la mia vita…” (I Re, 19:9-10). In altre parole: “Io sono lontano dal mio popolo, tra me ed esso c’è il completo disconoscimento. Io sono un uomo solitario; accuso la comunità. Mi ribello contro la nazione”. La coscienza della singolarità (Levaddò) è alla base della rivolta eroica. L’eroismo è la categoria centrale dell’Ebraismo pratico. La Torà vuole che l’Ebreo viva eroicamente: richiami, rimproveri e condanni qualunque società che non si comporta in modo adeguato e giusto. La coscienza della singolarità (Levaddò) conferisce all’Ebreo quell’eroica arroganza che gli permette di sentirsi diverso dall’altro. L’Ebreo non ha forse dimostrato questa arroganza nell’aver rimproverato per millenni il mondo intero? Non ha forse dimostrato il piccolo Israele un’eroica arroganza nel respingere certe ingiunzioni dell’Onu? Non sentiamo forte noi — Ebrei americani — un senso di eroica solitudine e di alienazione dalla società circostante ogniqualvolta viene sollevato, nel bel mezzo di una discussione, il problema di Israele? Quando sentiamo l’abisso che separa il nostro modo di vedere e di sentire dalla politica della comunità internazionale? L’uomo solo è un uomo coraggioso, uno che protesta, uno che non ha paura di nessuno. L’uomo sociale è uno che ricerca il compromesso; uno che mette pace; uno che, qualche volta, è codardo. Al principio l’uomo doveva essere creato “solo” (levaddò) altrimenti non avrebbe avuto la qualità eroica e il coraggio di levarsi e di protestare, di agire come Abramo, il quale prese il bastone e frantumò gli idoli che suo padre aveva fabbricato.
“Lontano dall’accampamento”
Veramente l’uomo fu creato una seconda volta. Egli si addormentò come uomo “solo” e si svegliò trovando vicino a sé Eva. Dio aveva voluto che l(uomo esistesse n ella solitudine e ne avesse coscienza. Ma volle pure che l’uomo rompesse la propria solitudine, si avvicinasse al tu e condividesse con esso l’esperienza esistenziale.
“Non è bene che l’uomo stia da solo” — disse il Signore Iddio. L’uomo non è soltanto colui che contesta e che nega: è anche colui che afferma. Non è soltanto un iconoclasta: è anche colui che costruisce. Se fosse rimasto per sempre lontano da ogni uomo e da ogni cosa, allora la creazione non avrebbe potuto raggiungere il suo fine. Mosè fu il più grande tra coloro che vissero in solitudine (egli piantò la sua tenda “lontano dall’accampamento“) e al tempo stesso la grande guida, padre e maestro per il popolo,colui al quale tutto il popolo si sentiva legato, come è scritto: “A partire dall’indomani… il popolo stava davanti a Mosè dal mattino fino a sera” (Esodo, 33:7; 18:13). In breve, allo scopo di realizzare se stesso, l’uomo deve essere solo, ma, contemporaneamente, essere membro di una comunità.
Riconoscere l’altro
Come si forma una comunità? La risposta è semplice: due singoli individui creano la comunità così come Dio creò l’uomo. Quale strumento operò Dio nella creazione? La parola. La parola è anche lo strumento mediante il quale l’uomo crea la propria comunità. Dio dicendo “sia!” — parola che equivale al riconoscimento dell’esistenza del mondo — permise ad una realtà di emergere accanto a Sé; permise al finito di coesistere accanto all’infinito, nonostante che, secondo l’equazione matematica, finito+infinito = infinito (in altre parole, è impossibile la coesistenza tra finito e infinito). Dio, allora scopo di fare spazio al mondo finito, impiegò la middatah ha—simzum, la qualità della propria contrazione e della propria limitazione, se così si può dire. Si contrasse, lasciando uno spazio vuoto per il mondo, altrimenti questo non avrebbe mai visto la luce, e sarebbe stato inghiottito dall’infinito. Perciò possiamo proporre la seguente equazione: creazione = riconoscimento = autocontrazione = atto di sacrificio.
Lo stesso vale per l’uomo. Se l’uomo solo desidera venire proprio dalla propria solitudine esistenziale verso la totalità degli esseri, allora, la prima cosa che deve fare è quella di riconoscere l’esistenza di un’altra realtà. Naturalmente questo riconoscimento è, eo ipso, un atto di sacrificio, in quanto la pura ammissione che tu esisti in aggiunta a me equivale allo zimzum, all’autolimitazione e all’autocontrazione. La comunità si stabilisce proprio nel momento in cui l’io riconosce il tu e gli estende il proprio saluto. Un individuo estende all’altro individuo il saluto shalom!; così facendo egli ha creato una comunità. La halachà conferisce particolare importanza al saluto occasionale scambiato tra due individui, Rabbi Helbò afferma: Se il tuo amico lo saluta ed egli non risponde al saluto, egli viene chiamato ladro. In quanto è scritto: “Voi avete divorato la vigna e la roba rubata al povero è nella vostra casa “6. Quale messaggio trasmette il saluto “shalom” se non incoraggiamento e conforto all’uomo solo e disagiato? la halachà stabilisce di restituire il saluto, e in alcuni casi di anticiparlo, perfino durante la recitazione dello shemà7. La consapevolezza circa l’esistenza dell’altro mediante il saluto o la restituzione dello stesso, non è in conflitto con la kabbalath ‘ol malchuth shamaim (l’accettazione del gioco del regno del Cielo — che si consegue attraverso la lettura dello shemà). La halachà diresse all’uomo: non lasciare che il tuo prossimo perduri nella strada della solitudine, non permettere che quello sia lontano e alienato da te, persino quando sei occupato nella recitazione dello shemà.
Se il Santo, benedetto Egli sia, ha voluto che il mondo emergesse dal nulla in modo da esternare il proprio amore sull’universo, l’uomo solo deve riconoscere l’esistenza di qualcosa di altro in modo da avere l(opportunità di esternare il proprio amore. Si ritorna così alla stessa equazione: riconoscimento significa atto di sacrificio; l’individuo si ritira in modo da lasciare spazio al tu.
Solo fra gli altri
Accade molto spesso che l’uomo si trovi in mezzo alla folla, in mezzo a gente estranea. Si sente solo. Nessuno lo conosce, nessuno gli rivolge l’attenzione, nessuno è interessato a lui. Anche questa è un’esperienza esistenziale. Allora, comincia a considerare il valore del proprio essere. Si sente separato dalla folla che lo circonda. Improvvisamente, però, qualcuno gli batte sulla spalla e gli dice: “Tu, non sei tu il tal dei tali? Ho sentito tanto parlare di te!”. In una frazione di secondo cambia la sua considerazione. Quello che era un essere estraneo si trasforma in un compagno, membro di una comunità che esiste (la folla). Che cosa ha prodotto il cambiamento? Il riconoscimento ricevuto da parte di qualcuno, la parola!
Riconoscere una persona non è soltanto identificarla dal punto di vista fisico. C’è in verità qualcosa di più: si tratta di un atto che conduce al riconoscimento dell’esistenza altrui, ammettendo che egli ha un compito da svolgere, che soltanto lui può svolgere in maniera appropriata. Riconoscere una persona vuol dire che questi ha un compito insostituibile. Offendere una persona significa dirgli apertamente che egli è una nullità e che non c’è alcun bisogno di lui.
La halachà mette sullo stesso piano colui che offende il prossimo in pubblico e colui che commette un omicidio. Per quale motivo? Poiché l’umiliazione equivale all’omicidio8. Distruggere una comunione esistenziale, equivale riportare l’individuo alla sua solitudine. Per la persona caritatevole non è sufficiente tendere a qualcosa di più: ovvero restituire alla persona che da lui dipende il senso della dignità e del proprio valore. Questo è il motivo per cui gli Ebrei hanno sviluppato una particolare sollecitudine nei confronti degli orfani e delle vedove proprio perché queste persone sono estremamente sensibili, hanno perduto ogni sicurezza di fronte alla più irrilevante provocazione. La Bibbia ci ha messo in guardia contro il recare offesa all’orfano ed alla vedova.
“Quando R. Shimon ben Gamliel e R. Ishmael comparvero (davanti ai Romani) e fu decreta per loro la pena di morte. R. Shimon si mise a piangere. Allora R. Ismael gli disse: “Maestro, tu sei ad un passo dal consesso dei giusti, e piangi?” Gli replicò: “Io piango, poiché sta per essere eseguita la condanna come se noi fossimo degli omicidi o dei profanatori del Sabato”. R. Ishmael gli rispose: “Può darsi che tu eri seduto a mensa, oppure dormivi, e venne da te una donna a interrogarti a proposito della sua purità rituale. Il tuo servo allora le disse: ‘Egli adesso dorme!’ Non dice forse la Torà: ‘se tu ti affliggerai (la vedova e l’orfano)…’ ed aggiunge: ‘allora ti ucciderò con la spada’?””9.
In che cosa la condotta di R. Shimon non era stata corretta? Egli era tornato a casa stanco per un breve riposo. Era stata una giornata abbastanza pesante; il grave onere della responsabilità comunitaria ricadeva tutto sulle sue fragili spalle. Perdurava il crudele dominio romano con la sua tragica politica, fatta di persecuzione religiosa e di distruzione dell’economia della nazione. R. Shimon ben Gamliel doveva portare avanti un compito estremamente difficile; negoziare con il conquistatore, da una parte, e combatterlo, dall’altra; rivolgersi ai propri fratelli Ebrei invitandoli a non disperare, e, al tempo stesso, prepararli alla rivolta e all’estremo sacrificio.
Proprio mentre era preso dal sonno, era entrata una donna, colta da un dubbio circa una questione di purità spirituale. Il servo, ben sapendo quanto fosse stanco R. Shimon, l’avvertì di attendere fino a che R. Shimon si sarebbe svegliato; lui non voleva disturbare R. Shimon. La donna era una povera vedova, perciò una persona estremamente sensibile.
Mentre aspettava R. Shimon, un pensiero le attraversò la mente: se fosse venuto il mio vicino di casa che è persona ricca — ella continuò — il servo mi fa aspettare; sospirò e una lacrima scese dai suoi occhi. In questo modo R. Shimon aveva recato afflizione ad una vedova, violando così un’esplicita proibizione biblica. Quella lacrima fu la causa della tragica morte di R. Shimon: “Una grande afflizione e una piccola afflizione sono la stessa cosa“10. Il grado dell’offesa è irrilevante; provocare un’umiliazione passeggera o causare un dolore lancinante sono ambedue da considerarsi come afflizione.
Dal momento in cui ho riconosciuto il “tu” e l’ho invitato a far parte della comunità, immediatamente ho assunto delle responsabilità nei suoi confronti. Riconoscere equivale ad avere degli obblighi.
Anche in questa situazione noi seguiamo le orme del nostro Creatore. Dio creò l’uomo; Dio non l’abbandona; Dio ha sempre dimostrato interesse per lui. Dio ha avuto cura di Adamo; Dio disse: “Non è bene per l’uomo essere solo”. Dio provvide per lui un compagno; Dio lo collocò nel Paradiso egli permise di godere dei frutti del Giardino dell’Eden. Anche dopo che l’uomo peccò e fu cacciato dal dal Giardino, Dio non lo abbandonò. Certo, lo ha punito. Purtuttavia ha continuato ad interessarsi e ad occuparsi di lui proprio mentre era nel peccato. In breve, Dio si è assunto la responsabilità verso qualunque cosa e verso qualunque individuo che Egli ha creato: “Egli dà pane ad ogni creatura poiché eterna, è la Sua misericordia“11, Come si è detto sopra, il medesimo rapporto deve instaurarsi tra “me” e il “tu” che ho riconosciuto e con il quale ho formato una comunità. Io assumo la responsabilità per ogni membro della comunità il quale ho esteso il mio riconoscimento e che ho ritenuto degno di essere mio compagno. In altre parole, l’”io” è responsabile del benessere fisico e psichico del “tu”.
Comunità di preghiera
Quando l’”io” si rende conto delle proprie responsabilità circa il benessere del “tu”, che lui ha aiutato a divenire in essere, nasce una nuova comunità: la comunità della preghiera. Che cosa significa questo? Significa una comunità in cui il dolore è di tutti, la sofferenza è di tutti. La Halachà richiede ad ogni individuo di includere il proprio prossimo nella preghiera. L’individuo non deve limitarsi alle proprie necessità, non importa quanto pressanti possano essere queste necessità, e quanto elevata possa essere la propria posizione. La halachà ha stabilito che il linguaggio della preghiera fosse al plurale ed è raro trovare una preghiera al singolare. Perfino le preghiere private, quelle che si recitano, ad esempio, in occasione di malattia, di morte, o per altri momenti cruciali, sono recitate al plurale: “Possa l’Onnipotente consolarvi insieme con coloro che provano lutto per Sion e Gerusalemme“. “Ti imploro di inviare a questa persona guarigione completa come pure agli altri ammalati del popolo d’Israele“12. Quali siano le necessità, la preghiera non deve restare limitata all’individuo. Per quaranta giorni, di continuo, Mosè pregò in favore della comunità,e il Signore ascoltò la sua preghiera e ne perdonò il peccato: “E mi gettai in preghiera davanti al Signore come la prima volta per quaranta giorni e quaranta notti; non mangiai pane e non bevvi acqua, a causa del vostro peccato” (Deuteronomio, 9:18).
°In un’altra occasione, invece, quando Mosè tentò di rivolgere la sua preghiera all’Onnipotente, Dio lo interruppe nel bel mezzo, non gli permise di continuare, e neppure esaudì il suo desiderio. Mosè aveva pregato per se stesso, e l’Onnipotente aveva respinto la sua preghiera: “Implorai il Signore in quel momento dicendo: “… O Signore Iddio … lasciami passare e vedere la buona terra che è al di là del Giordano, quella terra buona e montuosa e il Libano“. Ma il Signore si adirò contro di me… non mi dette ascolto, ed il Signore mi disse: “Basta! non parlarMi più su questo argomento!” (Deuteronomio, 3, 23-26). Allorché Mosè aveva pregato al plurale, allora tutte le porte della preghiera erano spalancate e il Signore gli concesse di intercedere per tanti giorni in favore del popolo. Ma appena Mosè mutò la sua preghiera al singolare, le porte della preghiera e della misericordia gli furono sbattute in faccia.
Il Midrash sottolinea che se la comunità si fosse congiunta con lui nella sua preghiera, Dio avrebbe esaudito la sua richiesta. Dio non avrebbe respinto la preghiera della moltitudine13. Sfortunatamente la comunità non comprese il valore della preghiera recitata dalla collettività; come conseguenza della loro incomprensione, Mosè morì nel deserto.
Normalmente, la preghiera dell’individuo concerne o il dolore fisico, o l’angoscia psichica o sofferenze che l’uomo non riesce più a sopportare. A questo livello, la preghiera non costituisce una risorsa esclusiva dell’uomo. Una qualsiasi muta creatura reagisce al dolore fisico con un grido e un lamento. Una simile reazione è descritta nel verso: “O Tu che ascolti la preghiera, a Te verranno tutte le creature“14. Ma una preghiera espressa al plurale è un’attività esclusiva dell’uomo. Per quale motivo quando prego uso il plurale? Perché quando prego non sento solo la mia pena ma anche quella di tutta la collettività. L’io sente la sofferenza di milioni di individui. L’io è sensibile alla sofferenza di tutti gli uomini. Ha affermato R. Jehudà Hallevì: “Israele in mezzo alle nazioni è come il cuore in mezzo alle altre membra… il cuore, grazie alla sua estrema sensibilità, registra il più leggero trauma“15. La Keneseth Israel è una comunità basata sulla preghiera dove la sofferenza di ciascun individuo, non è solamente la propria esperienza, bensì quella di innumerevoli altri individui. Ricordo ancora il dolore provato da noi fanciulli, quando sentimmo notizie delle persecuzioni contro alcune città ebraiche lontane migliaia di chilometri. La nostra angoscia non era dovuta alla paura, bensì alla compassione e alla partecipazione alla sofferenza di tutta la collettività. La gloriosa tradizione di carità del nostro popolo attraverso i tempi, è il risultato del fatto che la nostra è una comunità basata sulla preghiera e sulla reciproca compassione.
Comunità di carità
È ovvio che una comunità basata sulla preghiera deve essere, al tempo stesso, una comunità basata sulla carità. Non è sufficiente sentire la sofferenza degli altri, non è sufficiente pregare per la collettività se ciò non induce ad azioni caritatevoli. Perciò la Keneseth Israel non è una comunità basata solo sulla preghiera, ma una collettività che ha anche come presupposto e come punto di riferimento le opere di carità. Noi doniamo, preghiamo per tutti in quanto siamo sensibili alla sofferenza; noi tentiamo di aiutare la collettività. Noi Ebrei abbiamo sviluppato una particolare sensibilità alla sofferenza, e ciò è caratteristico degli Ebrei. Il termine che indica questo concetto è rachamanuth — termine usato spesso anche in Yiddish — che deriva da rachem, rachaman.
Quale è il valore semantico di rachaman in contrapposizione a merachem? Merachem denota una attività, ossia una persona che esegue atti di misericordia; il termine non lascia trasparire le motivazioni che possano avere spinto l’individuo a simili azioni. Rachaman, a differenza del termine merachem, ci dice non solo che una persona agisce con misericordia, ma che egli stesso, nella sua natura più profonda, è misericordioso. Colui che è rachaman ha misericordia e comprensione come se non avesse altra scelta; è misericordioso in quanto la misericordia lo spinge a ciò16. Il termine rachamanuth descrive la misericordia come parte integrante della personalità, indica l’estrema sensibilità verso la sofferenza, ed esprime in maniera meravigliosa il tipico e specifico sentimento dell’Ebreo verso colui che soffre.
La comunità basata sul sentimento di preghiera e di carità, raggiunge il suo più elevato livello di fratellanza e di comunione nel rapporto basato sull’insegnamento, dove maestro e discepolo sono tra loro strettamente legati. La comunità basata sull’insegnamento ruota intorno ad una persona adulta, il maestro, che comunica e si accomuna con un gruppo di vivaci allievi. Egli è giovane quanto loro e loro sono anziani quanto lui. “Noi abbiamo un vecchio padre, e un giovane ragazzo” (Genesi, 44:20) — dissero i fratelli a Giuseppe in Egitto.
Nella storia ebraica, la figura centrale non è stato né il re, né il condottiero militare e neppure il leader politico; bensì l’anziano maestro circondato da giovani allievi.
<“Quando i vostri figli vi diranno: che cosa è questo?… tu dirai a tuo figlio… ripeterai ai tuoi figli” (Esodo, 12:26, 13:8; Deuteronomio, 6:7).
Qual è la funzione del maestro? Egli racconta una storia. Qual è il significato di questo racconto che viene ormai ripetuto per centinaia di volte di generazione in generazione? Noi raccontiamo ai giovani la storia di leggi che costituiscono la base della morale ebraica; raccontiamo loro la storia dell’onestà e della sincerità, dell’amore e della simpatia reciproca. Questo racconto insegna al giovane di non rubare, di non mentire e di non essere vendicativo. Noi cerchiamo anche di narrare al ragazzo la storia di norme il cui significato non ci è completamente conosciuto. Noi narriamo il racconto dei chukkim, norme la cui logicità ci sfugge; della sottomissione dell’uomo al suo Creatore, il racconto della sospensione del giudizio umano di fronte ad una volontà superiore.
Raccontiamo pure al ragazzo la storia di un popolo che ha incontrato Dio, si è legato a Lui con un patto e si è impegnato in un dialogo con l’Onnipotente. Raccontiamo al giovane la storia del nostro passato; aiutiamo il ragazzo a sviluppare una memoria storica; educhiamo i ragazzi a non dimenticare gli eventi del passato. Raccontiamo ai ragazzi la storia del nostro confronto con Dio nel deserto; stimoliamo il ragazzo a non dimenticare la nostra liberazione dalla schiavitù e il nostro incontro con Amalek, il Satana distruttore. Insegniamo al ragazzo ad essere fedele a questa memoria, alla terra, al Santuario.
Non ripetiamo racconti che rievocano solo eventi storici; raccontiamo invece storie grazie alle quali l’esperienza di eventi accaduti millenni orsono viene nuovamente riproposta. Raccontare una storia significa rivivere un evento. Noi usiamo ancora sederci in terra e piangere la distruzione del Santuario, un episodio che ha avuto luogo 1900 anni orsono. Ancora celebriamo l’Esodo, un fatto accaduto agli albori della nostra storia. Le nostre storie non riguardano solamente il nostro passato, ma anche il nostro futuro. Raccontiamo ai nostri ragazzi la storia della paziente attesa per la magnifica realizzazione della promessa, non importa quanto tempo si frapponga alla sua realizzazione.
In breve, è una storia eccitante quella che noi raccontiamo a loro. È la storia di una comunità basata sull’insegnamento che cavalca i secoli, che comprende le generazioni che sono vissute millenni orsono, che hanno dato il loro contributo alla Keneseth. !Israel, sono ormai uscite di scena. Narriamo loro la storia di persone che ad un certo momento del lontano futuro entreranno sulla scena della storia. Il nostro racconto riunisce innumerevoli generazioni; il passato, il presente e il futuro si confondono in esso in una grande esperienza.
Contrariamente al popolare detto medievale17, la nostra storia racconta di un glorioso passato che è ancora reale, in quanto ancora non ha perduto il suo significato; in quanto ancora non ha perduto il suo significato; di un futuro che è già qui, e di un presente ricco di possibilità creative, pieno di occasioni e di sfide.
È un piacere e un privilegio far parte di una tale comunità basata sui sentimenti di preghiera, di carità e di insegnamento, una comunità che respira l’aria dell’eternità.
R. Joseph B. Soloveitchik
(traduzione e adattamento a cura di Rav. A. Piattelli)
Rabbi Joseph B. Soloveitchik viene oggi riconosciuto come uno dei maggiori pensatori ebrei viventi. Le sue lezioni tenute alla Yeshiva University di New York e i suoi scritti costituiscono importanti punti di riferimento per tutti coloro che desiderano trovare un sicuro orientamento nel tormentato mondo moderno o risalire la china dell’assimilazione e tentare il recupero dei valori ebraici più autentici.
Il saggio qui riprodotto riassume alcune tematiche filosofiche del Rav e fu presentato alla Conferenza dei Servizi Comunitari Ebraici tenutasi a Boston il 31 maggio 1976.
NOTE
1 Il principio della halachà secondo cui En Hazzibur Metim — “il pubblico non muore” — (Talmud babilonese, trattato Temurà, 15 b), si basa sul concetto sopra ricordato: l’esistenza della comunità come entità metafisica è al disopra dell’esistenza fisica degli individui che ne fanno parte. Vedi pure il commento di Ramban a Genesi, 21, 1.
2 Questa idea è basilare nella filosofia di Ibn Ghebirol e raggiunge la sua classica formulazione in Maimonide, Guida agli Smarriti, 1, 72
3 Mishnà Sanhedrin, 4:5.
4 Una situazione tragica di alienazione e di solitudine, simile a questa, è ben descritta nel romanzo. La morte di Ivan Ilich, di Leon Tolstoi.
5 L’autore si riferisce qui alla creazione di Adamo, come singolo individuo, in Genesi 2:7 che segue alla creazione dell’uomo “a immagine di Dio, maschio e femmina” in Genesi 1:7 (n.d.t.).
6 Talmud babilonese, trattato di Berachot, 6a; il verso citato è in Isaia 3:14.
7 Mishnà Berachoth, 2:1.
8 Talmud babilonese, Babà Mezià, 58b: “kol hamalbin penè chaverò barabim keillu shofech damim” (Chiunque offende pubblicamente il prossimo, è come se commettesse un omicidio).
9 Talmud babilonese tratto di Semachoth, 8:4; verso citato da Esodo, 22:22–23; variante in Mechiltà derabbi Ishmael sull’Esodo.
10 Mechiltà derabbi Ishmael, ivi.
11 Salmi, 136:25. Vedi Maimonide, Guida agli Smarriti, III, 54.
12 Talmud babilonese, trattato Shabbath, 12a–b: “insegnano i Maestri: quando uno fa visita ad un ammalato, dice: possa l’Onnipotente avere misericordia di te e di tutti gli ammalati di Israele: questa è l’opinione di R. Yehudà. Secondo R. Josè deve invece dire: l’Onnipotente possa avere misericordia di te tra gli ammalati d’Israele”. (Spiega Rashi: mediante l’inclusione degli altri, la sua preghiera viene ascoltata, grazie al merito degli altri). Ahhayè disse: “L’individuo deve sempre sentirsi come parte della comunità” (Rashi spiega: non deve esprimere la preghiera al singolare, bensì al plurale, perché grazie a ciò la sua preghiera viene ascoltata).
13 Sifré (su Deuteronomio, 3:24). “Quando quelli si fabbricarono il vitello d’oro,… io mi levai e pregai per loro, e Tu hai dato ascolto alla mia preghiera, ed hai perdonato la loro colpa; io pensavo che anch’io sarei stato nella loro preghiera; invece essi non hanno pregato per me. Se la preghiera di un singolo a favore della collettività viene esaudita, a maggior ragione lo deve essere la preghiera della collettività espressa in favore del singolo”.
14 Salmi, 65:3.
15 Jehuda Hallevì, Kuzari, 11, 36, 41;
16 Cfr. il commento del Gaon di Vilna al Siddur Ishè Israel, pag. 442 che cita il commento di Rashi al Trattato Babà Mezzià del Talmud babilonese, 33a.
17 Il passato non c’è più — il futuro è da venire — il presente è come un battito d’occhio. Se è così, perché affliggersi?”. Citato dal Dizionario di E. Ben Yehuda, s.v. ‘avar, vol. 9, pp. 4291–2.
Itinerari ebraici / 2
L’itinerario suggerito per le Marche si presenta breve nei percorsi ma denso per la storia che vide gli ebrei locali intrecciare rapporti e commerci con la popolazione locale. Si parte da Urbino, città di antica tradizione rinascimentale, raccolta su due colli adiacenti, che conserva ancora molte testimonianze della signoria del Montefeltro, che raggiunse il massimo splendore nella seconda metà del secolo XV.
Il feudo apparteneva tuttavia alla famiglia già dal 1213 e fin dal ‘300 sono registrate ad Urbino presenze di banchieri ebrei. Nel ‘500 la signoria passò ai Della Rovere e le attività artistiche furono rallentate. A metà del ‘500, quando papa Paolo IV Carafa emanò la bolla di restrizioni antiebraiche “Cum nimis absurdum” (con la quale veniva istituito il ghetto di Roma (1555), venivano preclusi molti mestieri agli ebrei e si imponeva loro di vendere gli immobili di cui erano proprietari), mentre venivano anche avviate altre restrizioni, come il primo Indice dei libri proibiti (1557), il ducato di Urbino fu, per molti ebrei in fuga, un rifugio. Per ottenere la definitiva cittadinanza chiesero ed ottennero da Guidobaldo II Della Rovere di far deviare su Pesaro i traffici commerciali del porto di Ancona. Ciò suscitò violente reazioni da parte papale tanto che Guidobaldo, convinto dal papa, rinunciò all’impresa e scacciò per di più dal proprio ducato tutti i marrani che vi si erano trasferiti.
Nel 1569 altri ebrei in fuga giunsero da Bologna. Nel 1631 Urbino passò alla Chiesa che vi istituì il ghetto nel 1634.
Nel 1799 il ghetto fu saccheggiato, come quelli di Pesaro, Pitigliano e molti altri. Il recinto fu in seguito aperto e istituito di nuovo dopo i moti del 1831. Rimase tuttavia, fino alla definitiva abolizione, un ghetto senza cancelli, come quello di Roma.
Il tempio si trova sulla prima parallela di via Mazzini, al primo piano del palazzo che ospitava la comunità, che oggi conta solamente due famiglie. L’interno del tempio, di grande interesse, appare oggi ben restaurato, diviso tra i due punti focali di Aròn–ha–qòdesh sulla parete orientale e bimà su quella occidentale. L’alto soffitto della sala è arricchito su un lato dalle finestre del matroneo. Per la visita si può chiedere alla comunità di Ancona (v. numero di tel. nella voce Ancona), che fornirà indicazioni sulle famiglie ebraiche di Urbino.
Da Urbino si scende poi verso il mare per la ss. 423 che segue nel primo tratto il corso del torrente Apsa e poi la valle di Foglia fino a Pesaro, che conserva solo nel centro storico l’aspetto cinquecentesco. Ebrei prestatori di denaro erano presenti a Pesaro fin dal ‘300 e, come ad Urbino, altri ebrei vi giunsero in fuga dallo stato Pontificio tra il 1555 e il 1569.
Nel 1626 vivevano a Pesaro circa 500 ebrei, appartenenti a 76 famiglie, per buona parte agiate. Nel 1631 anche Pesaro passò alla Chiesa e nel 1634 vi fu istituito il ghetto. Tra ‘700 e ‘800 toccò agli ebrei di Pesaro la stessa sorte di quelli di Urbino. Nel 1799 anche il ghetto di Pesaro subì il saccheggio popolar e la razzia.
Gli ebrei locali scesero a 150 nel 1869 e a 50 alla fine del secolo scorso, fino all’estinzione di questo secolo.
Il tempio italiano non esiste più; alcune suppellettili sono state trasportate a Milano e in Israele. Rimane il tempio spagnolo, del ‘700, in via delle scòle, il cui interno è ricco di preziose decorazioni, tra cui un affresco, che rappresenta Gerusalemme, a fianco della Tevàh (per la descrizione degli interni v. articolo a fianco).
Uscendo dalla città verso nord si chieda della salita di S. Bartolo (da cui si gode tra l’altro un bel panorama di Pesaro). Su un curvone a metà salita si trova il cimitero ebraico, con tombe del ‘700 e dell’’800, di forme diverse, tra cui la piramidale e quella cilindrica tipica della zona. La parte alta del cimitero appare vuota e coperta di arbusti, spogliata delle lapidi da furti ripetuti. Per la visita chiedere informazioni presso la comunità di Ancona (v. alla voce Ancona£) telefonando prima della partenza per concordare un appuntamento (soprattutto per la sinagoga).
Per la litoranea adriatica, ss. n. 16, in direzione sud, si arriva a Senigallia, che fu possedimento del Malatesta, dei papi, dei Della Rovere e infine, dal 1631, della Chiesa.
Gli ebrei risiedevano a Senigallia già nel XV secolo e il loro numero si accrebbe verso la fine del ‘500.
Il ghetto vi fu istituito nel 1634 e nel 1691 fu obbligatorio il segno giallo di riconoscimento. Nel 1700 vivevano a Senigallia circa 500 ebrei. Tra ‘700 e ‘800 alla comunità toccò sorte alterna, prima con l’arrivo delle truppe napoleoniche,, poi con i saccheggi delle truppe russo-turche spalleggiate dalla popolazione locale (13 ebrei furono trucidati).
Il ghetto fu aperto il 17 aprile 1848. Attualmente la comunità conta poche famiglie ed è affiliata ad Ancona.
La sinagoga si trova sulla vecchia strada del ghetto, oggi via Commercianti, in un edificio su cui sono rimasti murati i cardini dei cancelli del vecchio recinto. L’interno è separato nei due punti focali di Aròn–ha–qòdesh e bimà.
Il cimitero, ridotto di dimensioni per far posto a nuove costruzioni, è stato risistemato di recente.
Per la visita chiedere alla comunità di Ancona.
Ancora verso sud, per la strada adriatica, si giunge ad Ancona, che già nel ‘300 era seconda solo a Roma per numero di ebrei residenti. Crebbe ancora di importanza verso Levante. Ad Ancona, come a Roma, gli ebrei furono autorizzati a restare, sebbene rinchiusi nel ghetto, quando le bolle papali li scacciarono da ogni altro centro dello stato Pontificio.
Nel !1831 fu abolito il ghetto e, con il risanamento successivo, scomparvero le vie del Bagno, de’ Banchieri, il vicolo delle Azimelle, e l’edificio, in via Astagno, nella zona del vecchio ghetto.
Gli interni sono di grande interesse e valore, tra cui le preziose porte d’argento dell’Aròn–ha–qòdesh e del tempo italiano, che risalgono al 1635.
La visita può concludersi al cimitero di monte Cardeto, uno sperone in frana alto 102 metri e a picco sul mare, a poche centinaia dimetri dal centro storico. Fu utilizzato dal 1428 al 1863. Recentemente è stato spogliato di lapidi antiche di grande valore dai furti e dalla frana che trascina le tombe in mare. Rimangono alcune lapidi cilindriche del ‘700, caratteristiche della zona, in pietra bianca del Cònero.
Per la visita e per informazioni su tutte le comunità delle Marche rivolgersi alla comunità di Ancona: Via Manfredo Fanti, 2 bis; tel. 071/202638.
(A cura di Luca Fiorentino della Commissione beni culturali dell’UCII)
La Sinagoga di PesaroIl banchiere Mordekhaj Volterra (che divenne famoso come consigliere politico-finanziario dei principi Della Rovere di Pesaro Urbino e dei principi Medici di Firenze) ebbe l’iniziativa di progettare ed erigere la sinagoga.Nel rinascimento era naturale basarsi su modelli architettonici classici. Ed infatti nel piano della sala di preghiera le misure vennero stabilite in base al criterio della sezione aurea (circa 11,5 x 7 x 4,5 m). Il piano interno della sala era bipolare, a tre livelli e del modello D secondo la classificazione sinagografica del Pinkerfeld. Il piano era molto simile a quello delle sale di preghiera delle sinagoghe storiche di Ancona (la levantina vecchia e l’italiana); ed infatti in tutte e tre queste sinagoghe spicca ciò che caratterizza il tipo D: la Bimà e Aròn ha-Qòdesh, situati ai due poli della sala, costituivano dei sottospazi separati dalla parte centrale della sala; essi si trovavano su livelli più alti di quello del pavimento della sala; la separazione di essi dalla parte centrale dalla sala era accentuata per mezzo di colonne ed archi.Le influenze classiche erano evidenti anche nelle porte dell’Aròn ha-Qòdesh, colle colonne laterali e l’architrave, e così pure con il fregio a rose che copriva tutta la zona della volta (fregio plastico, che ricordava il fregio della volta delle tombe ebraiche di Villa Torlonia a Roma).La Bimà monumentale era senza dubbio l’insieme architettonico più caratteristico, che sia stato progettato ed eseguito nel primo stadio. Essa era composta di un ballatoio aderente al muro occidentale della costruzione, da due rampe di scale aderenti ai muri laterali) che portavano al ballatoio, da colonne e un arco triplice (sopra le scale e il ballatoio) che mettevano in rilievo,come si è detto, la separazione tra il sottospazio della Bimà e la parte centrale della sala. In due affreschi, ai due lati del ballatoio della Bimà, un artista ignoto raffigurò in maniera ideale Gerusalemme con il Santuario ed anche il Monte Sinai.Aderenti ai muri laterali della sala vennero poste panche di legno. Nella sala vi erano anche panche doppie, parallele a quelle dei muri. Questa sistemazione dei posti a sedere era analoga a quella di altre sinagoghe delle Marche e di quella detta “Il Tempio” a Roma; essa permetteva agli oranti di rivolgere facilmente lo sguardo sia all’Aròn ha-Qòdesh che alla Bimà; al tempo sesso permetteva all’officiante di rivolgere facilmente lo sguardo al pubblico e di guidare il canto, eseguito con la partecipazione di tutti i presenti secondo l’uso sefardita.In stadi posteriori venne sistemata una balaustra, di legno lavorato e dorato, per la Bimà; invece attorno all’Aròn ha-Qòdesh vennero sistemati ornamenti pesanti e di fatto inutili, di stile barocco. |
Halakha per tutti
Le giornate chiamate con il termine più esatto “Jom tov” e spesso popolarmente negli ultimi secoli con quello meno esatto “Mo’ed” ed in italiano “feste solenni”, sono, come è noto: il primo e l’ultimo giorno di Pesach (nella Diaspora i primi due e gli ultimi due), il giorno (nella Diaspora i due giorni) di Shavu’òth, i due giorni di Rosh Ha-Shanà, il primo giorno di Sheminì ‘Azereth (detto in Erez Israel Simchat Torà, e nella Diaspora entrambi i giorni, di cui il secondo è detto Simchath Torà).
Per tutte queste giornate (ed anche per i giorni di mezza festa di Pesach e di Sukkòth) viene indicata dalla Torà e da tutta la tradizione, come caratteristica comune, quella di essere momenti di gioia per le famiglie e per gli individui indigenti (che ogni famiglia in grado di farlo ha il dovere di invitare a partecipare alla sua gioia). In realtà la Torà non riferisce questo punto al Rosh Ha–Shanà (chiamato n essa Jom teru’à — giorno del suono — o Zikhron teru’à — ricordo del suono, con allusione al suono dello Shofar), ma già nel libro di Neemia (VIII, 12) si parla di celebrazione gioiosa della giornata, dopo che il popolo era stato invitato alla penitenza attraverso la lettura della Torà. Si può dire che almeno da allora, accanto al raccoglimento che è caratteristica del Rosh Ha-Shanà come inizio del pericolo penitenziale, la ricorrenza ha anche un connotato di allegria.
Nella liturgia italiana — a differenza di quella sefardita e di quella askenazita — anche il Rosh Ha–Shanà è designato, come gli altri “jamim tovim“, con la frase “mo’adim le simchà chagghim u–zmannim le–sason“, cioè “ricorrenze destinate alla gioia, feste e momenti destinati all’allegria delle giornate festive di Pesach, Shavu’oth e Sukkòth nel periodo normale di vita del popolo ebraico, ossia quanto esisteva il Santuario, erano fra l’altro i pasti costituiti in misura notevole dal Qorban Chaghigà (sacrificio festivo, consumato per la maggior parte dagli offerenti) e dai prodotti del Ma’aser Shenì (la decima che andava prelevata in tutta Erez Israel e da consumarsi a Jerushalajim specialmente in occasione del pellegrinaggio). Il dovere di far godere di questi cibi anche agli indigenti, che non erano in grado di portare sacrifici personali o che non avevano loro prodotti a cui prelevare la decima, costituiva senza dubbio un elemento che accentuava la fratellanza fra tutti gli ebrei, senza differenza di censo o di classe sociale; è ben noto infatti come nulla avvicini gli individui gli uni agli altri come la mensa comune.
Qualcosa del genere succedeva a quel che pare — anche se non comandato esplicitamente dalla Torà — anche di Rosh Ha–shanà, in base a quanto ci viene riferito nel versetto succitato di Neemia.
Durante il lungo esilio, in cui per ragioni superiori alla nostra volontà non possiamo offrire il sacrificio, resta sempre il dovere di essere allegri nelle giornate che ricordano grandi eventi della nostra storia — allegria che non può essere completa se non si esprime con la riunione delle famiglie, in amore e concordia, presso la tavola comune e con l’invitare a partecipare a tale gioia le persone colpite da disgrazie materiali e morali: Israele è un’unità inscindibile e nessuno dei suoi membri può provare vera gioia fino a che anche uno solo dei suoi fratelli non ha la possibilità di godere come lui.
Oltre a questo elemento familiare e sociale ognuno dei “jamim tovim” ha la sua Mitzvà caratteristica: la Mazzà e il sacrificio pasquale (provvisoriamente sostituito dal Seder) a Pesach, lo Shofar a Rosh Ha–Shanà, la Sukkà e il Lulav a Sukkòth; le sue teste di chiusura (Shavu’oth e Sheminì ‘Azereth) non hanno riti stabiliti esplicitamente dalla Torà, ma per lunga tradizione ebraica essi vengono destinati in maniera speciale allo studio ed alla meditazione della Torà stessa, come fonte della vera e più profonda gioia spirituale.
Nei giorni di Jom tov vigono quasi tutti i divieti di lavoro stabiliti per lo Shabbath. La Torà stabilisce però che in essi sia lecito preparare “solo quello che venga mangiato da ogni individuo” (Esodo XII, 16). In base a ciò è permesso accendere il fuoco nei giorni di festa solenne (naturalmente se non cadono di sabato), cucinare ed anche scannare animali destinati all’alimentazione. Però esistono varie limitazioni a tutto ciò. Il fuoco può essere solo acceso da un altro fuoco già esistente; in altre parole: in giorno di festa solenne non si può produrre fuoco con lo strofinamento di un fiammifero o con un accenditore elettrico; ma occorre avere invece un fuoco già acceso prima dell’inizio della festa ‘praticamente può servire facilmente a questo scopo un lumino a cera o a olio di lunga durata) e poi trasportare il fuoco da questo al fornello o al lume che si voglia accendere.
Il fuoco può essere prodotto non solo per cucinare, ma anche per illuminare, in quanto l’illuminazione è uno degli elementi che simboleggiano la gioia; ed anzi, è dovere accendere, accompagnando l’atto con apposita benedizione, lumi nelle sere festive come per il venerdì sera; alcuni usano aspettare ad accenderli dopo che la festa sia iniziata.
È dubbio se sia lecito fumare di Jom tov, ammesso e non concesso che ciò sia lecito nei giorni feriali a causa del danno che il fumo provoca alla salute del fumatore e degli altri individui che gli siano vicini; molti Maestri, tra coloro che non lo proibiscono tutti i giorni, permettono di fumare a chi ne prova gioia, purché, naturalmente, si accenda la sigaretta, il sigaro o la pipa, da fuoco già esistente; in nessun caso deve fumare di Jom tov chi non sia solito fumare nei giorni feriali.
L’accendere il fuoco, il cucinare e lo scannare animali sono permessi solo in quanto il fuoco così prodotto, i cibi cucinati e gli animali scannati vengano usati e non esclusivamente i altra giornata. Così, la seconda sera di festa non si possono accendere i lumi se non dopo che sia venuta notte; i preparativi per la cena della seconda sera, e naturalmente per tutto il giorno successivo, non possono essere iniziati se non col calare della notte, e prima di allora nn si deve neppure apparecchiare la tavola per la cena. Non è però proibito preparare cibo in quantità più abbondante di quella strettamente necessaria per la giornata in modo che ne avanzi per il giorno successivo (‘giorno’ va sempre inteso da sera a sera). Così pure, se vi è necessità di scannare animali in giorno festivo, basta che nella giornata stessa venga consumata una quantità anche minima della carne degli animali.
L’accensione di lumi elettrici o di forni elettrici o di stufe elettriche di Jom Tov è proibita, non solo perché si può considerare come produzione di fuoco, ma soprattutto perché l’apertura di un circuito elettrico costituisce uno dei lavori proibiti, che non sono direttamente necessari per la preparazione del cibo. Gli strumenti elettrici possono perciò essere usati solo per mezzo l’accensione automatica con l’orologio (timer) o se vengono lasciati accesi tutto il periodo festivo. Una volta accesi con mezzi leciti, non è proibito aumentare o diminuire l’intensità di calore che la fonte produce.
L’accensione di fuoco per riscaldare ambienti è permessa, con la stessa limitazione dell’accensione del fuoco per preparare cibi. È invece proibita l’accensione del fuoco o l’uso di esso per altri scopi, come la distruzione di oggetti anche qualora questa sia richiesta come Mizvà; per es. quindi se si fa del pane di Jom tov la “challà” va messa da parte e bruciata dopo finito il Jom tov; se si trova del Chamez nei giorni di festa solenne di Pesach va ugualmente messo da parte e bruciato dopo finito il Jom tov. Non è quindi lecito neppure accendere falò, se il fuoco non viene usato anche per arrostirvi cibi.
È sempre proibito spengere qualsiasi fuoco o lume, e quindi di regola vanno lasciati accesi fino a che si spengano da sé (o per mezzo dell’orologio se si tratta di impianti elettrici); non è però proibito causare indirettamente lo spengimento; cioè è, per es., lecito lasciare sul fuoco una pentola di acqua fino a che bolla e trabocchi e così spenga il fuoco sottostante.
Un problema particolare è quello dello spengimento del gas e su questo punto si hanno idee diverse tra i vari Maestri moderni. I più facilitanti ritengono che se si causa lo spengimento del fornello chiudendo la chiavetta centrale del gas (non cioè quella del fornello) e così esso si spenge un po’ più tardi, si tratti di spengimento indiretto e quindi lecito; altri invece ritengono che sia necessario usare l’accorgimento della pentola che trabocchi o installare un apparecchio simile a quello usato per la corrente elettrica che spenga automaticamente la fiamma.
L’uso dello scaldabagno elettrico di Jom tov è proibito, anche se esso è messo in funzione dell’orologio e fino a che esso è in funzione, dato che facendo uscire l’acqua ad un certo punto il termostato riapre il circuito elettrico; invece ne è permesso l’uso nelle ore in cui l’orologio ha interrotto l’erogazione della corrente allo scaldabagno.
Di Jom tov è permesso trasportare oggetti da casa a fuori e viceversa, anche se questi oggetti non hanno a che fare con la preparazione del cibo, purché non siano oggetti il cui uso e il cui spostamento sia proibito in quel giorno (ciò che con termine ebraico si chiama “Muqzè”).
Nei giorni di Jom tov sono permesso alcune attività rivolte a sollecitare la sepoltura di cadaveri, attività che sono proibite del tutto di sabato e di Kippùr; ciò perché la tradizione ebraica considera massimo onore per il defunto seppellirlo al più presto possibile. Il primo giorno di Jom tov è permesso procedere a tutto ciò che è necessario per la sepoltura, purché gli atti proibiti in tale giornata siano compiuti da non ebrei; questi debbono perciò procedere al trasporto della salma, allo scavo della fossa ed al seppellimento. Il secondo giorno invece è permesso a ebrei compiere tutti i lavori necessari per l’inumazione; ossia essi possono guidare il veicolo che trasporta la salma, scavare la fossa e ricoprirla. Va tenuto comunque presente che coloro che si recano al cimitero; sembra che non sia da escludersi che accompagnatori siano trasportati al cimitero dello stesso veicolo su cui viaggia la salma, ma vi è chi solleva dubbi su questo punto.
Dato che, come detto sopra, è proibito fare in giorno di Jom tov preparativi per un altro giorno, si pone il problema di come fare i preparativi per lo Shabbàth quanto una festa solenne cade di venerdì.
I Maestri hanno stabilito che, in questo caso, se i preparativi per lo Shabbath sono stati iniziati prima del Jom tov, sia permesso completarli nel Jom tov stesso. A questo scopo si deve preparare dal giovedì (o dal mercoledì se anche il giovedì è Jom tov) almeno un pane e un cucinato e, facendola precedere da una benedizione, recitare una formula con la quale, in base ai cibi già preparati, ci sia permesso il venerdì Jom tov preparare altri cibi ed accendere lumi per lo Shabbàth; questo si chiama ‘Eruv tavshilìn.
Menachem Emanuel Artom
Un controverso problema di Kasherùt
Esistono vari casi limite nei quali è difficile determinare se un pesce sia o meno kashèr, perché i criteri classici (soprattutto le squame) non sono definibili con precisione. La regola stabilisce, ad esempio, che quando un pesce ha le squame solo in un momento della sua vita, o le perde quando viene estratto dall’acqua è da considerarsi kashèr, anche se nel momento in cui lo osserviamo la sua pelle non ha più squame. Da qui nasce una casistica complicata e in molti casi controversa. Un esempio è quello del rombo. All’argomento è dedicata una dotta nota di I.M. Lewinger e M. Nigon in Sridim, la rivista del rabbinato europeo (“Le ‘jiùm bishelàth Da haTurbot“, p. 15-20, n. 5, Jiàr 5734). Lewinger, rabbino a Basilea, è il maggiore esperto di problemi di kasherùth dal punto di vista scientifico e l’autore dell’opera oggi di riferimento principale in proposito, Mazòn kashèr min hachài.
Il problema riguarda due pesci che in Italia sono chiamati con il nome di rombo: il rombo liscio (Pleuronectes rhombus, o Scophtalmus rombus, o Rhombus rhombus, o Psetta rhombus, o Rhombus laevis, nelle varie denominazioni scientifiche; in inglese brill) e il rombo chiodato (Pleuronectes maximus o Scoftalmus maximus, o Rhombus Maximus, o Psetta maximus; in inglese Turbot). Il primo è ricoperto di squame ed è considerato kashèr; il secondo non ha squame visibili, ed è oggetto di discussione.
Il “caso” esplose nel 1738 a Londra, quando due inviati veneziani per raccolte di denaro per Erez Israel furono visti mangiare il rombo (turbot) e ciò scatenò lo scandalo, in un luogo dove l’animale era considerato proibito. I due si difesero citando una tradizione del luogo d’origine che permetteva il pesce. Non soddisfatti della risposta i rabbini di Londra scrissero al tribunale rabbinico di Venezia, che ancora all’epoca era considerato della massima autorevolezza. La risposta parlava di una tradizione consolidata che permetteva il rombo e lo descriveva “con alla superficie come capocchie di chiodi conficcati in vari posti”; l’autorizzazione si basava su un’antica tradizione per la quale il pesce salendo dall’acqua perde le squame. Dalla descrizione sembra trattarsi proprio del rombo chiodato.
Il rombo-turbot fu ufficialmente autorizzato a Londra nel 1822 e tale rimase fino al 1949, quando fu escluso dalla lista dei pesci kashèr. Proseguirono discussioni e indagini, che non riuscirono a dimostrare la fondatezza della tradizione veneziana sulla perdita delle squame. Dal punto di vista scientifico comunque, anche ammettendo che il pesce non è) kashér restano da spiegare due dati: l’esistenza dei “chiodi sulla superficie dell’animale e il fatto che il rombo lieve e il chiodato possono riprodursi tra di loro, il che li farebbe appartenere alla stessa specie e metterebbe in discussione il principio halakhico per cui un pesce impuro non è fecondato da uno puro. Questi dati comunque non sono considerati sufficienti, secondo Lewinger, per autorizzare il turbot, che quindi proibito almeno per il dubbio.
Abbiamo chiesto al rabbino prof. Elio Toaff, che come è noto è di origine livornese ed è stato rabbino capo di Ancona e Venezia, di fornirci delle informazioni sulla persistenza di tradizioni italiane in proposito; ci ha autorizzati a riferire che anche in Italia la questione è rimasta controversa: a Livorno e Venezia il rombo (anche il chiodato) veniva mangiato, mentre ad Ancona era considerato proibito.
RDS
Chanukkà: un miracolo che si ripete
Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà.
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.
Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.
Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.
Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.
Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.
Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.
La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle “luci” del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.
La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.
Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.
Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.
Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.
Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.
Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.
Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno,anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.
Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.
Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.
Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
Gavriel Levi