- Colpe mai commesse (R. Di Segni)
- E Dio disse… (S. Servi)
- Il lunario della Diaspora (M.E. Artom)
Uno dei più diffusi pregiudizi antiebraici attribuisce agli ebrei un’indole particolarmente cattiva, severa e inflessibile. Quanto questa idea sia radicata nella coscienza popolare lo si è visto durante la guerra in Libano, nel corso della quale i giudizi sulla politica israeliana sono stati spesso deformati dai preconcetti, emersi più o meno consciamente, sulla innata perversità dei protagonisti ebrei del conflitto.
Nella formazione e nel mantenimento storico di questo speciale pregiudizio antiebraico ha avuto un ruolo fondamentale la dottrina della Chiesa. A livello teologico l’idea si è sviluppata su due linee, tra loro piuttosto collegate: la prima è la formulazione di una teoria di radicale antagonismo tra il mondo religioso ebraico, fondato sulla «Legge», e quello cristiano, basato invece sull’amore; la seconda è l’attribuzione agli ebrei delle responsabilità della morte di Gesù. Il rapporto tra le due linee è questo: gli ebrei avrebbero dato prova della loro inflessibile severità, coerente con un sistema religioso malvagio e distorto, uccidendo Gesù, che era appunto venuto a modificare radicalmente questo sistema, predicando come assoluta novità la supremazia dell’amore.
Dal punto di vista teologico e storico la contrapposizione tra legge e amore è un falso grossolano: nulla di ciò che Gesù ha detto in proposito è estraneo all’ebraismo. Il falso diventa poi una crudele aberrazione quando in nome della religione dell’amore si predica e si mette in pratica l’odio. Le conseguenze storiche di questo insegnamento sono tragicamente ben note. È noto anche il processo di correzione iniziato dalla Chiesa cattolica; nel documento ufficiale più autorevole, la dichiarazione «Nostra aetate» del Concilio Vaticano II, promulgata il 28 ottobre 1965, è detto fra l’altro: «E se autorità ebraiche con i propri seguaci si sono adoperate per la morte di Cristo, tuttavia quanto è stato commesso durante la sua Passione, non può essere imputato né indistintamente a tutti gli Ebrei allora viventi, né agli Ebrei del nostro tempo». Per quanto molto mitigata rispetto alle intenzioni originarie (e questo per motivi soprattutto politici – l’opposizione dei vescovi dei paesi arabi – a ulteriore dimostrazione della dipendenza della dottrina dalle contingenti opportunità politiche) la dichiarazione rappresentò una svolta rivoluzionaria per il cattolicesimo; fu la base per l’apertura di un nuovo rapporto costruttivo; da allora i progressi sono stati notevoli. Al momento della promulgazione anche da parte ebraica «con animo lieto e riconoscente» si interpretò il testo nel senso che «il popolo ebraico è stato finalmente assolto dall’accusa di deicidio» (RMI vol. 30 p. 487). In realtà dall’esame attento del testo risulta che furono sempre degli ebrei ad adoperarsi per la morte di Gesù; il concetto di deicidio non è discusso; la novità se nella dichiarazione che la colpa non deve essere attribuita all’intero popolo ebraico, dell’epoca e delle generazioni successive. Non vi è quindi una «assoluzione» completa; la colpa permane, ma è perdonata. Un teologo cattolico molto vicino all’ebraismo. Un teologo cattolico molto vicino all’ebraismo, F. Mussner, scrive: «Anche Israele stava sotto la croce, e il sangue di Gesù cancella anche i suoi peccati, per quanto siano grandi (Il popolo della promessa, Città Nuova, Roma 1982, p. 339); Questo per dimostrare che Israele non è maledetto: ma non lo è, non perché innocente, o perché la colpa non è trasmessa nel tempo, ma perché è stato perdonato. Mentre si parla sempre della posizione cristiana (e se ne continua a parlare, perché l’argomento ha le sue continue implicazioni nella perpetuazione di un pregiudizio), poco o nulla si dice sulla posizione ebraica. La rivoluzione avvenuta nella Chiesa ha messo in secondo piano un passato tragico, anche nella coscienza ebraica. È poi rilevante il fatto che è stato un ebreo, Jules Isaac, ad avere un ruolo eccezionalmente importante nella promozione del cambiamento nella Chiesa, per cui si tende a pensare che la testi di Isaac rispecchi l’opinione ebraica. Isaac sostiene che nel «processo ebraico a Gesù… il popolo ebraico non c’entra, non ha avuto alcuna parte e forse non ne ha neanche saputo niente» (Gesù e Israele, Nardini 1976, n. 403-4). Ma è proprio questa la posizione ebraica? In realtà non esiste su tutto il problema una posizione ebraica, ma opinioni e atteggiamenti molto diversificati. È importante conoscerli almeno sommariamente, perché tra entusiasmi, posizioni apologetiche e predominanza di informazioni unilaterali si rischia di perdere la reale valutazione dei dati. Per prima cosa bisogna distinguere tra l’interpretazione della storia della morte e la dottrina che perpetua nel tempo la colpa al popolo ebraico. Su questo secondo punto esiste un’ampia concordanza di vedute; è assurdo sul piano storico e su quello teologico parlare di trasmissione di colpa e della conseguente maledizione del tempo. Per questo vale un principio biblico molto chiaro: «ciascuno morrà per i suoi peccati» (Deut. 24:16). Quindi già su questo punto si delinea una netta divergenza anche con la teologia cattolica più favorevole: l’ebreo non è un perdonato, ma un innocente.
Per quanto riguarda invece la storia della morte di Gesù le opinioni sono molto diversificate. Sono comunque ovvie almeno due premesse: la prima è che dal punto di vista ebraico non si può certo parlare di deicidio, ma della morte di un uomo; la seconda è che il racconto evangelico non è necessariamente da accogliere come documento storico assoluto (principio peraltro in parte accettato anche dalla critica biblica cristiana!). A parte questo, il discorso è aperto. Soprattutto nell’ultimo secolo sono state fatte varie analisi, più o meno approfondite o scientifiche, allo scopo di dimostrare una responsabilità ebraica minima o nulla nel processo e nella morte. Tali analisi ribaltano punti di vista comunemente accettati, e le obiezioni che propongono sono spesso degne della massima attenzione. Un esempio è quello del libro di Haim H. Cohn (The Trial and death of Jesus, Dvir, Tel Aviv 1968, in ebraico), ove si dimostra tra l’altro l’assoluta mancanza di corrispondenza tra le notizie del Vangelo sul processo e le norme più elementari di procedura penale ebraica. La conclusione di queste analisi è che in sostanza il racconto evangelico ha distorto a scopi polemici i dati reali del racconto. Ma spesso l’interesse di questi storici è unito a un intento apologetico, che talora fa trasparire persino una necessità di scusa. Qualcosa del genere si era verificato nel medioevo, quando erano nate leggende sull’opposizione di alcune comunità alla condanna di Gesù. Tuttavia l’atteggiamento più diffuso in passato è stato di ammissione di responsabilità (ovviamente riferita alla sola epoca del processo). Un ruolo molto importante per questo lo hanno avuto delle strane e frammentarie notizie talmudiche, che parlano di lapidazione di Gesù: che poi si riferiscano al Gesù dei Vangeli è problematico; comunque nel tempo la lettura ebraica del dato (colorita da ampia produzione leggendaria) è stata proprio questa. Con due diverse possibilità: l’ammissione dell’ineluttabilità, della necessità storica della morte di Gesù, per cui nessuno poteva esserne responsabile (come vediamo nel sonetto di Belli, che pubblichiamo di seguito); o invece la denuncia di Gesù come colpevole, per cui ciò che gli era successo era la punizione che meritava. Dalla diffusione nel mondo ebraico delle versioni più recenti delle Toledòth Jehsu, le leggende ebraiche sugli inizi del cristianesimo, sembra che questa fosse la posizione più diffusa. È un dato oggi dimenticato,che fa molto riflettere, e va analizzato serenamente. Davanti all’incubo della maledizione (non solo verbale) proveniente dalla maggioranza cristiana, l’accusa a Gesù ha rappresentato un mezzo di autoaffermazione, di definizione polemica di sé; si considerava positivo e giusto ciò che gli altri imputavano come massima infamia. In quest’ottica appare evidente anche il limite dell’opposta posizione apologetica, che parte dal disagio per un’accusa che è vissuta come infamante. È chiaro che non è scientificamente valida un’analisi storica condizionata da uno di questi atteggiamenti; ma non è nemmeno possibile un discorso che prescinda dalla conoscenza di queste posizioni. Proprio l’ebreo non deve rinunciare ai fondamenti della sua tradizione, per non arrivare a ringraziare per un perdono ottenuto per colpe mai commesse.
Riccardo Di Segni
Le scuse de ghetto – Un sonetto di G.G. Belli
In questo io penzo come penzi tu:
Io l’odio li Giudii peggio de te;
Perché nun zò cattolichi, e pperché
Messeno in croce er Redentor Gesù.Chi aripescassi poi dar tett’in giù
Drento a la lègge vecchia de Mosè,
Dice l’Ebbreo che qualche cosa c’è
Pe scusà le su’ dodici tribbù.
Defatti, dice lui, Cristo partì
Da casa sua, e sse ne venne qua
Co l’idea de quer zanto venardì.Dunque, seguita a dì Barrucabbà,
Subbito che lui venne pe morì,
Quarchiduno l’aveva da ammazzà.6 aprile 1835