Campus Einaudi – 29/11
La penologia, la scienza che studia le modalità attraverso le quali vengono impartite le punizioni, si sviluppa lungo tre direttrici, strettamente collegate fra di loro:
a) quella tecnica, che studia la natura delle varie punizioni e la loro messa in pratica;
b) quella psicologica, che descrive la funzione della punizione nei confronti del condannato e di altri potenziali criminali;
c) quella sociologica, che studia la punizione come istituto giuridico all’interno della società[1].
In diritto le punizioni svolgono varie funzioni differenti. Fra le altre:
a) “ricompensano” il malfattore per il suo comportamento;
b) prevengono ulteriori crimini;
c) incutono timore.
Nel diritto ebraico, vista la sua impostazione religiosa, vi sono degli aspetti ulteriori, quali quello dell’espiazione del peccato e la santificazione del Nome divino, del popolo ebraico e della terra di Israele[2]. Bisogna ricordare inoltre che oltre alle punizioni inflitte dal tribunale ve ne sono altre, affiancate o alternative ad esse, che vengono dal Cielo, che non sono oggetto di questa trattazione. Proprio per via della sua impostazione religiosa il sistema di punizioni non è noto solamente allo studioso, che ha approfondito le sezioni del Talmud e della letteratura successiva sull’argomento, ma a qualsiasi fedele che abbia comprensione della lingua ebraica e abbia frequentato una Sinagoga nel digiuno di Kippur, poiché nella liturgia della giornata le varie forme di punizioni vengono ripetute varie volte[3].
In generale la punizione viene considerata una extrema ratio. Gli amministratori, pur avendo la facoltà di sanzionare alcuni comportamenti, dovrebbero cercare di astenersi dal comminare pene. Nel Talmud[4] è insegnato a nome di R. Yochanan: “rispetto al bastone e alla frusta, sia sollecito”. Il Ben Yehoiadah[5] spiega il senso di questa affermazione: l’amministratore deve essere capace nel condurre il popolo lungo la retta via, di modo tale da non dover usare bastone e frusta. Lo scopo della punizione non è certo quello di vendicarsi per l’azione malvagia, ma quello di estirpare il male. La punizione ripara quanto è stato rovinato, per esempio tramite la restituzione di un oggetto rubato, o risarcendo chi è stato danneggiato[6]. Nella tradizione talmudica viene esclusa categoricamente la possibilità di leggere letteralmente il verso “occhio per occhio, dente per dente”; unica eccezione è il comminamento della pena capitale, una volta verificato che ve ne siano le condizioni, per l’omicida.
La somministrazione della pena ha come effetto quella di reintegrare a pieno l’individuo all’interno della società. Per questo è vietato ricordare al malfattore le cattive azioni compiute in passato (divieto di honaat devarim).
Nella costruzione dell’impianto normativo ebraico grande importanza ricopre l’accertamento della punibilità di una determinata azione. All’interno delle azioni umane si devono distinguere due aspetti[7]: a) l’azione b) il pensiero e la volontà. Questi due elementi conferiscono all’azione una signaficatività da un punto di vista giuridico. Affinché un’azione possa essere considerata peccaminosa, e quindi perseguibile, è indispensabile che la Torah la proibisca. Secondo quanto affermano i Maestri del Talmud “non è possibile punire se prima non si avverte[8]”. I divieti e le relative punizioni devono essere indicati esplicitamente dalla Torah, e non possono essere ricavati con il solo ragionamento logico, che è utile unicamente a ricavare dei particolari delle leggi, ma che altresì non può introdurre dei nuovi divieti (en mazhirin min ha-din) o punizioni (en ‘onashim min ha-din) non indicati nel testo. Un governo non può punire per via di un atto, anche se potrebbe ritenersi autorizzato a farlo, a meno che non lo abbia proibito per mezzo della legge. Il Maharshà[9] spiega perché non possono essere introdotte delle punizioni per mezzo del solo ragionamento: il tribunale infatti potrebbe comminare una pena inferiore rispetto a quella che sarebbe da attribuire per un certo atto, e pertanto la relativa colpa non verrebbe espiata. Il Rashbà[10] crede che il ragionamento umano possa essere fallace, e la pena non sarebbe pertanto giustificata. Il Rashbam[11] fa una considerazione analoga, ritenendo che il peccatore non darà ascolto ad un avvertimento che deriva dal solo ragionamento, perché questo potrebbe essere contraddetto da un altro ragionamento.
Il Midrash[12] descrive il primo delitto della storia dell’umanità, l’omicidio di Abele, sottolineando la differenza con i crimini che sarebbero stati compiuti successivamente: Caino infatti non aveva da chi imparare, visto che ancora non vi era stato un divieto esplicito, e per questo era esente dalla punizione che successivamente sarebbe stata applicata per il medesimo atto.
Il secondo principio fondamentale è che è possibile considerare colpevole un individuo, solo se questo era consapevole di quanto stava facendo. Nel diritto ebraico vengono ricordate vari gradi di intenzionalità:
a) azione volontaria (mezid);
b) azione involontaria (shogheg);
c) azione determinata da una causa di forza maggiore (anus);
d) azione derivante da un’errore (to’eh);
e) azione determinata dalla considerazione dell’azione come permessa (omer shemutar);
f) azione derivante da un’indicazione errata del tribunale (horù bet din).
In generale non tutte le azioni involontarie sono sanzionate. La Torah[13] prevede che venga offerto un sacrificio per un peccato commesso involontariamente, ma non tutte le azioni comportano l’offerta di un sacrificio. Infatti se una persona erroneamente compie un’azione proibita, ma se la realtà fosse stata corrispondente all’intenzione di chi ha commesso l’atto, e l’azione fosse stata permessa, chi ha commesso l’azione proibita è esente (mit’aseq). Ad esempio, se una persona di Shabbat intendeva sollevare dei vegetali staccati dalla terra, e volendo compiere questa azione strappa dei vegetali ancora attaccati al terreno, sarà esentato dal sacrificio perché l’azione che intendeva compiere è permessa.
Se invece si intendeva compiere un’azione proibita e se ne compie un’altra, proibita a sua volta, nella Mishnah R. Eli’ezer sostiene che sia passibile di pena, mentre R- Yehoshua’ che sia esente.
Al caso in cui l’errore deriva da un insegnamento errato è dedicato un intero trattato del Talmud, Horaiot. Anche qui dobbiamo distinguere vari casi: è possibile infatti che le istruzioni impartite dal tribunale fossero illegittime, poiché sradicavano l’intera legge, vale a dire omettevano un intero precetto della Torah, o erano in contraddizione con le parole della Torah stessa; ma è possibile altresì che l’insegnamento vertesse su un particolare del precetto, e in questo caso la responsabilità ricadrebbe sul tribunale. Non è possibile accusare il tribunale relativamente ad argomenti scritti esplicitamente, perché chiunque ha la possibilità di informarsi e studiare, e l’involontarietà dell’atto è pertanto relativa, sino a sfiorare la volontarietà (shogheg qarov lemezid[14]). Il fatto che la maggior parte delle persone si comporti in un certo modo non è sufficiente per esentare dalla pena; è sempre indispensabile sottoporre a esame la natura dell’istruzione erronea impartita[15].
Uno dei principi fondamentali del diritto moderno è che l’ignoranza della legge non assolve il cittadino. Nel diritto ebraico non è così: il tribunale potrà comminare una pena solo se la volontarietà dell’azione, e quindi la consapevolezza che si sta agendo in contrasto con la legge, viene chiarita in quanto tale per via dell’avvertimento (hatraah) di due testimoni; in assenza di volontà di commettere un peccato, si è tenuti in ogni caso a determinare per quale motivo non si è considerati colpevoli.
In assoluto è colpevole chi compie un’azione proibita, e non chi ha creato i presupposti affinché ciò avvenisse. Per esempio, se una persona fa mangiare ad un’altra del grasso proibito, quest’ultima sarà considerata colpevole (chi ha dato da mangiare lo sarà a sua volta, ma perché “ha posto un inciampo davanti al cieco”).
In generale la punizione, una volta verificata la sanzionabilità di un certo comportamento, deve essere congrua in relazione all’azione commessa, tenendo in considerazione le sue cause, le sue conseguenze, la sua frequenza, la sua desiderabilità e la sua facilità di esecuzione[16]. Queste considerazioni di carattere generale sono valide in qualsiasi società. La punizione sarà più severa, maggiori saranno i danni che l’azione avrà provocato. Maimonide nella Guida dei perplessi[17] richiama questi medesimi aspetti:
“Sappi che la grandezza di una pena e la gravità del danno che provoca, oppure la sua piccolezza e facilità di sopportazione sono in funzione di quattro cose:
1. la grandezza del reato: le azioni dalle quali deriva un grave danno hanno una pena pesante, mentre le azioni dalle quali deriva un danno piccolo e leggero hanno una pena piccola;
2. la frequenza del reato: la cosa che accade più frequentemente deve essere prevenuta con una pena grave, mentre quella che accade più di rado ha una pena piccola, la quale, proprio perché essa è rara, basta a prevenirla;
3. la forza dello stimolo a compiere un reato: se un uomo è stimolato verso una cosa, sia perché l’appetito ve lo spinge molto, sia per la forza dell’abitudine, sia per le gravi disgrazie che lo colpirebbero se vi rinuncia, è impedito a farla solo se lo aspetta una grossa pena;
4. la facilità di compiere quell’atto di nascosto e in segreto, in modo che gli altri non se ne rendano conto: a distogliere da una cosa del genere è solo l’aspettazione di una pena grande e grave”.
Nei secoli i Maestri, proprio in base a queste considerazioni, hanno comminato delle pene, non ricordate nella Torah, “per limitare dei fenomeni (migdar milta)” o per necessità contingenti (letzorekh ha-sha’ah)[18], come afferma nel Talmud[19] R. Eli’ezer ben Ya’aqov: “ho sentito che il tribunale frusta e dà punizioni non derivanti dalla Torah, e non per trasgredire alle parole della Torah, ma per fare una siepe intorno alla Torah”. Per questo, dopo la chiusura del Talmud, i tribunali, previo consenso del governo straniero sotto il quale operavano, non ebbero timore di comminare persino delle pene capitali, non in conformità a quanto stabilito nella Torah, né a punire con sistemi assorbiti dalla società circostante[20], quali ad esempio l’amputazione di membra, cosa che la tradizione orale aveva escluso categoricamente, anche quando questa veniva ricordata esplicitamente nelle fonti della tradizione scritta[21]. Queste misure erano tuttavia tutt’altro che frequenti, e venivano utilizzate solo per punire reati estremamente gravi[22]. Uno dei sistemi che permettevano rendere efficace il sistema giuridico era quello di avvalersi del “mishpat ha-melekh” (diritto del re), le cui applicazioni sono state studiate a fondo da Rabbenu Nissim[23], che permetteva, per salvaguardare l’ordine sociale, di prescindere da elementi altrimenti indispensabili per il comminamento di una pena, ad esempio la presenza di testimoni. Questi dispositivi hanno conferito ai tribunali una notevole discrezionalità nell’attribuzione delle pene. Nell’esercizio delle proprie funzioni il tribunale, proprio per via della sua discrezionalità, deve trovare il consenso della società, ed operare pertanto con circospezione,e non ispirato da un sentimento di vendetta[24]. Il giudice è altresì invitato a non operare considerazioni di carattere socioeconomico, volte a favorire il ricco o il povero, sebbene quest’ultimo sia ampiamente tutelato nella legislazione rabbinica. Allo stesso modo sono condannate distinzioni di genere o legate al ruolo pubblico di una persona.
Una differenza fondamentale fra quanto stabilito nella Torah e la sua applicazione nei secoli successivi è che le pene verranno declinate molto variamente. Il Maharam ben Barukh di Rottenburg[25] per esempio scrive esplicitamente che per uno stesso reato il tribunale deve considerare la personalità del giudicato per comminare la pena, e così il Rambam[26] scrive che il tribunale, rispetto ad un determinato caso, in base al periodo, può valutare se infliggere pene corporali o pecuniarie.
A livello storico vale la pena ricordare che l’elaborazione talmudica del diritto penale risale ad un periodo in cui i tribunali ebraici avevano già perso l’autorità per comminare pene capitali.
Le pene che vengono ricordate nella letteratura post-talmudica sono schematicamente ed in maniera puramente esemplificativa, in ordine decrescente di severità[27]:
a) la pena di morte, applicata praticamente solo in alcuni periodi nel medioevo in Spagna tramite lapidazione, dissanguamento, affogamento in un fiume, strangolamento[28]; il Rambam[29] individua trentasei casi in cui viene inflitta la pena capitale. D’altra parte è famoso l’assunto talmudico secondo il quale un tribunale che commina una pena di morte in sette anni, e secondo R. El’azar in settanta anni, è sanguinario[30]. Il Rambam[31] sostiene tuttavia che questo sia solamente un invito rivolto al tribunale per trattare seriamente la questione, ma se questo non riesce a far decadere le testimonianze “è tenuto anche a mettere a morte mille persone in un solo giorno”. Nel 1380 fu vietato agli ebrei di Castiglia di praticarla[32].
b) l’amputazione, molto temuta, anche più della pena di morte; diffusa in Spagna e Polonia, assente in Babilonia, in Israele veniva praticata per un Sacerdote che avesse sposato una divorziata, provocandogli un difetto, per il timore che si recasse in un altro luogo e impartisse la benedizione sacerdotale; con il tempo i rabbini si resero conto che le conseguenze di questo sistema punitivo erano molto più deleteri della pena di morte, e quindi preferirono nei casi più gravi quest’ultima;
c) la detenzione prolungata, applicata per furto, percosse, rapporti sessuali proibiti; era molto utilizzata in Spagna, anche per colpe meno gravi, quale il mancato pagamento delle tasse comunitarie. Questo tipo di punizione non è menzionato nella tradizione scritta, se non riferendosi a società straniere, o ad imputati in attesa di giudizio. Molti chakhamim, soprattutto in tempi più recenti, hanno espresso delle serie perplessità su questo metodo, perché anziché riportare il trasgressore sulla retta via sembra fare il contrario, facendo perdere al recluso il contatto con il mondo esterno e dalla famiglia, facendolo trovare in una società di trasgressori. Le conseguenze della reclusione inoltre sono molto più pesanti di quelle proprie delle punizioni corporali, in quanto comportano la perdita prolungata della libertà. La reclusione poi punisce, oltre al trasgressore, anche i suoi familiari e amici, che non si sono macchiati di alcuna colpa[33].
d) l’esilio, la perdita del diritto di residenza, la perdita dei diritti civili, comminata per omicidio, delazione, adulterio, gravi casi di furto; in alcune occasioni veniva colpita l’intera famiglia del condannato[34].
e) la scomunica, data in generale per il mancato rispetto dei precetti della Torah e di quelli stabiliti dai rabbini; fu un sistema usato dai rabbini con estrema parsimonia, solo con il consenso generale della comunità; il suo annuncio era accompagnato da un cerimoniale molto toccante in Sinagoga, che prevedeva l’uscita di sette Sifrè Torah, lo spegnimento delle candele o il suono dello Shofar. Poteva comportare delle misure speciali, quale la sepoltura in una sezione apposita del cimitero, la preclusione ad essere chiamato per la lettura pubblica della Torah, a testimoniare o a prestare giuramento. In molti casi venivano innescati dei processi di pressione sociale, che potevano potenzialmente sottrarre al condannato i mezzi di sostentamento. La scomunica era considerata una punizione più severa delle pene corporali, perché queste ultime colpivano il corpo, mentre l’altra l’anima. Nella maggior parte dei casi lo scomunicato chiedeva di essere reintegrato molto rapidamente, mentre alcune volte faceva leva sul governo affinché il tribunale annullasse la scomunica. Con l’indebolimento in tempi moderni dell’autonomia ebraica questo sistema divenne via via meno efficace.
f) il taglio della barba e dei capelli, molto umiliante, che aveva come effetto l’esclusione sociale, normalmente in aggiunta ad altre punizioni;
g) le frustate (malqot), derivanti dalla Torah, nel numero di 39, o istituite dai rabbini (makkat mardut), in quantità stabilità dal tribunale; venivano impartite presso il tribunale, in Sinagoga, e nei casi più gravi conducendo il colpevole nei quartieri nei quali c’era presenza ebraica frustandolo. I colpi inferti normalmente non erano molto violenti, tranne che in casi eccezionali in cui il tribunale ordinava di non avere alcuna pietà. Era praticata principalmente in quei paesi in cui non si applicava la pena capitale[35]. In alcuni casi il tribunale permetteva di permutare le frustate con una pena pecuniaria;
h) percosse, digiuni ed altre privazioni, che erano la forma di punizione maggiormente utilizzata e potevano affiancarsi ad altre punizioni;
i) multe, che erano molto diffuse, anche accanto ad altre punizioni; c’è da notare che secondo quanto emerge dal Talmud erano comminabili solo in terra di Israele, da parte di giudici esperti e ordinati; il ricavato nella maggior parte dei casi veniva destinato alla beneficenza.
j) annunci pubblici e maledizioni di cui spesso ci si avvaleva per casi in cui c’era assenza di prove; in alcune sinagoghe era presente una tavola nera dove venivano scritti i nomi delle persone che tenevano un comportamento disonorevole, rifiutandosi ad esempio di ospitare i poveri per i pasti sabbatici;
k) nel mondo ashkenazita era molto diffusa la punizione autoinflitta, inquadrata in un complesso sistema di penitenza riparatrice, elaborato principalmente dai chassidè Ashchenaz, primo fra tutti El’azar ben Yehudah di Worms[36].
[1] C. COHEN, Yesod lepenologhia ‘ivrit, Proceedings of the World Congress of Jewish Studies 5 Vol 3, Division 3, p. 191.
[2] E. BEN ZIMRA, Shiqulè ‘anishah besifrut ha-shu”t (ebr.), Shenaton ha-Mishpat ha-Ivri: Annual of the Institute for Research in Jewish Law 8, 1981, p. 9.
[3] Y. ACHITUV, Qeriah mechudeshet betorat ha-’onashim shel Chazal, Akdamot 14, pp. 209-218.
[4] TB Sanhedrin 7b.
[5] Commento a Sanhedrin 7b.
[6] E. BAKSHI DORON, Shu”t Binian Av 1, 74.
[7] Per la classificazione dei vari tipi di azione, relativamente alla loro intenzionalità, vedi E. BEN SHELOMO, ‘Eqronot dinè ‘onashin beyahadut (ebr.), Shma’tin 136, pp. 33-46.
[8] TB Yevamot 82a.
[9] TB Sanhedrin 64b.
[10] Shut ha-rashbà 3,9.
[11] TB Bavà Batrà 88b.
[12] Bereshit Rabbà 22.
[13] Vaiqrà 4,23.
[14] TB, Horaiot 4a.
[15] TB, Horaiot 7b.
[16] E. BEN ZIMRA 1981, cit. p. 9.
[17] MAIMONIDE, La guida dei perplessi, 3 41, Torino 2004 (traduzione di M. Zonta).
[18] Queste motivazioni vengono riportate dal Tur, Choshen Mishpat 2. I commentatori alla Torah hanno individuato vari versi per fondare questo principio, ma secondo molti si tratta di asmakhtot, e questa regola è una halakhah leMosheh miSinai.
[19] TB Sanhedrin 46a, e così stabilisce Maimonide nel Mishneh Torah, Hilkhot Sanhedrin 24,4.
[20] S. ASAF, Ha-’onashin achar chatimat ha-Talmud (ebr.), Gerusalemme 1922, p. 20.
[21] E. BEN ZIMRA 1981, cit. p. 10.
[22] E. BEN ZIMRA 1981, cit. p. 11.
[23] RABBENU NISSIM, Derashot ha-Ran, n. 11.
[24] Shu”t ha-Rashbà 5,238.
[25] Riportato in E. BEN ZIMRA 1981, cit. p. 14.
[26] Shu”t ha-Rambam 388.
[27] Vedi S. ASAF 1922, cit,, pp. 17-44; da p. 45 a p. 144 viene riportata una nutrita serie di fonti classificate in base alla provenienza geografica.
[28] S. ASAF 1922, cit., p. 20.
[29] Mishneh Torah, Hilkhot Sanhedrin 15, 10-13.
[30] Mishnah Makkot 1,10.
[31] Rambam, commento alla Mishnah, Makkot 1,10.
[32] Encyclopaedia Judaica, voce Punishment.
[33] E. BAKSHI DORON, cit.
[34] Encyclopaedia Judaica, cit.
[35] Encyclopaedia Judaica, cit.
[36] Encyclopaedia Judaica, cit.