Peveragno, 07.09.2016
Nella tradizione biblica non esiste un termine per connotare il concetto astratto di “escatologia”; piuttosto compaiono espressioni come “acharit ha-yamim” o “qetz ha-yamim[1]”, la “fine dei giorni”, che si riferiscono ad un futuro indeterminato[2], senza avere necessariamente una connotazione escatologica, oppure, soprattutto e con maggiore insistenza nei libri profetici, alla fine dei giorni.
Per comprendere la natura dell’escatologia ebraica è necessario spendere alcune parole sulla natura del rapporto che lega il popolo ebraico alla divinità: gli israeliti, consci della loro elezione, ritengono che la divinità abbia una parte attiva nella storia del popolo. Poiché la divinità domina su tutto il creato, l’ebraismo ha combinato particolarismo, coltivando sempre il desiderio di tornare nella terra promessa, ed universalismo, attendendo l’avvento del regno divino su tutto il genere umano. Per tenere fede alle proprie promesse, nei momenti di bisogno la divinità invia vari personaggi, profeti, giudici, e re (fra cui il Messia).
IL GIORNO DEL SIGNORE Il primo ad utilizzare questa espressione, che poi verrà ripresa da molti altri profeti, è Amos[3]. L’accento è posto sulla punizione divina, che vanifica le attese del popolo, che aspettava il momento in cui il Signore avrebbe sconfitto tutti i suoi nemici, inaugurando un periodo di pace e prosperità, il giorno del Signore appunto. Questo giorno invece sarà, secondo le parole del profeta, tutt’altro che luminoso, bensì oscuro. I turbamenti cosmici, che nel libro di Amos, hanno solo un significato figurato, saranno una delle caratteristiche delle profezie successive sulla fine dei giorni. Il secondo profeta, più o meno contemporaneo di Amos, a sviluppare il tema è Oshea, che si avvarrà di concetti che godranno successivamente di notevole fortuna, come quello del nuovo patto che il Signore stringerà con Israele, come ai tempi dell’uscita dall’Egitto, e quello dell’inizio di un periodo di pace, in cui Israele non sarà minacciato dai propri nemici e vivrà pacificamente nella propria terra.
IL MESSIA Fra i profeti spicca la figura di Isaia, che introduce il tema di un futuro re ideale di Giuda, che poi verrà definito come messia. Il termine messia in realtà è un termine tecnico, che significa “unto”. La prima volta che incontriamo questo termine nella Bibbia è nell’episodio del sogno di Ya’aqov nella Genesi. Questo atto rituale comparirà numerose altre volte, e verranno unti sia oggetti, come gli arredi del Tabernacolo nel deserto, che individui, i gran sacerdoti, i profeti ed i re[4]. Nella profezia di Zekhariah[5] il messia è visto come un povero in sella ad un asino. Secondo il profeta Malakhì il messia sarà preceduto dal profeta Elia[6]. Il periodo messianico è caratterizzato da un ritorno alla pace propria del giardino dell’Eden, in cui tutte le creature, esseri umani ed animali, convivono pacificamente. Il messia non farà dei miracoli, o resusciterà i morti, ma porterà Israele a seguire le vie della Torah, invitando il mondo intero a servire il D. unico. L’avvento messianico secondo la tradizione talmudica sarà preceduto da significativi sconvolgimenti naturali, sociali, economici e politici. La tradizione talmudica distingue fra due momenti differenti, “i giorni del Messia” ed “il mondo a venire”. Secondo un testo rabbinico[7] la storia del mondo consterà di 6000 anni, duemila anni di desolazione, duemila di Torah, e duemila di era messianica. Questo insegnamento deriva dall’idea che a ciascun giorno della creazione corrispondano mille anni, e che il settimo millennio corrisponda quindi allo Shabbat. I rabbini tuttavia hanno sempre visto con sospetto il calcolo della fine dei tempi, tanto da affermare[8] che fra le sette cose che rimangono nascoste agli uomini vi sono “quando la dinastia davidica ritornerà e quando cadrà il regno malvagio” e maledire “coloro che contano la fine”. Per smorzare le attese messianiche un maestro del Talmud disse che fra questo mondo e l’era messianica l’unica differenza consiste nell’oppressione di Israele[9]. Quando Yonathan ben Uziel nella sua traduzione degli agiografi voleva rivelare il momento della fine, si narra che uscì una voce celeste, dicendogli di smetterla[10]. Secondo un’altra idea talmudica[11] “tutti i tempi calcolati sono passati, e tutto dipende dal pentimento e dalle buone azioni”. Senza un cambiamento radicale da parte dell’uomo, il futuro messianico è molto lontano. Vari elementi hanno contribuito alla nascita e alla fortuna dell’idea messianica: la sottomissione del popolo ebraico a potenze straniere, l’esigenza di giustizia sociale, l’esilio di Israele, dovuto alle sue colpe[12].
LA VITA DOPO LA MORTE La fede in una vita dopo la morte crebbe in maniera significativa all’epoca del secondo Tempio, ed era collegata all’idea che l’uomo dovesse rispondere del proprio operato anche dopo la morte fisica. Questa concezione era osteggiata dai sadducei e dai samaritani, che si attenevano alla lettera del testo biblico, che non conteneva riferimenti espliciti a questa dimensione, e incoraggiata dai farisei, che a questo mondo, ‘olam ha-zeh, contrapponevano il mondo a venire, ‘olam ha-bà, e che portarono numerose prove linguistiche e grammaticali per difendere la propria tesi[13]. Vi erano varie opinioni su quando sarebbe avvenuto il giudizio, se subito dopo la morte, o prima della resurrezione. In origine la vita dopo la morte era intesa come un dimorare dell’anima presso D.
LA RESURREZIONE Il superamento della morte è un tema strettamente connesso a quello messianico. Nel capitolo 38 del libro di Ezechiele c’è la visione delle ossa che riacquistano la vita, anche se dal testo non risulta chiaro se ci riferisca all’entità politica di Israele, o ai morti che risorgono. Secondo i rabbini la resurrezione avrà inizio a Gerusalemme. Per questo molti migrano in Israele per essere lì sepolti. Questa terra inoltre ha la capacità di espiare i peccati, secondo una lettura di Deut. 32,43, dove è scritto che la terra ha la capacità di espiare le colpe del popolo.
IL MONDO A VENIRE Prescindendo da alcune idee di fondo, generalmente accettate, come quella della retribuzione divina, della vita dopo la morte, dell’avvento messianico e della resurrezione, la descrizione della fine dei giorni non abbonda di particolari. Questa lacuna ha fornito un’opportunità per creare delle descrizioni immaginifiche, in particolare in ambiente cabalistico. In particolare il discorso prende le mosse dalla tripartizione dell’anima in nefesh, ruach e neshamah. Il nefesh, la parte inferiore, viene punito nella tomba per i peccati commessi, il ruach viene punito per i suoi peccati, ma dopo dodici mesi viene accolto nel “giardino dell’Eden inferiore”, mentre la neshamah, la parte superiore, viene accolta nel “giardino dell’Eden superiore”. Secondo l’idea maggiormente diffusa vengono accolti in Cielo, dopo aver scontato la loro pena, anche coloro che hanno commesso i peggiori crimini. Il periodo di espiazione dura al massimo un anno, e per questo il Qaddish, la preghiera recitata da coloro che sono in lutto, viene interrotto all’undicesimo mese, per non dare l’impressione che al proprio congiunto sia stato attribuito il massimo della pena.
LA VISIONE MAIMONIDEA Vale la pena ricordare la concezione maimonidea, che in parte prende le distanze dalle visioni sin qui delineate. Maimonide affronta la questione in vari passi delle sue opere, ma la trattazione principale è quella che troviamo negli ultimi capitoli del Mishneh Torah, nelle regole dei re. Secondo Maimonide l’immaginazione umana non è in grado di uscire dalla propria esperienza. Per questo le raffigurazioni bibliche e talmudiche non vanno intese letteralmente. In ogni caso, anche secondo il Talmud le visioni dei profeti si riferiscono esclusivamente al periodo messianico. Per il mondo a venire vale l’espressione “occhio mai non vide, o D., all’infuori di Te (Is. 64,3)[14]. Maimonide, polemizzando con le altre due grandi religioni monoteistiche, scrive che “i maestri e i profeti non hanno aspirato ardentemente all’era messianica né per dominare il mondo, né per soggiogare le nazioni, né per ottenere l’onore dei popoli, né per mangiare, bere e divertirsi, ma per potersi consacrare allo studio della Torah in pace e senza essere tormentati, e guadagnarsi così la vita del mondo futuro. In quel tempo non ci sarà né fame, né guerra, né invidia, né contesa; i beni terreni saranno straordinariamente abbondanti”. Isaia in una profezia[15], che trova parallelo in quella di Michah[16], di due secoli posteriore, dice: “Andate! Saliamo al monte del Signore, la casa del D. di Giacobbe, ci insegni le sue strade, percorreremo i suoi sentieri perché da Sion uscirà la Torah e la parola di D. da Gerusalemme. Giudicherà tra le nazioni, ammonirà molti popoli. Spezzeranno le spade per farne degli strumenti agricoli, le loro lance per farne delle falci, un popolo non alzerà più la spada contro un altro popolo e non studieranno più la guerra”. Il profeta Tzefaniah[17] ci dice quanto avverrà in quei giorni: “Allora Io cambierò la lingua dei popoli in una lingua depurata per coloro che invocano tutti il nome di D.” e, come afferma il profeta Zekhariah[18] “in quel giorno D. sarà uno e il Suo nome sarà uno”.
[1] Dan. 12,13.
[2] Ad esempio in Deut. 4,30.
[3] Am. 5,18-20.
[4] Vedi R. Di Segni, I testi: Torà e Talmud, in Il messianismo ebraico, Giuntina, pp. 9-10.
[5] Zacc. 9,9.
[6] Mal 3,22-24.
[7] TB, Sanhedrin 97 a-b.
[8] TB Pesachim 54b.
[9] TB Berakhoot 34b.
[10] TB Meghillah 3a.
[11] TB Sanhedrin 97b.
[12] Vedi R. Di Segni, Torà e Talmud, cit. p.11.
[13] TB Sanhedrin 90-92.
[14] TB Berakhot 34b.
[15] Is. 2, 1-4. Questa profezia è incisa sul palazzo dell’ONU a New York.
[16] Mich. 4, 1-5.
[17] Sof. 3,9.
[18] Zacc. 14,9. Sul tema vedi un’interessante riflessione di David Banon in Messianismo, universalismo e ideologia, La rassegna mensile di Israel 71,1 pp. 197-200.