Il filosofo analizza la situazione nel Medio-Oriente e tenta di spiegare l’insuccesso del processo di pace.
Marianne: In Israele lei ha parlato con un gran numero di responsabili politici ed intellettuali, in particolare a sinistra. Ha avvertito questo smarrimento del campo progressista israeliano del quale si parla, mentre il ciclo attentati-suicidi e rappresaglie sembra doversi ripetere all’infinito ?
Alain Finkielkraut: Ho avuto una lunga conversazione con Benny Morris, il capo fila di questi nuovi storici che hanno messo in difficoltà la leggenda dorata del sionismo. Dal lavoro di Morris, risulta il fatto che nel 1948 da 600.000 a 700.000 Palestinesi sono fuggiti poiché la loro società, in via di decomposizione, non era pronta ad affrontare la guerra, ma anche perché subivano atti di espulsione e di intimidazione da parte degli ebrei. Nel 1998, all’epoca della prima intifada, lo stesso Benny Morris è stato in prigione per essersi rifiutato di servire nei Territori occupati. A partire dal 1992, ha creduto alla pace. Allora tutto sembrava possibile: la Giordania concludeva un trattato, la Siria negoziava, il blocco comunista era distrutto, la risoluzione «vergognosa» dell’ONU, secondo la definizione di Michel Foucault, assimilante sionismo e razzismo veniva abbandonata, Arafat, a secco dalla guerra del Golfo, adottava una attitudine più morbida. Poi tutto è crollato, a partire dal fatto dell’incapacità dei Palestinesi a dire almeno «si ma» ai compromessi che erano stati loro proposti a Camp David. Questo massimalismo, aggiunge Benny Morris, gli procura guai sin dagli anni 30.
Marianne: Lei mi rimprovererà per il mio «causalismo» – rischiando la ricerca delle cause di cagionare la giustificazione delle conseguenze -, ma occorre comunque domandarsi perché dei Palestinesi si trasformino in bombe umane. Gli Israeliani non hanno alcuna responsabilità ?
A.F.: Sarà anche che moltiplicando gli insediamenti Israele ha contribuito a guastare la vita dei Palestinesi. Contribuito solamente, poiché gli Stati arabi ed i loro dirigenti i quali, malgrado gli aiuti, non si sono mai preoccupati di assicurare loro una vita decente, hanno giocato in questo degrado un ruolo non trascurabile. I candidati al sacrificio omicida sono quindi spinti dalla disperazione almeno quanto dall’impazienza del paradiso dove vi è l’attrazione di una gloria immortale. Ma, dice Benny Morris, questo non rimette in discussione l’urgenza militare: neanche un serial killer nasce dal nulla; resta il fatto che deve essere messe in condizioni di non poter nuocere. Aggiungo che la condizione più desolata, la più nera oppressione non avevano mai condotto alcuno sfortunato a polverizzarsi così, per uccidere il maggior numero possibile di persone, né la loro famiglia ad esortarli per ottenere una forte ricompensa. E questo terrorismo non è solo un peccato, è anche, come dirà Régis Debray, un messaggio che fa di tutti gli Israeliani, dovunque vivano, un nemico mortale.
Marianne: Quanto alla riposta israeliana, lei non la giudica inadatta?
A.F.: Citerò ancora Morris: mentre lui continua a pensare che ogni soluzione debba essere fondata su ciò che era stato proposto a Camp David ed a Taba, mi ha sorpreso molto sentirgli dire che Sharon conduce la guerra con prudenza ed in modo trattenuto. Una amica, che non si perde una manifestazione di “Pace ora”[1] <#_ftn1> , mi ha confermato che, se un laburista fosse oggi al potere sarebbe senza dubbio costretto a colpire molto più forte per rassicurare la società e per calmare gli abitanti degli insediamenti.
Marianne: E’ la vecchia idea secondo la quale solo la destra può fare la pace. E’ da vedersi … Non va dimenticato che Sharon si è opposto a tutte le prospettive di pace: nel 1978 a Madrid, a Oslo … Non fa forse parte di coloro i quali contestano il principio della presenza palestinese in Cisgiordania?
A.F.: Sharon non contesta per nulla la presenza palestinese in Cisgiordania. Contro il suo stesso partito si è pronunciato in favore della creazione di uno Stato palestinese. Non credo tuttavia che lui voglia la pace a condizioni accettabili per i palestinesi moderati, che noi abbiamo il dovere di sostenere, come Sari Nusseibeh, il rappresentante dell’Autorità palestinese a Gerusalemme. Ciò che dico semplicemente è che Sharon non fa la guerra per la guerra, per piacere personale. Ciò di cui dubito è che sia sufficiente un “ragazzo gentile” al potere in Israele affinché i vari Hamas, Jihad islamica, Brigate dei martiri di Al-Aqsa divengano ragionevoli. E ciò che constato, quando lascio l’Europa angelica, è che la lotta contro il terrorismo potrebbe essere ben più brutale. E, del resto, anche se questo non fosse il caso, avremmo bisogno di accusare Sharon di crimini che non ha commesso, come il «massacro» di Jenin?
Marianne: E’ vero che non vi è stato un massacro a Jenin, è provato. Ma i soldati israeliani commettono, talvolta, delle estorsioni, si abbandonano, agli sbarramenti, ad umiliazioni gratuite. Questo non la disgusta?
A.F.: Il redattore in capo di Haaretz (il giornale più critico d’Israele) ha iniziato con queste parole una conferenza davanti ai suoi colleghi europei: «Innanzitutto una buona notizia: i nove figli di Abu Ali sono sani e salvi e stanno bene – così bene che possono portare dei bambini tra le rovine.» Abu Ali, è questo abitante di Jenin che aveva annunciato alla stampa che tutti i suoi figli erano seppelliti sotto le macerie del campo … Io sono disgustato dal disprezzo palestinese nei confronti di tutte le verità fattuali, ma mi disgusta altrettanto, e più intimamente, il saccheggio degli immobili dell’Autorità palestinese commesso da parte di soldati al termine dell’operazione «Baluardo[2]». Questo vandalismo è raggelante, imperdonabile.
Marianne: Quale è allora il suo punto di vista sulla rioccupazione della Cisgiordania? Lei appoggia, come alcuni pensano in Francia, un sostegno incondizionato a Sharon?
A.F.: Gli Israeliani hanno capito che non possono affidare la propria sicurezza all’Autorità palestinese. Ma non è vero che Israele conduca una politica di repressione indiscriminata. L’esercito punta sempre ad un obiettivo preciso, al rischio di fare altre vittime se questo obiettivo si nasconde in mezzo a dei civili. Rischio che non può in nessun caso divenire la regola, poiché, quando questo succede, la stampa israeliana protesta in modo unanime, la televisione mostra le immagini dell’orrore ed il governo deve riconoscere la propria colpa. Da questa constatazione al sostegno vi è un fossato che io non immaginerei di colmare se non nel caso in cui Sharon affiancasse all’uso della forza anche una consistente apertura politica. Ora, è ciò che rifiuta di fare. Quando è sospinto nelle sue trincee, dice di essere pronto a dolorosi compromessi e di essere il solo a poterli fare accettare agli Israeliani. Afferma che i Palestinesi che lo vogliono sanno di cosa parli. Ma evita accuratamente di uscire dal vago, sia perché non vuole aprire un fronte con gli abitanti degli insediamenti; sia perché sa che concessioni che ipotizza sono di gran lunga troppo limitate; sia, peggio ancora, perché la continuazione del governo di unità nazionale è possibile a questo prezzo. In attesa, il ministro della Sicurezza interna indica come un cavallo di Troia Sari Nusseibeh, il Palestinese che chiede ai suoi di rinunciare all’esigenza del diritto al ritorno. «Timeo Palestinos et dona ferentes » («Io temo i Palestinesi anche quando portano dei regali»): questa paura fa paura poiché chiude tutte le possibilità
Marianne: Quindi lei ammette che la sua politica non porta da nessuna parte, se non ad una continua crescita della violenza?
A.F.: Direi piuttosto che la debolezza farebbe ancora di più crescere il livello di violenza, ma che la forza non è sufficiente. Occorrerebbe della creatività politica e questa manca crudelmente, poiché gli Israeliani hanno incontrato l’odio nudo nel momento stesso in cui offrivano la pace. Una offerta forse insufficiente, ma un governo di sinistra era stato delegato dalla società ad agire in modo tale da farla finita con il conflitto. La maggioranza degli Israeliani sapevano che la soluzione passava attraverso lo smantellamento della maggior parte delle colonie, ed anche per la suddivisione di Gerusalemme. Ora, invece della attesa risoluzione, essi subiscono un’ondata inaudita di violenza. La barriera che stanno per erigere la dice lunga sulla loro attuale condizione mentale. Non è la marcia di conquistatori, ma la difesa di assediati, stupefatti che cercano di proteggersi dalla volontà di spargere «la carne sionista» sui marciapiedi d’Israele.
Marianne: Ma la prosecuzione della colonizzazione costituisce, per i palestinesi, una dichiarazione di guerra.
A.F.: Alla diffidenza provocata in Israele dal massimalismo palestinese risponde la diffidenza palestinese di fronte alla colonizzazione strisciante ed al rosicchiamento incessante delle terre. Che la Giudea-Samaria sia, ben più di Tel Aviv, il cuore della patria storica ebraica non dovrebbe impedire la sua restituzione. Ma la destra ha sempre sostenuto che fosse illusorio di ritornare alla linea verde, poiché i Palestinesi non desiderano questa frontiera: non si sono rassegnati ad una presenza ebraica che spezza il mondo islamico in due. Ora, tutti gli attentati accreditano questa tesi e rinforzano, di conseguenza, la posizione dei «coloni». Se venissero smantellati gli insediamenti oggi, i Palestinesi canterebbero vittoria e, sul modello di quanto è successo in Libano, vedrebbero in questo un incoraggiamento a proseguire la lotta. Di fronte al terrore, nulla è più negoziabile e la sinistra israeliana si ritrova momentaneamente ridotta all’impotenza.
Marianne: questo significa che lei riprende la tesi in base alla quale i Palestinesi non hanno mai voluto la pace?
A.F.: Arafat ha sempre avuto due approcci: il negoziato ed il confronto. E, quando è arrivato il momento della verità, ha preferito la propria sopravvivenza politica ed anche fisica al rischio della pace. Vi sono, in realtà, tre guerre in una: oltre a quella che oppone Palestinesi ed Israeliani ciascuna delle società vive sotto la minaccia di una guerra civile, ed i Palestinesi più ancora che i loro nemici, poiché Arafat non ha il monopolio della violenza legittima. Come dice Shimon Peres, vi sono, in Israele, molte voci ed un solo fucile; in Palestina, vi è una sola voce e molti fucili. Il vecchio capo sentiva questi fucili puntati su di lui, e non voleva essere accusato di tradire l’islam dando prova di morbidezza a proposito di Gerusalemme. Per la paura di finire come Sadat, ha scelto di essere il Saladino di una nuova contro-crociata. Allora, forse deve restare un simbolo e conservare un ruolo cerimoniale se una maggioranza di Palestinesi continua a riconoscersi in lui. Ma nessun Israeliano è disposto a trattare con questo guerrigliero pusillanime, questo virtuoso del doppio linguaggio.
Marianne: Ma, alla fine, gli israeliani non hanno una grande parte di responsabilità negli insuccessi di Oslo e di Camp David?
A.F.: Nel fallimento di Oslo di sicuro, in quello di Camp David no. (Anche se[3] ) persino gli intellettuali palestinesi rifiutano di assumersi la loro parte di responsabilità e denunciano tre menzogne: la buona volontà di Israele a Camp David, la rivendicazione del diritto al ritorno e l’insegnamento dell’odio che ha persisitito dopo Oslo. A Camp David, affermano, sono gli Israeliani che hanno fatto ribaltare la discussione; il diritto al ritorno non aveva che una portata simbolica e non minacciava per nulla la demografia d’Israele; quanto all’odio, essi dicono che è la situazione ad insegnarlo, non la scuola, e si indignano che vengano stigmatizzati i ragazzi palestinesi. In sintesi, i fatti che creano disagio sono congedati, una volta ancora, la ricerca dei colpevoli all’esterno sostituisce l’analisi dei fatti. E voilà il vero choc delle civilizzazioni: l’Occidente vive sotto il regime della critica, il mondo musulmano – incluse le elite laiche – sotto quello della paranoia.
Marianne: Non è Israele che, tramite un discorso mitico, ha negato l’ingiustizia che i Palestinesi hanno subito nel 1948 ?
A.F.: Per un breve momento abbiamo creduto di potere uscire dalla tragedia tramite la coscienza comune del tragico. Il tragico è lo scontro di due diritti, le due parti hanno ragione. La tragedia vi è quando ciascuna delle parti è chiusa nell’esclusivismo del proprio diritto. Lo sforzo di imparzialità degli Israeliani avrebbe dovuto essere accompagnato da uno sforzo dello stesso tipo dall’altro lato. E’ l’opposto che invece è avvenuto: la demistificazione della storia sionista ha avuto come effetto di aggravare la mitologia storica dei Palestinesi. La confessione di colpa degli uni ha confortato gli altri nel loro rifiuto di assumersi la propria parte d’ombra. Risultato: I Palestinesi si vivono come gli ebrei degli ebrei e gli Israeliani, sottomessi all’intifada, cioè al terrorismo, hanno sempre più difficoltà ad comprendere ciò ha di legittimo la rivendicazione palestinese.
Marianne: Ritorniamo su Camp David. Gli Israeliani hanno o meno imposto un accordo accettabile? Hanno o meno rifiutato di evacuare gli insediamenti?
A.F.: Lo domandi a Bill Clinton. Lo domandi a Madeleine Albright. Lo domandi a Shlomo ben Ami, l’ex-ministro degli Affari esteri. Legga inoltre l’opera del giornalista Charles Enderlin che mostra come la discussione non si sia ribaltata sulla questione degli insediamenti, ma sul diritto al ritorno ed anche sul problema di Gerusalemme*. I negoziatori palestinesi hanno affermato, in barba ai loro interlocutori israeliani, rimasti di stucco, che il Tempio Ebraico non era mai esistito e che tutto ciò non era che una frottola. Ho incontrato, a Gerusalemme, Rema Hammami, professoressa al Women Studies Institute all’università di Bir Zeit. Ella mi ha detto che Bill Clinton aveva mentito per favorire l’elezione di sua moglie a New York. La lobby ebraica insomma. Finché i palestinesi opporranno agli Israeliani non tanto un altro discorso, ma un’altro racconto, il dialogo sarà impossibile.
Marianne: Non crede che la guerra condotta da Israele contro il terrorismo sia già una guerra contro i Palestinesi?
A.F.: Il capo delle informazioni dell’esercito mi ha detto che Israele deve fin d’ora fare tutto il possibile per migliorare la situazione materiale catastrofica dei Palestinesi. Ha aggiunto che, una volta stroncato il terrorismo, toccherà ad Israele di mostrarsi generoso, poiché, cito, «il più forte deve mettere il primo franco sul tavolo se vogliamo dare una seconda opportunità alla pace». Senza dubbio, allora, un cambio di governo sarà allora necessario. La sinistra israeliana è malridotta, ma non è morta.
Marianne: Veniamo ora a ciò che, per lei, intellettuale francese ed ebreo, costituisce il secondo, e forse il primo, fronte. La questione del Medio-Oriente ha radicalizzato le posizioni e gli schieramenti in Francia.
A.F.: La doxa francese non vuole comprendere più nulla. Poco fa, favorire il dialogo consisteva nel mettere di fronte Zeev Sternhell ed Elias Sanbar, o Amos Oz ed Mahmoud Darwich, cioè un Israeliano sionista ed un indipendentista palestinese. Oggi, da Télérama alle edizioni La Fabrique, dalla sinistra cristica[4] <#_ftn4> alla sinistra estrema, il dialogo deve svolgersi tra Michel Warschawski ed Edward Said, due partigiani della dissoluzione dello Stato ebraico in uno stato binazionale. Si tratta di fare incontrare lo stesso con lo stesso, la posizione palestinese più radicale con la versione israeliana di questa radicalità, un pentimento senza limiti, una penitenza sfrenata. Vogliamo che la pace si costruisca sulla confessione, da parte del sionismo, della sua ingiustizia e persino della sua mostruosità. Allora, si ho delle difficoltà con il mio paese.
Marianne: Abbiamo il diritto di criticare il sionismo, e persino di non essere sionisti? Abbiamo soprattutto il diritto di ostentare il proprio disaccordo con la politica israeliana.
A.F.: Ma, per Télérama, cioè per i devoti del partito del Bene, non vi è altra attitudine morale se non la delegittimazione assoluta del sionismo. Inoltre, nel suo ricapitolativo estivo, questo periodico passa sotto silenzio gli attentati-suicidi e non trattiene che le estorsioni dell’esercito israeliani. Lo zelo compassionevole censura tutte le immagini che potrebbero far avere pietà del popolo dei mostri. Le Pen sa che ha dei cattivi pensieri riguardo gli ebrei, gli Arabi, i Neri. Nulla, in compenso, saprà intaccare la buona coscienza di coloro i quali combattono oggi gli «ebrei razzisti» nel nome dell’umanità una e fraterna. Non si può contare di fare vergognare, per l’odio che nutrono contro di noi, a queste persone ebbre di misericordia e farcite di memoria. Mi si dirà che io voglio proscrivere tutte le critiche ad Israele. E’ falso: giudicare è un dovere. Domando solo che si cessi di facilitarsi il compito riducendo la tragedia in un melodramma edificante o in un romanzo nero per biblioteche rosa.
Marianne: Perché il dibattito è impossibile qui, quando il soggetto israelo-palestinese è in gioco? E non lascia che questa questione prenda troppo spazio nella sua vita intellettuale?
A.F.: Amerei molto potere pensare ad altro! Ciò che mi impedisce, oltre l’inquietudine di fronte agli avvenimenti di laggiù, è l’animosità grondante e crescente che incontro qui, sono Edgar Morin, Danièle Sallenave e Sami Naïr che si mettono in tre per scrivere su le Monde che «il popolo eletto agisce come la razza superiore», che «gli ebrei vittime dell’inumanità mostrano una terribile inumanità», e che non temono, mentre si esce da un secolo saccheggiato da parte delle metafore mediche scatenate, di parlare di «cancro israelo-palestinese». Mai, dall’inizio del dopo-guerra, gli ebrei in quanto tali erano stati presi di mira. Mai si sono sentiti così soli.
* Le Rêve brisé, histoire de l’échec du processus de paix au Proche-Orient 1995-2002, Fayard, 2002
[1] La Paix maintenant = Shalom achshav, Peace Now, [NdT]
[2] Rempart. [NdT]
[3] “Anche se” aggiunto nella traduzione, per semplificare la comprensione del periodo [NdT].
[4] “christique” nel testo originale. [NdT]
Grazie a Roberto Maggioncalda per la segnalazione e le traduzione!
Dialogo raccolto da Elisabeth Lévy. Marianne, dal 12 al 18 agosto 2002