Adon ‘olam asher malakh – Il re ed il padrone sono differenti. Il re è il dominatore della nazione, e tutto dipende dai suoi ordini, tanto che può mettere a morte i sudditi, ma il re non ha un legame diretto con i sudditi e non li conosce direttamente, visto che ha numerosi preposti per far rispettare i suoi decreti, e ricevere le richieste del popolo. Il padrone ha un potere molto minore, ma ha un legame personale con i suoi servi, ai quali assegna dei compiti particolari, e possono rivolgergli direttamente le proprie richieste. H. unisce in sé sia le prerogative del re che quelle del padrone.
Il primo a capire che H. era anche padrone fu Avraham, che lo chiamò così per primo, quando secondo il midrash comprese che l”olam, inteso spazialmente e non temporalmente come abitualmente avviene nel Tanakh, doveva avere un adon. Per questo il Gherà ritiene che si debba recitare l’Adon ‘olam solo prima della tefillàh di Shachrit, che fu istituita da Avraham. Secondo alcuni proprio per richiamare la figura di Avraham ed i meriti dei patriarchi, l’autore ha deciso di aprire il piut con l’espressione adon ‘olam, e non melekh ha-‘olam. Fra l’altro anche la ‘amidàh si apre con lo stesso Nome divino. Alcuni ritengono che sia opportuno recitare l’Adon ‘olam, oltre all’inizio della tefillàh, come facciamo tutti i giorni, anche al termine, come se stessimo iniziando di nuovo la tefillàh, di modo tale che il Satan non possa accusarci, allo stesso modo in cui quando terminiamo la lettura della Toràh con la parashàh di Wezot ha-berakhàh iniziamo da Bereshit (Eliàh Rabbàh 132). C’è da notare però che dalla fine del piut sembrerebbe piuttosto che sia stato scritto per essere recitato di sera, prima di andare a letto, anche per via dell’espressione beyadekhà afqid rukhi, tratta dal Salmo 31 (v. 6), che fra parte della qeriat shema’ ‘al ha-mittàh. Troviamo nel Midrash Shocher Tov ai Tehillim (25,2) che H. è molto differente dagli uomini: infatti se lasciamo agli uomini un oggetto nuovo in pegno, questo ci verrà restituito usato e rovinato, mentre noi la sera affidiamo la nostra anima stanca e affranta ad H dopo le fatiche della giornata, e ce la restituisce nuova.
A differenza dei re in carne ed ossa, che per manifestare la propria regalità necessitano di un popolo, H. ha nella sua essenza la regalità, a prescindere dalle creature, anche se iniziarono a chiamarlo re solo dopo che il mondo fu creato. Per spiegare questo fatto lo Shelàh scrive che la ghematrià di adon ‘olam è en sof. In quanto tale H. non avrebbe bisogno di un popolo per essere Re. Come H. era Re prima della creazione del mondo, così lo sarà dopo che tutto sarà finito. Tutto il piut approfondisce questa idea, partendo da prima della creazione del mondo, giungendo sino alla resurrezione dei morti (beyadò afqid ruchì). Affermiamo questo concetto quando diciamo H. Melekh, H. malakh, H. Ymlokh le’olam va’ed, forme verbali che compaiono nei primi versi del piut, e che costituiscono, assieme al concetto di adnut, il pensiero che secondo il Tur (Orakh Chayim, cap. 5) quando leggiamo il nome di H., che nel modo in cui è scritto richiama il concetto di essere, e nel modo in cui è pronunciato l’adnut. H. Melekh non è un verso, ma l’unione di tre espressioni tratte da tre versi differenti, che viene pronunciata dai malakhim quando al mattino incoronano H. Il valore numerico delle tre espressioni è 620, che è la ghematrià di keter -corona (Avudraham). Siach ha-tzevì scrive che ha-kol non va inteso come la totalità della realtà, ma come se fosse rà, allo stesso modo in cui la mattina nello Yotzer diciamo “’Osèh shalom uvorè et ha-kol – che fa la pace e ha creato tutto”, nonostante che il versetto in Isaia reciti “uvorè rà – ha creato il male”. Secondo lo Ya’vetz il verbo che apre il piut è al passato, perché secondo un famoso insegnamento (Bereshit rabbà 89,2), H. creò e distrusse vari mondi prima di questo. Nei primi versi troviamo altresì riferimento a tre dei quattro mondi della dottrina mistica: yetziràh, beriàh, ‘asiàh, così come sono ricordati nel libro di Yesha’iahu (43,7). Proprio per via di questo riferimento, non è indispensabile, non comparendo il quarto mondo,quello azilut, che l’autore voglia riferirsi alla dottrina mistica. Altrimenti, se vi è accenno alla dottrina mistica, questa può essere la prova che ci si riferisce ad una fase arcaica nello sviluppo della qabalàh, prima che il mondo della ‘atzilut faccia il suo ingresso nella dottrina dei mondi, solamente nel XIV sec.
L’autore inizia poi ad affrontare una serie di temi che abbiamo già incontrato nell’Igdal, la trascendenza di D. rispetto all’idea di tempo, l’assoluta unicità divina, oltre alla Sua perfezione: H. non ha inizio ne’ fine; ciò che si evolve ha un inizio e una fine, ma il concetto di evoluzione è estraneo ad H.
Dopo aver affrontato nella prima parte del piut una serie di questioni sulla divinità, l’autore mostra come, a dispetto della Sua forza e Grandezza, H. per così dire abbassi se stesso per provvedere al mondo. Questa visione si oppone al pensiero aristotelico secondo cui, proprio per via della perfezione divina, la divinità non ha alcun contatto con il mondo materiale. Noi invece crediamo che proprio in ciò risieda la grandezza di D. I maestri dicono: “dove trovi la grandezza di H., lì trovi la Sua umiltà”. In questi ultimi versi il protagonista diviene l’uomo che confida in H., e per questo troviamo numerosi possessivi di prima persona. Il genero di Rav Hirsch riportò al figlio del Chatam Sofer un insegnamento del suocero: la grandezza di H. emerge con forza nelle parole Wehù Elì – Egli è il mio D.”; Wehù allude all’elevatezza di H., ma nonostante ciò, è Elì, ha un rapporto con ogni singolo individuo.