David Bidussa – Gli Stati Generali
In queste ore «pogrom» è diventata una parola virale. Per certi aspetti ha contribuito anche la vicinanza con la ricorrenza del 9 novembre 1938, ovvero la Kristallnacht. Ci sono molti aspetti che non mi convincono nell’uso di questo paragone. Il fatto che tutto si creda risolto dentro a quel paragone, non solo mi lascia perplesso, ma mi rende altamente diffidente. Provo a spiegarmi
Parto dalla scena del 9 novembre 1938. Parigi, 7 novembre 1938. Ernst Eduard vom Rath. Iscritto al partito nazista e diplomatico tedesco di carriera, è ferito a colpi di pistola dal diciassettenne Herschel Grynszpan, nell’edificio dell’ambasciata tedesca di Parigi. Due giorni dopo, il 9 novembre, vom Rath muore per le lesioni riportate.
È la causa scatenate che determina la reazione all’interno del territorio del Reich hitleriano nella notte tra il 9 e il 10 novembre. Goebbels dà ordine alle sue truppe d’assalto e alla Gioventù hitleriana di agire contro gli ebrei su tutto il territorio della Germania. Il risultato è il saccheggio e l’incendio di sinagoghe, magazzini, case, locali ebraici.
Secondo il rapporto sui “risultati provvisori” (riferiti alla mattina del 10 novembre, ovvero nelle prime 12 ore di saccheggio) presentato da Reinhard Heidrich, capo della Gestapo, furono distrutte 76 sinagoghe e 191 incendiate, demoliti 29 grandi magazzini, vandalizzati 815 negozi e saccheggiate 117 abitazioni private. 36 gli ebrei uccisi (alla fine della giornata gli ebrei uccisi saranno 100), più di 30.000 ebrei vengono arrestati e avviati nei campi di concentramento prima di essere rilasciato dietro pagamento di riscatti ingenti.
Non è ancora la pianificazione dello sterminio, ma è una tappa essenziale della «distruzione della presenza ebraica» sul territorio della Germania. Il fine è costringere gli ebrei ancora residenti e presenti sul territorio appunto ad andarsene e dunque a «purificare» la Germania della loro presenza.
Quasi 80.000 ebrei decidono di partire. A questa data, circa la metà degli ebrei che si trovavano in Germania al momento dell’ascesa di Hitler al potere (30 gennaio 1933) ha lasciato il paese.
Questo è il quadro se noi consideriamo solo il fermo immagine del novembre 1938.
Come sempre accade in politica, tuttavia, è al contesto generale che occorre prestare attenzione. La Germania nazista nel novembre 1938 può permettersi di attuare la notte dei cristalli e quel che accade nelle strade della Germania non è un insieme di episodi di una massa, pur aizzata dai vertici, ma fuori controllo. È, invece, l’effetto di una lunga catena di arretramenti delle democrazie di fronte al totalitarismo tedesco che si accumula nel giro di pochi mesi – tra il marzo e il settembre 1938. Quel grumo di sconfitte consente alla Germania nazista di poter fare un eccidio di massa sapendo di non dover pagare un prezzo, anzi di poter ancora presentarsi sulla scena politica – ed è quello che accadrà all’indomani del 10 novembre 1938 – ancora andando all’incasso. Comunque senza dover pagare un pegno per i suoi atti di sangue.
Bene usciamo da quei giorni ed entriamo nei nostri. Il quadro delle violenze non è stato quello sistematico della Kristallnacht. Certo si può dire che c’era un quadro di premeditazione, ma non è comparabile perché allora dovremo inserire tra i responsabili e i mandanti le autorità olandesi. Ha contribuito a quella crescita di violenza un clima di linguaggio, che abbiamo visto nei mesi precedenti? Certamente.
Questo dato tuttavia va comparato con una diversa questione che chiama un aspetto essenziale nella risposta che quella parte di opinione pubblica che ha cara la democrazia non può tralasciare: ciò a cui abbiamo assistito a Amsterdam nella giornata di giovedì scorso ha molte analogie con una pratica che noi in Italia dovremmo conoscere molto bene: trattasi di pratica squadrista.
La pratica squadrista si sostiene su una tecnica e su uno fine.
La tecnica è presto detta: l’uso della violenza esercitato da parte di un gruppo su membri di un altro gruppo individuato come nemico e “riconcorso” andando a pescare singoli o piccoli gruppi, ovvero esercitando la violenza non in uno scontro a numero pari, ma sempre a numero «altamente dispari» e numericamente a proprio vantaggio.
Il fine è molto più elaborato e questo aumenta il dato rilevante sulla struttura di organizzazione: la violenza come carta di identità del gruppo che agisce. Ovvero: la violenza come pratica politica identitaria.
Significa analizzare non solo l’atto della violenza, ma anche le funzioni che quella pratica viene ad assumere per chi la esercita. Il culto della violenza, insomma, più che l’atto della violenza (tema che riguarda il fondamento culturale della destra fascista, come ha sottolineato lo storico Francesco Germinario).
Il culto della violenza ma che non è estraneo alle pratiche di violenza a cui abbiamo assistito giovedì scorso a Amsterdam. Ovvero il tema è: quando si pensa “violenza”, quale immagine si evoca? Poi: quale funzione si assegna a quella sensazione di “fare violenza”? E infine: se la violenza non è uno strumento, bensì una risorsa politica, più che prevalentemente o esclusivamente una pratica politica, come, quando e in relazione a quale contesto e a quale “bisogno” si rievoca e si ricostruisce la scena della sua pratica?
Consideriamo una seconda modalità della violenza. La violenza non come tecnica, ma come linguaggio politico. Meglio: come convinzione.
Quel profilo di convinzione si costruisce fondando una liturgia che è identificato come il percorso che fornisce di identità e rafforza l’identità della nazione.
In che cosa consiste dunque quella liturgia? Consiste non nell’atto della violenza ma nel significato che quell’atto assume.
Violenza che si compone di atti e che si identifica nella cattura e nel possesso dei simboli dell’avversario, della loro esposizione a sottrazione avvenuta, nella consegna al capo dei simboli sottratti. In quella azione l’obiettivo non è il “bottino”, bensì è “sradicare” l’avversario ovvero “conquistare”, o ancora meglio “riconquistare” un territorio, “prenderne possesso” e “rinazionalizzarlo”.
Soprattutto è costringere l’avversario autolimitarsi, a cessare la pratica del libero movimento. Perché questa dinamica mi sembra capace di descrivere con maggior precisione che non utilizzando la categoria di “Pogrom”? Per due motivi.
(1) obbliga chi non è d’accordo in quel campo con quelle pratiche aprire un confronto con i fascisti di casa propria, pena la subordinazione al proprio fascismo interno. In altre parole il silenzio non è più una strada. La pratica “tengo famiglia e mi faccio i fatti miei” non è solo deplorevole in Italia, ma dovunque ed è un bivio che riguarda chiunque;
(2) la prima battaglia politico-culturale che dobbiamo assumere è la dimensione della libertà di movimento come diritto democratico. Qualcosa che nella storia italiana in un tempo in cui è in aumento esponenziale la “violenza di genere” non è riducibile a una questione di “politica estera” o di “rispristino dell’ordine” altrove, ma riguarda la costruzione di una cultura di fermezza e di sensibilità sulle libertà in bilico. Là e anche qua.
Non è mai troppo tardi per discuterne. Ma potrebbe diventarlo.