Sara Valentina Di Palma
Da diversi giorni mi sfuggiva un’amica con cui sto cercando di organizzare un evento conviviale, e quando finalmente mi ha richiamato, a sua parziale ma abbastanza convincente giustificazione ha addotto la motivazione dell’eccessivo lavoro e di diversi impegni familiari e comunitari, di cui mi ha reso edotta per convincermi della sua buona fede, nonché per stuzzicare la mia curiosità e condividere con me pensieri e sensazioni.
Fatto sta che, per una strana combinazione, il caso ha voluto che dopo diversi giorni frenetici di lavoro fuori sede, abbia attraversato nell’arco di un’intera giornata mezza Toscana ed una manciata di realtà ebraiche diverse per composizione ed identità. Così, la sua veloce e caleidoscopica giornata ha suscitato impressioni da approfondire e lasciar sedimentare.
La mattina ha lasciato alcuni dei suoi figli con una nuova tata (non ebrea e rapidamente costretta nei giorni precedenti ad un corso base su alcune regole ed esigenze come: dove trovare le posate di latte; quali tipi di cibo non acquistare assolutamente ai bambini fuori casa; nei casi di incertezza telefonarle prontamente e non cercare di risolvere questioni apparentemente pragmatiche dietro le quali potrebbero insidiarsi problemi halachici – vale a dire, non credere di poter trovare innocuo un dolciume solo perché non è carne, non puoi sapere quali tipi di insidie nasconda un marshmallow non certificato casher).
Dopo poche ore fotografava alcuni particolari dei soffitti del Tempio di Pisa e dei disegni progettuali dell’importante restauro di fine Ottocento firmato dall’architetto Marco Treves (tra tutti, un delizioso particolare della ridefinizione della zona tra Tevà ed Aron HaKodesh, con un rabbino abbigliato secondo lo stile dell’epoca). Chissà cosa è rimasto della realtà di quell’epoca, ci siamo chieste. Fatto sta che nell’edificio esiste ancora quello che era l’appartamento del rabbino, oggi adibito a necessità comunitarie – una piccola biblioteca, la cucina per preparare i pasti delle feste. Lo stesso matroneo, nel cui corridoio adiacente si trovano i disegni di Treves, non è oggigiorno più utilizzato, e le poche e spesso anziane signore presenti alle funzioni siedono dietro una mechizà recentemente allestita al piano terra: dall’alto, una settantina di posti a sedere vuoti.
A seguire, una veloce pausa pranzo che la mia amica si è concessa a casa, più per comodità che per questioni alimentari dato che nel suo personale standard di casherut mangerebbe comunque fuori qualcosa come una pizzetta al pomodoro e formaggio od un’insalata con uova e tonno, e pietanze di questo tipo si trovano quasi ovunque, pur difficilmente servite con posate e piatti monouso (che tanto vanno contro il rispetto ambientale ma garantiscono la separazione tra stoviglie di latte e di carne – e non ho condiviso questa riflessione con lei, ma ho pensato che mi pare comunque una contraddizione in termini, avere a casa stoviglie separate ma accettare di utilizzare fuori posate di un esercizio pubblico non ebraico e non vegetariano come la quasi totalità di quelli che si trovano nel nostro paese.
Fatto sta che dopo pranzo ha preso un paio di figli per trasferirsi ‘in gita’ dall’altra parte della Toscana a riprendere un altro paio di bambini dal campeggio estivo dell’HaShomer, arrampicandosi per amene colline tra cui si snodava un grazioso torrente. A causa di un allerta meteo poi rivelatasi infondata, il campeggio terminava con un giorno di anticipo, e la mia amica è arrivata in fase di smobilitazione e di smontaggio tende, quando la gran parte dei ragazzini più piccoli era già partita per tornare a casa. Un po’ ha stentato a ritrovare i suoi, più alti ed abbronzati, sorridenti e adeguatamente sporchi per gli standard di un ruspante campeggio nei boschi. Ancor più ha avuto difficoltà a radunare i diversi figli e rimetterli in auto, dopo quasi un’ora tra saluti agli amici e ai madrichim, merenda, giro veloce del campo per mostrarlo alla sorella piccola che aveva trascorso le due settimane precedenti chiedendo di andare anche lei in campeggio, salutare di nuovo gli amici…Una volta partiti i racconti si sono affastellati rapidi, e dal tenore di un paio di frasi ha capito che doveva essere andato davvero tutto molto bene: in primis, l’affermazione più che la richiesta di partecipare anche al futuro campeggio invernale dove ci saranno sicuramente questo e quell’amico di Napoli Torino e Roma, poi la breve descrizione di una giornata in cui ‘siccome era iom atzmai, madrichim non c’erano e la nostra kvutzà è stata con i con i chanichim e i bogrim, ma poi il momento più bello era la peulà la sera e una volta abbiamo fatto l’esh’.
Ultima tappa della giornata, insieme ad una manciata tra i suoi figli (quelli che erano puliti prima della merenda al campeggio, provenienti da casa, quelli che erano già sporchi, presi all’HaShomer), l’inaugurazione della mostra sul pittore e partigiano senese Piero Sadun, Sadun I00 visitabile dall’11 luglio al 08 settembre presso i Magazzini del Sale del Palazzo Pubblico in Piazza del Campo a Siena. Un azzardo forse, non solo per la durata, l’intensità ed il numero di chilometri percorsi nella giornata, ma intanto doveva salutare un’amica che aveva un paio di cose da darle, poi aveva promesso ad una delle discendenti di Sadun di presenziare, e forse non ci sarebbero state altre occasioni di andarci, così alle sei di sera si è ritrovata ad impartire ai ragazzini veloci istruzioni per l’uso ed entrare alla mostra. Tantissime le opere esposte, soprattutto quelle astratte del periodo aquilano in cui Sadun era direttore della neonata Accademia di Belle Arti (questi sono quadri monocromatici, ha sentito un bambino di sette, otto anni spiegare ad un’altro, vuol dire che sono tutti dello stesso colore), ma anche ritratti e paesaggi di gioventù ed interessantissimi disegni testimonianza degli anni di combattente nella Resistenza (Disegni della Resistenza), sino ai lavori sperimentali di ricerca su diverse materie e tecniche pittoriche. Non mancano immagini del pittore negli anni della guerra, con amici e familiari tra cui la sorella Lucia e Mario Verdone. Un piccolo mondo, quello senese di quegli anni, aperto alle esperienze culturali e realtà artistiche che porteranno Sadun in più vaste realtà grazie ai legami appunto con Verdone ma anche con Gabriella Drudi (poi compagna di Toti Scialoja), Cesare Brandi, Vito Pandolfi.
Un mondo sempre più piccolo, quello senese, che la mia amica ha salutato lasciando la città attraverso il giardino della contrada della Torre, affacciata davanti al Tempio, dalle cui finestre aperte si intravedevano in lontananza gli stucchi bianchi su fondo verde.
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