Era Chaim Grade il vero autore da Nobel dell’ebraismo newyorchese. Leggere il suo libro per credere
Wlodek Goldkorn
Quando, nel 1978, l’Accademia di Svezia conferì il Nobel per la Letteratura a Isaac Bashevis Singer, molti tra gli scrittori, giornalisti, critici – tra i superstiti della catastrofe del mondo yiddish – erano scontenti, amareggiati, indignati. Il Nobel, dicevano, spettava a un collega ben più bravo, un autore capace di una scrittura che sfiorava il sublime, Chaim Grade. Salvo che Grade, un signore piccoletto, tozzo, che parlava a voce altissima, scambiata per rabbia, non era mai stato candidato al prestigioso premio; e non lo è stato perché a differenza del suo avversario, Bashevis Singer appunto, è stato poco tradotto e anche perché non gli interessava il parere degli accademici di Stoccolma sui romanzi e sulle poesie. Il suo ritiro dal mondo era dovuto alla moglie, Inna Hecker, una donna talmente gelosa da voler le opere del marito tutte per sé, lontane dagli occhi dei lettori.
In questi giorni, Giuntina manda in libreria La moglie del rabbino, il primo dei romanzi di Grade tradotto (in un modo esemplare) da Anna Linda Callow. Al libro ci torneremo. Intanto, raccontiamo la storia dell`autore, partendo dalla fine. Grade morì a New York, nel 1982. Aveva settantadue anni. Lasciò sola Inna Hecker, scomparsa a sua volta nel 2010. I due non ebbero eredi e così quando il rappresentante delle autorità entrò nel loro appartamento nel Bronx (due stanze più un salotto), vi trovò, in totale disordine, una biblioteca di svariate migliaia di libri e un gigantesco archivio di lettere e manoscritti che documentavano la vitalità di una letteratura del Novecento assassinata da Hitler. Oggi quel materiale è di proprietà della Biblioteca nazionale di Gerusalemme e dello Yivo (Istituto delle scienze yiddish) di New York, fondato a Vilnius: Sigmund Freud e Albert Einstein tra i membri onorari. E a Vilnius, ne 1910, era nato anche Grade.
All’epoca l’odierna capitale della Lituania era considerata, per la quantità delle sinagoghe e per la qualità dei suoi rabbini, una specie di Gerusalemme del nord. Rabbino e studioso era destinato a diventare Grade, allievo di una yeshivah, il luogo dove pii maschi ebrei discutono dei canoni della fede, dell’attesa del Messia e del senso della vita. Ora, l’ebraismo dell’est europeo, come è stato narrato con passione dal rivale Bashevis Singer, è un universo dove si compiono i miracoli perché Dio sta nei cuori più che in libri e commentari. Il mondo degli ebrei di Vilnius e quindi di Grade ne è invece il contrario: fede è razionalità, legge, ma anche introiezione delle regole. Ecco, il conflitto fra i due scrittori – vero e aspro, visto che la signora Inna spesso insultava in pubblico il Nobel – era culturale e filosofico, prima che di rivalità letteraria. Grade ha frequentato rabbini, tra i più grandi e eruditi del secolo scorso, nemici della mistica, lettori di Kant, ma non per questo meno ligi alle regole dell’ortodossia. Ed era, prima della catastrofe, uno dei poeti più importanti del gruppo Yung Vilna (giovane Vilnius) che negli anni Trenta aveva rivoluzionato il mondo delle lettere yiddish. La moglie del rabbino è un romanzo che racconta una storia di donne e potere. Potere femminile, matriarcato, in un’epoca in cui la modernità irrompe nella vita degli ebrei degli shtettl, le borgate di Polonia, Lituania, Bielorussia. La protagonista è figlia e nipote di una dinastia di rabbini importanti, uomini che stabilivano la legge per coloro che non avendo uno Stato, gli ebrei, non potevano avere leggi. Quindi il potere si esprimeva nel decidere l’interpretazione dei precetti religiosi. Le fazioni e le ostilità si coagulavano attorno alla chiave di lettura di qualche passaggio del Talmud. Ma erano lotte dure, non dispute astratte, perché in gioco c’erano prestigio personale, di famiglia e denaro dei benestanti che sostenevano una determinata sinagoga a scapito di un’altra. E i rabbini erano specie di principi, che regnavano sulle corti dei seguaci. E le donne? Le donne potevano essere mogli dei rabbini, quindi spose e madri dei principi. Perele, la protagonista del romanzo, è una di queste. Guidata da un’ambizione senza freni, delusa perché un suo promesso sposo, diventato un importante rabbino, l’aveva rigettata, si marita con un altro rabbino. Lo convince a spostarsi in una piccola città, ma in cuor suo lo disprezza per quella scelta che le sembra una rinuncia. I figli dei due non vogliono seguire le orme del padre, aprono un negozio di scarpe e lei disprezza pure loro, perché «strisciano ai piedi dei clienti». Poi convince il marito a tornare nella città grande e con una politica accorta, con intrighi e falsità, riesce a prendersi la vendetta sull’altro rabbino, il rabbino importante e che non l’ha voluta.
E a proposito della modernità che disgrega la vita tradizionale, nel romanzo si narra lo scandalo che suscita l’apparizione del sionismo («gente che non aspetta la Provvidenza divina per tornare nel Sion») e la nascita dei partiti socialisti. Gli ebrei sono autentici, le loro vicende riguardano il mondo e non solo lo shtetel: niente a che vedere con il folklore nostalgico di tanti autori. Si è detto che gli scrittori yiddish consideravano la prosa di Grade (e ancora di più la poesia) sublime. Ne “La moglie del rabbino” è difficile non restare stupiti per la precisione della parola e la plasticità delle immagini. Un solo esempio: «Intorno a mezzogiorno si mostrò un frammento di azzurro lavato di fresco e un sole di un colore ottone che strabuzzò l’occhio velato».
Robinson, La Repubblica, 1.6.2019
https://www.giuntina.it/Diaspora_7/La_moglie_del_rabbino_753.html