Tratto da “Alef-Dac 2” – 1980
Rav Riccardo Di Segni
Nel pensiero ebraico viene costantemente accentuata la differenza esistente tra la situazione reale in cui si vive e gli obiettivi ideali verso i quali l’azione dell’uomo deve proiettarsi. Questa opposizione si presenta in campi differenti: sociale, etico, politico, fino al concetto più generale della sacralità dell’esistenza; investe poi la sfera metafisica, della quale si immagina la dimensione nascosta e solo parzialmente percettibile da parte dell’uomo.
La differenza tra le due realtà si traduce anche in una divisione del tempo, nel ritmo costante delle settimane. In questa prospettiva il giorno del Sabato diventa l’esempio, la rivelazione temporale di un campione di perfezione, l’immagine di una sacralità nascosta che finalmente si può raggiungere.
Tutte le regole e i divieti di questa giornata sono una preparazione e un segno di questa condizione superiore che si cerca di raggiungere; e anche i minimi dettagli del rito sono portatori di profondi significati.
Basta considerare un solo esempio, quello dell’accensione delle candele all’entrata del Sabato, per constatare la ricchezza dei simboli e dei concetti che ogni rito particolare sottintende.
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I Rabbini interpreti della Scrittura si sono soffermati a lungo su una contraddizione che emerge dal racconto della creazione del mondo nel primo capitolo della Genesi. Nel terzo verso, come prima opera della creazione, è descritta la formazione della luce, che consente di separare le giornate e distinguere il giorno dalla notte. Poco dopo, nella descrizione dell’opera del quarto giorno, si parla della creazione del sole, della luna e delle stelle. I Maestri si chiedevano quale fosse il senso di questa apparente ripetizione, e offrivano due tipi di soluzione. In una prima interpretazione si ammetteva che la luce del primo giorno fosse stata già quella del sole e degli astri, e che la narrazione successiva si riferisse non tanto alla creazione quanto alla disposizione di queste sorgenti di luce nel firmamento. Secondo la seconda interpretazione, invece, si immaginavano due tipi differenti di luce: una luce primordiale, caratteristica solo dei primi giorni dell’universo, e una luce successiva, quella che si conosce, emanata dagli astri e dal sole.
Questa idea di luce primordiale ricorda vagamente recenti teorie cosmogenetiche che parlano di una radiazione iniziale che si diffuse nei primi momenti della nascita dell’universo; ma è chiaro, malgrado queste strane coincidenze, che l’interesse degli interpreti della Genesi non è, almeno inizialmente, quello di una teoria fisica. La spiegazione, almeno a grandi linee, di questa immagine mitica della luce, emerge dal seguito midràsh: la luce primordiale non venne distrutta, ma nascosta; tolta temporaneamente all’umanità per le colpe che questa avrebbe commessa, e che non la rendevano degna del godimento di questo bene eccezionale; ma riservata in futuro ai giusti e ad un’umanità redenta, per la quale sarebbe tornata a risplendere. Al di là della metafora rabbinica si cela in queste immagini un esempio particolare dell’idea generale di contrapposizione di due realtà; l’ideale nascosto è presentato come un obiettivo eccezionale ma reale, che si può raggiungere e conquistare.
In che modo queste idee si traducono nella simbologia del Sabato? Un altro midràsh spiega questo concetto. Alla fine del racconto della creazione è detto che “Dio benedì il settimo giorno” (Genesi). I Maestri dicono che questa benedizione particolare consisté, nel primo Sabato, in una continuazione ininterrotta del flusso di luce primordiale. La luce non avrebbe dovuto più brillare per il peccato commesso da Adamo nelle ultime ore del Venerdì ma fu concessa una deroga per lo Shabbàt. Il primo Sabato, prototipo di tutti i sabati successivi, fu un giorno di tutta luce.
In questa espressione mistica i Maestri vollero esprimere il concetto che nella giornata sabbatica all’uomo è data da godere un’immagine di quel bene eccezionale e metafisico promesso come premio futuro per i giusti; in altri termini che il Sabato rappresenta un embrione di mondo futuro, una prima realizzazione delle aspirazioni ideali; un primo godimento di un contatto con l’assoluto.
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La tradizione prescrive che all’entrata del Sabato, prima ancora che faccia notte, in ogni casa si accendano delle luci, che illuminino in particolare la mensa. Non è un atto facoltativo; è un obbligo preciso, che va accompagnato dalla recitazione di una benedizione (lehadliq ner shel Shabbàt). Le luci da accendere dovrebbero essere almeno due, a ricordo delle due versioni differenti dei dieci comandamenti (Esodo e Deuteronomio), che impongono di “ricordare” (zakhòr) e “osservare” (shamór) il Sabato; secondo il Midràsh la differenza è dovuta al fatto che un unico suono fu inteso dal popolo di due mondi differenti; per questo si usano preferibilmente dei lumi a due braccia che partono da un unico fusto, come le due parole derivarono da un solo suono, non c’è comunque limite a chi vuole aggiungere altri lumi oltre il minimo.
Queste luci rispondono a un bisogno elementare e immediato: la illuminazione del tavolo dove si mangia, in un momento in cui è proibito accendere il fuoco. L’origine dell’uso è quindi ben evidente, ma ogni particolare lo fa diventare non tanto un’abitudine opportuna, quanto piuttosto un rito, che riassume i doveri dell’osservanza e del ricordo. Da pura esigenza materiale le luci divengono presto il tramite per un simbolismo molto più ampio; riassumono l’essenza del Sabato. La tavola illuminata è segno di serenità, di pace, di armonia.
Ma è anche un segno che oltrepassa la dimensione puramente domestica; e qui si inserisce il midràsh della creazione, e la luce domestica diventa segno della luce primordiale irradiata nel Sabato della Genesi.
Traducendo in un linguaggio più attuale questi dati osserviamo che l’immagine della luce primordiale perduta e nascosta può equivalere a quella della riconquista della propria libertà soffocate dalle costruzioni della società e del lavoro quotidiano. Riuscire a celebrare il Sabato significa per l’uomo di oggi segnare il proprio distacco dalla schiavitù dei propri ordinamenti e delle sue creazioni; avere la possibilità di scoprire nella propria esistenza una dimensione più ampia e liberatrice.
Tutto questo si realizza attraverso i numerosi divieti, che impongono all’uomo di astenersi da determinate azioni: la conquista della nuova dimensione è come una conseguenza implicita delle astensioni. Accanto a queste, numerose, ben poche sono le azioni positive prescritte; ma appunto perché poche, ricche di significato. L’accensione delle luci è una di queste. È ormai diventata un segno che trascende le esigenze elementari di illuminazione domestica; è un segno di ripresa e riconquista di vita, di allontanamento dalle costrizioni e dai condizionamenti della società; è l’entrata in una dimensione più vasta e liberatrice.
Anche solo come piccolo impegno iniziale di ricordo e di osservanza l’accensione dei lumi ha una grande importanza; non si può sottovalutare l’effetto psicologico che crea nell’ambiente, né la carica pedagogica che ha verso i piccoli. Questo spiega perché un uso pratico, una necessità immediata, è stata trasformata dai Maestri in un obbligo, ricco di effetti ambientali ed educativi e capace, anche da solo di istituire un nuovo clima.
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Uomini e donne sono tenuti al rispetto di questa norma: ma la tradizione in questa norma; ma la tradizione in questo caso ha maggiormente responsabilizzato la donna. È chiaro che in una società in cui il ruolo femminile è stato prevalentemente concentrato nella casa, questo rito, prettamente domestico, è stato affidato specificamente alla donna. Questo non vuol dire che in una società diversa, in cui i ruoli reciproci dell’uomo e della donna non siano più quelli di un tempo, il rito debba essere il segno di una condizione negativa e uno stimolo di discordia; nella tradizione ebraica l’imposizione di una mitzwàh è un privilegio, per cui anche se la donna cambia la sua condizione domestica non dovrebbe per questo rinunciare al privilegio di un obbligo in cui ha sempre avuto la precedenza.
Per segnalare quanto la questione sia dibattuta, anche dietro il velo dei simboli midrashici, si può ricordare l’opinione di un Maestro che diceva che la donna deve accendere il lume di Shabbàt per farsi perdonare la colpa primordiale di Eva, che aveva metaforicamente spento la luce — cioè l’eternità — di Adamo. A questa ipotesi (che per quanto suoni oggi pesantemente antifemminista non si esaurisce nella semplice formulazione midrashica, ma contiene significati molto più profondi) un altro Maestro rispondeva nella stessa lingua, rammentando le responsabilità maschili nel peccato del vitello d’oro, che avevano nuovamente pregiudicato la seconda possibilità di completa redenzione offerta con l’uscita dall’Egitto. Quindi donne e uomini ciascuno con la colpa da scontare, ed entrambi tenuti all’osservanza della regola: ed è per questo che nel rito se la donna accente, è l’uomo che deve preparare le candele. Il discorso quindi si ripropone ad armi pari. Di nuovo anche da questi dettagli emerse che il simbolo delle luci non è quello della discordia, ma l’armonia, la pace, la tensione verso una vita più completa e libera.
Altre regole sulle candele
— Esiste un orario preciso per l’accensione delle candele, che deve essere rispettato. Nei lunari sono riportate le tabelle orarie per ogni comunità.
— Non tutti i tipi di oli combustibili e di stoppini sono adatti per l’accensione, e in caso di dubbio bisogna consultare un esperto. In Italia si usa soprattutto olio di oliva tuttavia possono essere usate le comuni candele steariche in commercio.
— Sulle possibilità di impiego della luce elettrica esiste una divergenza tra le maggiori autorità rabbiniche. È comunque doveroso lasciare accese le luci della comune illuminazione elettrica domestica nelle aree di casa più frequentate. La discussione è sul fatto se si possa recitare la benedizione sulla sola accensione delle lampadine. Alla base di questa divergenza c’è il problema se la presenza delle due candele sia ormai un simbolo rituale tanto caratteristico da essere insostituibile con forme più moderne di illuminazione.
— l’ordine dell’accensione è questo: secondo il rito vigente in alcune Comunità Italiane prima si accendono le candele e poi si recita la benedizione (1). Secondo un rito Ashkenazita penetrato in molte famiglie, ma a quanto pare riprovato dal Rabbino Capo d’Israele Ovadià Josef, l’ordine è il seguente: dopo l’accensione delle candele, se ne copre la luce con le mani, si recita la benedizione e si tolgono le mani.
(1) baruck atah ado-nai elo-henu melech haolam asher kideshanu bemitzvotav vetzivanu lehadlik ner shel shabbat (kodesh).
Benedetto Tu, O Signore, Nostro Di-o, Re dell’Universo, che ci hai santificati con i tuoi comandamenti e ci hai comandato di accendere le candele del Santo Shabbàt.