Li chiamano ultraortodossi, una denominazione che è già una condanna; oppure “i neri”, dal colore del loro abbigliamento – un altro soprannome poco simpatico. Li confondono spesso con i nazionalisti che fanno della difesa dello Stato di Israele un dovere anche religioso, mentre la maggior parte di loro sono poco interessati all’esistenza dello Stato e alcuni anzi decisamente contrari, perché credono che solo la volontà divina e non la politica può riportare gli ebrei nella loro terra. Per questo, e per non distrarsi dallo studio dei libri sacri, buona parte di loro rifiuta il servizio militare, suscitando le proteste dei laici.
Sono i charedim, una parola che significa “timorati” (del Cielo). Della variopinta popolazione ebraica e di Israele costituiscono l’ala più tradizionale, che si sforza non solo di rispettare minuziosamente i precetti biblici, ma anche di mantenere i costumi adottati durante l’esilio, soprattutto in Polonia: la lingua yiddish, i vestiti neri di stile ottocentesco per gli uomini e quelli molto tradizionali e modesti per le donne, l’educazione nelle scuole talmudiche o Yeshivot, la fedeltà a dinastie di rabbini che prendono il nome dalle cittadine dell’Europa orientale dove avevano sede i loro antenati; una religiosità molto sentita, che impregna di sé ogni momento della vita; una convivialità intensa ma assai chiusa, per cui non si fraternizza se non coi membri del gruppo; un’organizzazione sociale basata su famiglie assolutamente tradizionali con tanti figli, in cui hanno un ruolo speciale gli anziani e i capifamiglia. E’ un mondo caldo e rassicurante, che cerca di non farsi contaminare dalla modernità sociale e spesso anche tecnologica. Per questa ragione risulta difficile da capire a chi non la condivide e può apparire oppressivo e artificiale. Il dato significativo è che questi gruppi non stanno affatto estinguendosi, come credevano i fondatori laici dello stato di Israele, ma si espandono grazie al loro tasso demografico, ma anche per la loro capacità di coinvolgere ebrei non religiosi.
E’ difficile per un laico israeliano e ancor di più per un europeo capire come si viva in questo ambiente, quali siano le abitudini, i gusti, gli interessi di chi vi vive e perché esso sopravviva alla cultura contemporanea, all’edonismo e al materialismo che lo circondano. Alcuni hanno provato a raccontarlo, come lo scrittore Chaim Potok, ma in ambiente americano (2Danny l’eletto”, “Il mio nome è Asher Lev”), e il regista Amos Gitai in maniera assai ostile (Kadosh 1999), ma senza riuscire a rompere davvero la barriera dell’incomprensione. Per questo ha molto colpito il grande successo di una serie israeliana dedicata a questo mondo, intitolata “Shtisel”. Essa è iniziata nel 2013 e ha avuto un tale successo nel paese da essere comprata da Netflix e diffusa in tutto il mondo, “Shtisel” è il cognome di una famiglia dei charedim che vive a Gerusalemme. C’è un padre, Reb Shulem, di recente rimasto vedovo, ci sono sua figlia Gitty e il figlio più giovane Akivà, in forte contrasto col padre perché si sente un artista e non sopporta i limiti che deve subire ed è innamorato di una donna che il padre pensa non sia adatta a lui e molti parenti e amici intorno a loro. C’è il rimpianto per la madre morta, la ricerca di combinare un matrimonio per Akivà come si usa fare nell’ambiente, cioè con una scelta fatta dalle famiglie, e non dai fidanzati; c’è il matrimonio di Gitty che invece fallisce; storie della scuola dove padre e figlio lavorano; vicende minori ma curiose come quelle del nipotino che ha trovato un cagnolino e vuol portarlo in casa, suscitando grande sconcerto perché i charedim non sono abituati agli animali domestici, ci sono le vicende quotidiane grandi e piccole di una famiglia che si attiene strettamente alle regole tradizionali e deve risolvere i suoi problemi aderendo a questa cornice, quando occorre consultando i rabbini.
La serie in Israele ha avuto un successo molto trasversale, è piaciuta ai tradizionali consumatori di fiction, che naturalmente sono per lo più laici; ma si è conquistata anche il pubblico dei charedim, che normalmente evitano l’intrattenimento televisivo, giudicandolo immorale, e questa volta invece sono stati conquistati da una storia in cui si possono riconoscere. Il segreto del successo di “Shtisel” è certamente l’atteggiamento non discriminatorio della narrazione, il suo rifiuto di giudicare la società che descrive. Anche la crisi di Akiva avviene dentro quel mondo, non si spinge mai fino a indurre all’abbandono delle regole. Vi è insomma il tentativo di capire e raccontare un fenomeno religioso molto particolare, quello di un gruppo sociale che in genere senza violenza né aggressività rifiuta ogni compromesso con l’ideologia e i costumi contemporanei. L’altro aspetto che colpisce è la precisione con cui sono raccontati i dettagli della forma di vita ebraica ortodossa, la competenza con cui la storia è ambientata. Guardarla può servire non solo a capire un po’ di più gli spesso diffamati charedim, ma anche a vedere in che cosa consiste la vita ebraica in generale, quali sono i suoi riti e le sue regole.
Ugo Volli è un semiologo, accademico e critico teatrale italiano.
http://rivista.vitaepensiero.it/news-vp-plus-shtisel-5121.html