Raffaella Spizzichino
Università degli Studi di Roma La Sapienza – Facoltà di Scienze politiche – Storia delle Istituzioni Politiche – Relatore: Maria Sofia Corciulo – Anno Accademico 1996-1997
- Introduzione storico politica
- Capitolo Primo: Il Periodo Rivoluzionario
- Capitolo Secondo: L’Impero Napoleonico
- Capitolo Terzo: La Restaurazione Borbonica
- Conclusione – Bibliografia
Introduzione storico politica
L’assolutismo, sorto essenzialmente per motivi storici contingenti, trovò presto una fondazione teorica. Vari scrittori come Bodin e Bossuet circondarono il potere regio di una “aureola sacra”, trasferendo alla sovranità civile la consacrazione religiosa e le specialissime prerogative della suprema autorità della Chiesa: sola la monarchia era la forma legittima di governo e il diritto dei sovrani era imprescrittibile ed inalienabile.
Il sovrano aveva la sua autorità soltanto da D. che gliela conferiva con un atto positivo analogo a quello che si verificava nell’elezione del Papa: si aveva quindi un’investitura trascendente che comportava un diritto intangibile e che dava alla persona del sovrano un carattere sacro. Egli era dunque il rappresentante di D. in terra, e la stessa cerimonia della consacrazione reale con le unzioni e le invocazioni recitate sul monarca aveva questo significato; il sovrano acquistava un carattere superiore a quello umano: un’antichissima tradizione gli attribuiva persino il potere di guarire alcune malattie. La formula di Bossuet “un roi, une foi, une loi” (un re, una fede, una legge), sintetizza il parallelismo e l’equilibrio tra ordine politico-civile-temporale e quello spirituale-religioso-soprannaturale, tipico dell’ancien régime; Stato e Chiesa tendevano ad un solo fine: il bene dell’uomo.
Non si concepiva dunque la possibilità di uno stato politicamente unito e religiosamente diviso, perciò lo stato assoluto riconosceva ufficialmente e unicamente la religione cattolica e considerava la Chiesa come una società sovrana (che di fatto si tendeva a restringere sempre di più). Il riconoscimento ufficiale e la stretta relazione esistente tra unità politica e religiosa portava a considerare la religione cattolica e i suoi interessi come strettamente connessi con quelli dello Stato: dovere del monarca era quindi difendere e promuovere la religione. Egli cercava di creare e mantenere le strutture che rendevano più facile ai sudditi l’osservanza dei doveri religiosi: anzi li stimolava al loro adempimento, divenuto presupposto necessario per il riconoscimento di alcuni diritti. Infatti chi non seguiva la religione dominante era privo non solo dei diritti politici (esclusione da ogni incarico pubblico) ma anche da quelli civili (libertà di professione, di transito). Il sovrano inoltre impediva il proselitismo eretico vietando la diffusione di libri contrari alla fede cattolica e imponeva che i delitti contro la religione fossero considerati lesivi del sentimento religioso di una larga parte dei cittadini e fossero giudicati come una offesa al patrimonio spirituale della nazione, come delitto di “lesa maestà”. Le leggi civili erano in armonia con quelle canoniche; lo Stato cioè non solo si ispirava, nella sua legislazione, alla dottrina della Chiesa, ma riconosceva le leggi della Chiesa stessa; dava ad esse la sua sanzione e l’appoggio del bracco secolare per imporne coattivamente l’esecuzione; spesso anzi lo Stato “faceva sua” la norma canonica, promulgando una legge civile del tutto analoga a quella ecclesiastica. Alla Chiesa era riconosciuto il monopolio dell’assistenza, dell’istruzione e la competenza esclusiva sul matrimonio: ad essa infatti spettava fissare le condizioni del vincolo matrimoniale, stabilirne gli impedimenti, la validità e, regolarne la celebrazione. In tal modo la competenza dell’autorità dello Stato si restringeva ai soli effetti civili (successioni, obblighi reciproci degli sposi, convenzioni matrimoniali). La Chiesa godeva di privilegi e di numerose immunità, cioè di esenzioni dal diritto comune, che riguardavano le cose, i luoghi, le persone sacre.
Le immunità locali includevano il diritto di asilo, proprio delle chiese e degli edifici annessi; le immunità reali rendevano inalienabili ed esenti da tasse i beni ecclesiastici e prevedevano le decime sacramentali, cioè il diritto del clero ad esigere la decima parte dei frutti delle diverse attività. Infine le immunità personali esentavano gli ecclesiastici dalla giurisdizione dei tribunali ordinari e attribuivano loro il diritto di essere giudicati dal tribunale ecclesiastico. E l’esistenza di due diverse giurisdizioni nello stesso territorio creava spesso difficoltà nella determinazione dei due fori.
La monarchia francese si è sempre gloriata del titolo di “figlia primogenita della Chiesa” e senza dubbio viveva in profonda unione con essa. Tuttavia i rapporti tra Chiesa e Stato non sono sempre stati pieni di intesa e cordialità. Il Re sapeva bene di possedere una forza autonoma e non esitava ad opporsi alle ambizioni del Papato quando queste potevano minacciare la prerogativa o gli interessi del regno.
Con la “Prammatica Sanzione di Bourges” del 1438 Carlo VII gettò le basi della Chiesa nazionale francese (Chiesa Gallicana): infatti con un atto unilaterale riconobbe apertamente la supremazia del Concilio sul Pontefice e lo privò della maggior parte dei diritti di cui godeva in Francia[1]. Dopo alterne vicende si giunse alla revoca definitiva del provvedimento da parte di Francesco I e Leone X i quali con il Concordato di Bologna del 1516 raggiunsero un accordo che avrebbe disciplinato per tre secoli la questione della Chiesa francese.
Con il concordato di Bologna del 18 agosto 1516 la Chiesa di Roma conseguiva un grande successo morale: infatti il nuovo accordo abrogava in maniera definitiva la Prammatica Sanzione. Il Papa, le cui riserve e le cui aspettative venivano abolite, otteneva anche un rilevante vantaggio materiale, ottenendo di esigere “le annate”, annualità che dovevano corrispondere i nuovi investiti di dignità ecclesiastiche. Il Re, che manteneva tutti i vantaggi già acquisiti e che diventava proprietario delle immense ricchezze dell’episcopato francese, aveva il diritto di nominare e “imporre” i suoi candidati per l’assegnazione dei vescovadi, degli arcivescovadi e delle abbazie, mentre l’elezione del basso clero veniva lasciata ai sistemi abituali. Quando una sede vescovile si rendeva vacante, il re doveva indicare al Papa un candidato idoneo per attitudini e qualità morali: il Papa poteva non ritenerlo idoneo e il sovrano raccomandava un altro, fino a tre volte. Ma le scelte regie venivano respinte raramente. In seguito a trattative diplomatiche condotte in segreto, il Papa conferiva il Beneficio, con l’investitura canonica, inviandone la relativa bolla al re e così il nuovo titolare – dopo aver pagato alla S.S. i relativi diritti – veniva consacrato canonicamente, e, giurata fedeltà al re, messo in possesso del Beneficio che, per tutto il tempo, era stato amministrato dal fisco come “Beneficio Vacante”[2].
L’accordo provocò una tenace e violenta opposizione da parte del Clero francese, delle Università, e dei Parlamenti, ma Francesco I riuscì a vincerla e il Concordato rimase in vigore fino alla Rivoluzione del 1789.
Tutta l’organizzazione della Chiesa era nelle mani del re e ciò provocò diverse conseguenze: da una parte la subordinazione della Chiesa al Sovrano condusse all’affermazione progressiva delle cosiddette Libertà della Chiesa Gallicana (formulate da Pithou e Coquille) dall’altra si creò una forte solidarietà tra le due Istituzioni. Infatti durante i disordini provocati dalla Riforma il Concordato ebbe grande valore. Gli ampi diritti che i re francesi godevano sui possessi materiali del clero francese, li condussero a proteggere la Chiesa dalla tentazione delle dottrine scismatiche.
E così il Protestantesimo luterano diffuso in Francia dai predicatori calvinisti fu inizialmente considerato e perseguitato come un’eresia che avrebbe distrutto l’unità cristiana: i suoi seguaci, giudicati sia da tribunali laici sia religiosi furono allontanati dal Regno o mandati a morte.
Ma la constatazione degli abusi nella Chiesa Cattolica, l’accusa di immoralità rivolta al basso clero (a causa della vita mondana dei prelati), l’esigenza di una radicale riforma per impedire i frequenti scandali, provocati soprattutto dalla larga ingerenza del potere regio nelle questioni ecclesiastiche, avevano accresciuto il malcontento in larghi strati della popolazione. Di questa situazione avevano approfittato gli Ugonotti per fare proseliti in tutte le classi sociali: molti mercanti e artigiani dei maggiori centri commerciali aderirono al calvinismo, che attraverso una serie di editti venne sempre più tollerato.
L’era delle persecuzioni in Francia si chiuse con l’Editto di Nantes del 15 aprile 1598, che, emanato da Enrico IV di Borbone per porre fine alla guerra civile, non fu bene accolto dal Clero, dal Papa e dai Parlamenti.
L’editto accordava agli Ugonotti la libertà di circolare e di stabilirsi nel Regno senza essere più accusati di eresia. Essi godevano della libertà di coscienza, e del suo corollario naturale, la libertà di insegnamento.
Ma la libertà di culto non era illimitata: il proselitismo era vietato e i protestanti, che avevano il diritto di tenere liberamente assemblee religiose (concistori, colloqui, sinodi) potevano praticare il loro culto solo nelle città nelle quali esso era stato permesso nel 1596 e nel 1597. Inoltre essi erano costretti a pagare le decime e a sostenere, di conseguenza, le spese del culto cattolico. Il provvedimento riconosceva loro anche una perfetta uguaglianza di diritti politici e civili con i cattolici. Potevano accedere alle università, a tutte le cariche e a tutti gli impieghi dello Stato. E per garantire il godimento di questa uguaglianza si arrivò anche alla creazione di una “camera mista” o “camera dell’editto” composta da protestanti e cattolici, che aveva la competenza di giudicare i processi nei quali erano coinvolti dei protestanti. Infine gli Ugonotti ottennero 142 “places de sureté” (tra cui Montpellier, La Rochelle) con dei governatori protestanti stipendiati dal re.
Tale accordo fu rispettato da Luigi XIII ma l’avvento di Luigi XIV modificò la situazione.
Il tentativo di affermare la concezione gallicana della Chiesa, concepita come un identità nazionale soggetta alla volontà regia, segnò profondamente il lungo regno del Re Sole. La strumentalizzazione della religione a beneficio del sovrano, tipica manifestazione del suo assolutismo, rientrava nel conflitto più largo contro ogni forma di dissenso. Ripudiando la tolleranza dei suoi predecessori e ritornando alle persecuzioni contro i protestanti, nel 1685 revocò l’Editto di Nantes con l’Editto di Fontainbleu, che, provocando la fuga all’estero delle élites calviniste, indebolì notevolmente l’economia francese.
Con questo provvedimento, si applicò anche in Francia il principio “cuius regio eius religio” che la Riforma aveva imposto nei paesi del nord Europa con la pace di Westfalia del 1648. I calvinisti così si trovarono in una situazione analoga a quella dei cattolici nei diversi stati protestanti: essi furono cacciati dalla Francia perché colpevoli di minacciare quell’unità spirituale dello Stato, che doveva essere il riflesso della raggiunta unificazione politica.
L’Editto non aboliva la libertà di coscienza, ma prevedeva la perdita dello stato civile per i protestanti (l’esclusione da ogni funzione giuridica e pubblica), la soppressione dell’esercizio pubblico del culto, la chiusura delle scuole, la distruzione dei templi, e l’obbligo di far battezzare ed educare i bambini da preti cattolici.
Ma la politica religiosa di Luigi XIV attuò anche la durissima repressione contro i Giansenisti che sostenevano un rigorismo etico inflessibile: nel 1710 a Port Royal fu demolito, per ordine del sovrano, il centro del movimento e nel 1713 Clemente XI ne condannò l’eresia nella Bolla Unigenitus, che dopo lunghe controversie fu convertita in legge nel 1720.
Negli anni successivi, verso la fine del 1700, Luigi XVI constatò, che malgrado gli sforzi dei suoi predecessori, si trovavano ancora dei protestanti in Francia e che dunque era necessario attribuire loro uno stato civile. Così nel 1787 emanò l’Editto di tolleranza di Versailles “concernant ceux qui ne font pas partie de la religion catholique”. Il provvedimento concedeva loro il godimento di tutti i beni e diritti, il libero esercizio di arti, mestieri, professioni “sans que, sous prétexte de religion ils puissent etre troblés ni inquetés”.
Tuttavia, nel regno, solo la religione cattolica poteva avvalersi del culto pubblico: i protestanti ottennero ancora una volta, il godimento della libertà di coscienza, ma non quello della libertà di culto.
Nella seconda metà del 1700 in vari Stati europei (Spagna, Paesi Asburgici, Regno di Napoli), si erano sviluppate una serie di riforme socio politiche che avevano dato un forte impulso allo sviluppo dello Stato moderno.
La Francia, dove l’Illuminismo aveva salde radici, era rimasta invece quasi totalmente estranea a qualsiasi tentativo concreto di riforma.
E proprio dalla Francia di fine secolo, per reazione, partì quel movimento radicale che avrebbe cambiato in tutti i sensi il volto dell’Europa.
La Rivoluzione Francese distrusse, infatti, le strutture sociali, politiche, economiche dell’ancien régime e gettò le basi di una nuova società, cercando di attuare concretamente i principi e gli ideali elaborati nel ‘700.
L’uguaglianza sostituì il privilegio, la libertà e la sovranità popolare eliminarono l’autorità assoluta del sovrano, specie sfociata in arbitrio.
Il principio di Uguaglianza enunciato dall articolo 1 della Dichiarazione dei Diritti del 26 agosto del 1789[3] ebbe un’applicazione assai vasta: nell’ambito sociale, furono eliminati i privilegi economici, cioè, le esenzioni di intere classi dagli oneri fiscali ed ebbero fine le distinzioni sociali nell’ammissione alle cariche e agli uffici pubblici. Con la costituzione civile del clero, cessarono inoltre le immunità di cui godevano di fronte alla legge civile gli ecclesiastici, considerati ormai dallo Stato come cittadini alla stregua degli altri, con uguali diritti e doveri.
Anche le discriminazioni di carattere confessionale vennero abrogate, implicitamente dall’articolo 6 (“tutti i cittadini sono ugualmente ammissibili a tutte le dignità, uffici, e impieghi pubblici a seconda della loro capacità, e senz’altra distinzione che quella della loro virtù o del loro impegno”) ed esplicitamente dall’articolo 10 che consacrò in maniera definitiva la libertà religiosa: “Nul ne doit etre inqueté pour ses opinions, meme religeuses, pourvu que leur manifestation ne trouble pas l’ordre public établi par la loi”. Fu così completamente riconosciuto il diritto all’esercizio e alla diffusione di ogni religione, senza alcuna limitazione alla libertà di coscienza.
[1] La Prammatica sanzione conteneva, tra gli altri provvedimenti, la decisione di indire concili periodici vincolanti anche per la Chiesa.
[2] MARONGIU A. Lo Stato moderno, Roma, pp. 89-99.
[3] Art. 1: “Gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune.”