Alberto Somekh
Ho letto l’importante ed interessante scritto di David Piazza: “I costi della kashrut in Italia”, che mette sul terreno alcune delle problematiche del settore. Rispondendo ad un invito esplicito dell’Autore, voglio aggiungere a mia volta alcune considerazioni tratte soprattutto dalla mia esperienza di Rabbino Capo di una media Comunità italiana. A Torino distinguiamo fra due procedure diverse di “hekhsher”: la “certificazione kasher” e l'”autorizzazione kasher”.
Certificazione kasher
Chiamiamo così la procedura richiesta dalla ditta per ottenere il certificato o marchio kasher sui suoi prodotti, tutti o in parte, allo scopo di soddisfare un’esigenza della sua clientela. Il Rabbino esamina in ufficio la documentazione relativa; se ritiene che vi siano gli estremi per procedere oltre compie un sopralluogo presso lo stabilimento. Al termine emette un certificato di conformità alle regole di kashrut, che viene rimesso alla ditta richiedente in cambio del versamento di un “diritto di hekhsher” alla Comunità, per il quale la ditta riceve regolare ricevuta. A proposito della “certificazione” va notato quanto segue.
Sono i clienti della ditta a stabilire di volta in volta gli standard di kashrut desiderati, che possono essere più elevati rispetto a quelli che il Rabbino stesso richiede in Comunità.
Il Rabbino ha il potere di orientare le scelte della ditta, almeno per quanto attiene i prodotti da certificare, verso materie prime già certificate a loro volta.
La “certificazione” è in pratica sempre richiesta per soddisfare un’esigenza del mercato estero (Israele, Stati Uniti, Francia, Inghilterra). A tutt’oggi non ricordo alcuna ditta che abbia chiesto lo “hekhsher” per il mercato italiano!
La “certificazione” è in pratica rilasciata su prodotti di scarso o nessun interesse per il consumo della ns. Comunità. Quando non si tratta di materie prime per l’industria (es. verdure essiccate per ripieni), perlopiù parliamo di manufatti a) molto specifici (es. polvere per dentiere); ovvero b) prodotti da case “di nicchia” al di fuori della grande distribuzione nazionale (es. tonno Coalma); oppure c) consumati abitualmente dalla maggior parte degli Ebrei italiani anche senza un “hekhsher” (es. pasta di semola, salsa di pomodoro, caffè). In alcuni casi, infine, la certificazione viene rilasciata esclusivamente per singoli stoccaggi. E’ dunque evidente che il beneficio per la Comunità è essenzialmente di natura economica.
Globalizzazione
Trattandosi di una procedura eminentemente commerciale rivolta all’estero, la certificazione è naturalmente esposta alle regole della concorrenza e della globalizzazione. Non è detto infatti che le ditte si rivolgano al Rabbino della Comunità più vicina. In molti casi i clienti “impongono” alle ditte i loro Rabbini, che giungono appositamente dai paesi di provenienza: ciò non solo per una questione di fiducia, ma spesso per contratto, nel senso che quei Rabbini sono pagati per questo! Ciò vale in tutti i casi in cui viene richiesto espressamente il marchio di una delle grandi organizzazioni di “heksher”. In questi casi il principio di “hassagat ghevul”, a prescindere dalle sue nobili giustificazioni teoriche, non può essere in pratica impugnato.
Autorizzazione kasher
Chiamiamo così la procedura richiesta dalla Comunità per verificare la conformità di prodotti industriali alle regole kasher per proprio uso e consumo. Scopo dell’autorizzazione è mettere a disposizione degli Ebrei in Italia una gamma di prodotti essenziali e facilmente reperibili. Al termine dell’esame dei documenti e del sopralluogo, il Rabbino si limita a stilare un rapporto ad uso interno, a segnalare i prodotti sulle liste kasher in circolazione nelle nostre Comunità senza rilasciare alle ditte alcun attestato. E’ evidente che si tratta di una procedura “debole” per almeno tre ragioni:
La verifica di kashrut avviene secondo gli standard della Comunità, talvolta insoddisfacenti per i nostri correligionari più osservanti. A Torino, p. es., ammettiamo le facilitazioni halakhiche del latte, dei prodotti da forno, e di alcuni formaggi freschi prodotti da non ebrei (i cui ingredienti, naturalmente, siano kasher) anche se in altre Comunità non verrebbero consumati.
Dal momento che in questi casi la richiesta del controllo parte dalla Comunità, il Rabbino si limita a verificare lo status quo della produzione ma non ha nessun potere contrattuale sulle scelte della ditta in termini di materie prime che vada oltre l’accordo fra gentiluomini. Se, per ipotesi estrema, all’indomani del sopralluogo la ditta decidesse l’immissione di ingredienti non kasher, il Rabbino non potrebbe far altro che depennare quel nome dalla sua lista!
Trattandosi, infine, di una procedura non remunerativa per nessuno, non è facile trovare Rabbini disposti a intraprendere viaggi per farsi ricevere a malincuore dalle ditte, sapendo che la loro Comunità li vedrebbe più volentieri impegnati in altre attività in sede e rimborserà loro a malapena il biglietto del treno! Posso però attestare, per esperienza diretta, che con il personale di alcune delle ditte in questione si è sviluppato un rapporto di stima e fiducia reciproche, basato proprio sulla sua natura non-commerciale.
Rivendite.
Emerge con evidenza da questo quadro che il tentativo di impostare in Italia una kashrut con criteri universalmente accettati, sufficientemente ramificata e a prezzi contenuti si scontra anzitutto con l’esiguità del mercato locale. Molto si sta facendo per sensibilizzare le basi comunitarie sull’importanza di consumare prodotti certificati ma non è sufficiente, e ciò non solo per via di abitudini ataviche difficili da sradicare. Gli esercizi commerciali che rivendono i prodotti kasher al dettaglio sono pochi, sanno di lavorare in regime di monopolio e pertanto alzano i prezzi. Potrebbero prendere in considerazione l’idea di abbassarli, cercando così di allargare la clientela. Ma evidentemente nell’immediato conviene loro agire diversamente, ricavando il massimo da una clientela sicura, ancorché ristretta. Ciò è comprensibile, fintanto che questa tendenza al rialzo dei prezzi sia contenuta entro limiti ragionevoli. Nel momento in cui gli affezionati clienti, che già sono pochi e sempre gli stessi, stentano a pagare, il negozio finisce prima o poi per “strangolarsi” da solo. E’ questo il motivo principale per cui anche all’estero molti esercizi kasher, soprattutto ristoranti, hanno in genere vita breve, a meno che non godano di sovvenzioni.
Rabbini
Collegato con il problema dell’esiguità del mercato italiano è quello della posizione del nostro Rabbinato rispetto a quelle che potremmo chiamare le multinazionali della kashrut. Anche in questo campo molto si è fatto per elevare il grado di istruzione specifica dei Rabbini italiani rispetto ad un lontano passato. Ma neanche questo si rivela sufficiente. Occorre infatti ricordarsi che per ogni pagina di Talmud studiata in Italia decine e decine se ne studiano altrove, in quei paesi in cui la kashrut è sentita come un’esigenza concreta da ampi strati della popolazione ebraica ed è in grado di muovere interessi notevoli. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione crescente delle sofisticazioni nell’industria alimentare, si richiederà ai Rabbini impegnati nelle certificazioni una competenza settoriale (halakhica e chimico-biologica) sempre maggiore. In altre parole, se si vuole competere con l’estero in questo campo, occorre che anche il nostro Rabbinato faccia emergere figure che si dedichino a tempo pieno alla kashrut come disciplina a se stante. Mi pare già un risultato incoraggiante che da alcuni anni siano prodotti in Italia vini kasher con lo “hekhsher” di Rabbini Italiani controfirmato da importanti organizzazioni estere, quali il Rabbinato israeliano. Lungi dall’essere una diminutio capitis, come qualcuno potrebbe interpretarlo, è a mio avviso l’inizio di una nuova era della kashrut in Italia.
Rav Alberto Moshe Somekh, Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Torino