Vanessa Tomassini
Prima la sfida dell’Unesco, che lo scorso 7 luglio ha definito Hebron con la sua Tomba dei Patriarchi, in Cisgiordania, ‘sito palestinese’ Patrimonio dell’Umanità. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu l’aveva definita una “decisione delirante”, promettendo che Israele avrebbe continuato a custodire la Tomba dei Patriarchi per assicurare la libertà religiosa di tutti, anche perché la storia non può essere cambiata. Poi il venerdì di preghiera musulmano nella Città Vecchia di Gerusalemme, trasformato in un venerdì di sangue con l’attentato di tre israeliani arabi che hanno preso di sorpresa tre agenti di polizia, uccidendone due e mandandone un terzo in ospedale gravemente ferito. Da qui la decisione di Netanyahu di chiudere il sito e la conseguente sassaiola di protesta da parte dei palestinesi nella Spianata delle Moschee. Ma la scia di sangue non finisce qui: una famiglia sterminata dai terroristi di Hamas a Gerusalemme durante i festeggiamenti di quest’ultimo Shabbat in casa propria e poi l’attentato all’ambasciata di Amman di Israele in Giordania, dove un operaio giordano ha ucciso, pugnalandola, una guardia di sicurezza israeliana.
A tutto questo deve sommarsi una minaccia ancora più seria: Hezbollah. Il cosiddetto Partito di Dio, nato nel giugno del 1982 sotto la guida di Hassan Nasrallah, dispone di decine di migliaia di razzi a varia gittata capaci di raggiungere il territorio israeliano, non solo dal Libano, ma anche dalla Siria. Questa mattina la bandiera gialla del gruppo terrorista, che in Libano è anche un partito politico, è stata issata di fronte l’Ambasciata di Israele a Londra. Rendendo così, giorno dopo giorno, la minaccia sempre più reale e vicina.
Nonostante Israele, con i suoi sistemi radar antimissilistici e i suoi equipaggiamenti, non avrà di certo problemi seppur con qualche difficoltà iniziale a fronteggiare il nemico libanese, Hezbollah ha imparato da Hamas ad utilizzare scudi umani. Una mossa da parte di Netanyahu provocherebbe decine di migliaia di morti tra i civili libanesi, morti che non sarebbero sicuramente ben visti dall’opinione pubblica internazionale che sempre più parla di “boicottaggio” dello Stato di Israele. Cercando di far luce sui problemi e le possibili soluzioni della questione israeliana, abbiamo incontrato il rabbino capo di Milano, Rav Alfonso Arbib, che ci ha ricevuti nel suo ufficio situato nella splendida cornice della Sinagoga centrale di via Guastalla, presidiata da camionette dell’esercito e forze dell’ordine. Il rabbino ha preferito non toccare i temi politici, ma abbiamo cercato di fare insieme un’analisi degli attuali guai di Israele.
L’UNESCO ha dichiarato Hebron e la Tomba dei Patriarchi patrimonio dell’umanità di appartenenza palestinese. Cosa rappresentano rispettivamente questi luoghi per gli arabi e per gli ebrei?
“Preferisco dirle cosa rappresentano per gli ebrei. Hebron, probabilmente, è il più antico luogo di residenza ebraica, è la città dei Patriarchi, è stata la città di Abramo ed è sempre stato un centro fondamentale: un punto di discioglimento. Secondo l’interpretazione dei Maestri, la parola Hebron deriva dal verbo ‘לאחד’ che significa unire: la città che unisce cielo e terra. La Tomba dei Patriarchi, secondo un passo di Isaia, rappresenta l’entrata verso il Paradiso, il punto di passaggio tra questo mondo e l’aldilà. Hebron è un centro spirituale, lo è sempre stato, sia nei tempi antichi che in quelli moderni. Una cosa che si dimentica di dire, parlando di Hebron, è che quest’area è stata da sempre abitata dalla popolazione ebraica e alla fine degli anni ’20 c’è stato un massacro con lo sterminio di tutta la popolazione ebraica locale. Hebron rappresenta un legame con l’antico, con l’origine dell’ebraismo, ma anche un legame con il moderno, che è molto forte e molto sentito. Dal punto di vista ebraico fa molto male sentir parlare di tutto questo come “colonia”, come se la storia fosse scomparsa. Non voglio entrare nella questione politica, ma si tratta del cuore della tradizione ebraica, di elementi essenziali, dell’origine, dei sentimenti, di tutto. Questo fa molto male”.
Perché questa decisione dell’UNESCO?
“Sinceramente, mi sembra in parte scandalosa e dall’altra ridicola. Questa decisione nega la storia, nega l’evidenza e non so in che modo lo si possa fare. Dal punto di vista dei musulmani la questione è un po’ più complicata: almeno secondo l’idea comune dell’Islam c’è un legame coi Patriarchi che in qualche modo rappresentano l’Islam. Sicuramente un legame c’è, tuttavia negare quanto sia fondamentale e viscerale per l’ebraismo, significa negare l’evidenza”.
Dopo l’attentato a Gerusalemme Vecchia, Netanyahu ha chiuso il sito con dei metal detector, lasciando fuori i Palestinesi a pregare. Possiamo leggere il successivo attacco all’ambasciata israeliana di Ammam in Giordania come una reazione di Hamas?
“Io non credo che ci sia l’intenzione da parte degli israeliani di escludere i musulmani da questi luoghi. Credo che sia stata una misura di sicurezza presa in quel momento per fronteggiare la situazione. Né ad Israele, né a nessun ebreo verrebbe in mente di impedire ai musulmani di pregare e di avere questo luogo di culto fondamentale. Nessun governo israeliano ha intenzione di fare una cosa del genere. È folle pensarlo, ed ancora più folle farlo. Ho sempre il dubbio per quanto riguarda Hamas che si tratti di reazioni o strumentalizzazioni. È un leitmotiv di ogni estate la recrudescenza di atti di terrorismo o anche peggio”.
Sempre in questo quadro, durante l’ultimo Shabbat alcuni palestinesi sono entrati in casa di ebrei a Gerusalemme massacrando un’intera famiglia. Secondo lei quest’incubo un giorno finirà?
“Spero proprio che questo incubo finisca. Pensare che qualcuno possa entrare in casa propria mentre stai festeggiando lo Shabbat, insieme alla tua famiglia, ricorda i momenti peggiori della storia ebraica: le persecuzioni ucraine e russe. Fa pensare che non si possa vivere serenamente nella propria casa: è un atto terribile e vigliacco. Credo che la reazione del resto del mondo, delle organizzazioni internazionali sia davvero troppo timida”.
Gli ebrei sono stati accusati di razzismo per via della cinta di sicurezza, ma è vero che ci sono alcune zone in territorio israeliano dove dei cartelli vietano l’ingresso agli ebrei?
“È vero, questo è vero: in alcune parti gli ebrei non possono entrare, sia per via di cartelli che lo vietano, sia perché in alcune aree i rischi sono talmente alti che non è consigliabile. Al contrario non mi risultano divieti o limitazioni per i musulmani da parte degli israeliani ebrei. La chiave di lettura di tipo razzista è fuorviante, è importante capire che Israele vive in una situazione di attentato alla sicurezza esistenziale continua, da sempre. Credo che il mondo occidentale non se ne renda conto. Io ero in Israele alcuni anni fa, proprio quando si discuteva se fare il muro o meno, la discussione era estremamente bipartisan. C’era gente di sinistra che considerava necessaria la realizzazione del muro, gente di destra che sosteneva che non si dovesse fare, perché il muro rappresenta un confine e non era ben visto. Il motivo di costruzione del muro di sicurezza era esclusivamente per protezione in quanto prima del suo innalzamento vi erano attentati continui in Israele. Il muro ha ridotto gli attacchi del 90%, se non ricordo male. Questa è l’unica motivazione, nessun motivo discriminatorio, ma un tentativo di salvaguardare la vita delle persone”.
La diplomazia israeliana è stata sempre di auto-difesa, permettendo ai palestinesi di inventare storie e creare una propaganda, che in parte è riuscita a convincere l’opinione pubblica globale. Sempre più spesso sentiamo parlare di boicottaggio. Forse la stessa scelta dell’UNESCO è dipesa da queste menzogne. Vista la minaccia di migliaia di missili nelle mani Hezbollah, con basi in Siria e Libano, crede che sia necessaria una strategia diplomatica da parte di Israele che informi il mondo su chi è e cosa fa Hezbollah? Un eventuale attacco preventivo da parte di Israele, senza queste premesse, non rischierebbe di aumentare maggiormente l’immagine del “cattivo” già spesso attribuita allo Stato di Israele?
“Non mi sento di dare consigli agli israeliani su come fare propaganda, e neanche come guidare la propria politica estera: decideranno loro. Quello che posso dire è che ho l’impressione che il fattore educativo sia stato trascurato e sottovalutato. Nel mondo arabo, anche in quello non così ostile ad Israele, c’è un sistema che educa molto spesso all’odio. È qualcosa di cui non si parla mai, non ci si rende conto che questo può formare generazioni di persone, futuri cittadini formate dall’idea dell’odio. Credo che la battaglia, non tanto propagandistica, quanto quella educazionale sia fondamentale. Credo che sia necessario trasmettere qualcos’altro, dobbiamo far capire che il mondo è più complicato di come viene spesso rappresentato, che le situazioni sono diverse. Abbiamo il dovere di farlo, che funzioni o meno. Non so se ormai la situazione è degenerata, perché vi è già stata questa penetrazione di idee di propaganda anti-israeliana, credo tuttavia che sia nostro dovere farlo, indipendentemente dai risultati”.
E crede che questi messaggi possano essere recepiti?
“Francamente non lo so, nessuno lo sa. Si dice che una goccia dopo l’altra scolpisce una pietra. Credo che sia ora di iniziare a versare qualche goccia”.
Papa Francesco nell’omelia della domenica ha invitato al dialogo. Secondo lei, dopo i recenti fatti, dialogare è ancora possibile?
“Io credo che sia ovviamente difficile, ma nello stesso tempo inevitabile. Io non credo che si possa perdere la speranza del dialogo. Sarebbe terribile, perdere la possibilità del confronto significherebbe vivere in un mondo molto brutto. Dobbiamo provarci, non so con quali modalità e con quale successo, ma nessuno di noi può continuare a vivere così, in un conflitto eterno”.
Lo scorso mese è stato celebrato il cinquantenario della Guerra dei Sei Giorni. Una delle cause più scottanti del conflitto israeliano-palestinese è la liberazione, o meno, di alcuni territori “occupati”. C’è in questo momento in Israele un dibattito serio su questa possibilità? O crede che si stia passando da un conflitto territoriale a una guerra di religione?
“Sì, il dibattito in Israele c’è da sempre. Credo che il dilemma prosegua dal giugno del 1967. Il problema è che non è solamente territoriale, basti pensare alla pace con l’Egitto. Il conflitto è molto complicato: è sicuramente religioso, ma non solo. Ci sono una serie di questioni che si intrecciano, che implicano passioni, pensieri ed idee”.
Quale clima si respira all’interno della Comunità ebraica di Milano?
“In questo momento c’è un clima di forte preoccupazione per quanto avviene in Israele. Siamo in allerta da diverso tempo, non solo da adesso. Siamo protetti e dobbiamo ringraziare chi ci protegge: la polizia, i carabinieri, l’esercito. La minaccia effettivamente c’è, ma come in Israele si vive in assoluta tranquillità, anche se il campanellino d’allarme c’è sempre. Grazie a Dio fino ad oggi l’Italia è stata risparmiata dagli attentatori, ma non si può mai dire l’ultima parola”.
Che scenari immagina nel breve e nel medio termine per Israele?
“Il pericolo è fondamentalmente quello iraniano e collegato ad esso quello degli Hezbollah. Spero che rimanga dormiente.”
Crede che l’occidente possa fare qualcosa? Soprattutto il vostro maggiore alleato, Donald Trump, non dovrebbe alzare un po’ la voce?
“Credo che l’occidente debba esercitare un’influenza differente, debba uscire fuori dallo schema “buoni/cattivi”, che spesso viene usato per questa questione. È necessario capire le posizioni, senza necessariamente dover dare ragione all’uno o all’altro. Bisogna prendere atto della realtà per quella che è, ascoltare le motivazioni di tutti e cercare di proporre soluzioni pragmatiche. L’occidente deve lasciare questa realtà, per certi versi, immaginaria e compiere un grande sforzo per combattere l’odio, da qualunque parte esso provenga”.
Notizie Geopolitiche – 24.7.2017