L’irrisolta questione delle partite di pallone giocate in Israele nel giorno del riposo.
Luca D’Ammando
Il calcio al tempo dello Shabbat è molto più che una questione sportiva in Israele. Diritti televisivi, pianificazione logistica e disponibilità degli stadi hanno creato da anni un corto circuito per giocatori e tifosi: il sabato si può scendere in campo? Si può andare sugli spalti? D’altra parte il tema è di stretta attualità politica, dopo che a settembre il premier Benjamin Netanyahu ha subito critiche e un calo negli indici di gradimento per le ripercussioni di una lite avuta col ministro dei trasporti Israel Katz sull’opportunità di svolgere lavori urgenti di manutenzione alle ferrovie durante il riposo sabbatico.
Già all’inizio dello scorso campionato la questione si era posta in maniera drastica e l’avvocato dello Stato, Yehuda Weinstein, aveva stabilito che «nessuno può essere legalmente perseguito perchè gioca a calcio di sabato» nonostante una sentenza del Tribunale del Lavoro andasse nel senso opposto. Ora il campionato è ricominciato e il problema si pone di nuovo. Soprattutto per i tifosi, costretti a lasciare lo stadio prima della conclusione delle gare per rispettare i dettami del sabato ebraico, che inizia esattamente al tramonto del venerdì. Storicamente, il governo calcistico israeliano ha spinto per far disputare le gare di sabato, contrastato dai calciatori che non volevano scegliere tra la santità del sabato e i loro obblighi nei confronti dei club di appartenenza. Tra giudici che chiedevano al governo di validare deroghe e tentennamenti politici, la questione è rimasta irrisolta. Poi, dalla scorsa stagione, la Professional Football League israeliana, che è a capo delle prime due divisioni del Paese, ha stretto accordi con una televisione per trasmettere le partite di campionato in alcune finestre ben precise, una delle quali comincia appunto il venerdì alle 15. Le ricadute di tali scelte sono, tuttavia, più complesse: cominciare le gare in quell’orario, soprattutto in inverno, significa correre il rischio di far coincidere pericolosamente le gare con l’arrivo del tramonto. Per molti appassionati che non guidano o utilizzano energia elettrica durante lo Shabbat, telefoni cellulari compresi, tornare a casa richiede spesso l’uscita anticipata dallo stadio.
Oltre alle tifoserie, ci sono i casi di calciatori come Guy Dayan, centrocampista dell’Hapoel Acre, che si professa religioso e osservante ma che difende la scelta di giocare durante lo Shabbat. «Per me è solo un lavoro che mi permette di provvedere alla mia famiglia», ha spiegato. È di certo un’evoluzione rispetto a vent’anni prima, quando «i calciatori estremamente religiosi avrebbero deciso di smettere, o avrebbero giocato soltanto in club di terza divisione, dove non si scende in campo durante lo Shabbat».
A ciò si aggiunge un altro elemento: il numero di ebrei altamente religiosi a prendere parte alle gare è in continua crescita. Dov Lipman, ex membro del parlamento israeliano che ha lavorato per colmare i divari culturali tra ebrei osservanti e laici, ritiene che questo gruppo stia spingendo per una rivalutazione del concetto stabilito secondo cui gli sport competitivi siano principalmente sotto il dominio degli israeliani laici. In passato, gli ebrei religiosi hanno spesso scoraggiato i loro figli a partecipare a sport organizzati a causa degli inevitabili conflitti con il sabato. «Ma quel gruppo sta rivalutando la questione, perché vogliono essere coinvolti», ha spiegato Lipman. Si sta lavorando per pianificare più gare di domenica, una giornata lavorativa e giorno di scuola in Israele, ma significherebbe considerarlo come un secondo giorno di riposo per l’intera società israeliana, una questione tutt’altro che semplice.
+Sul tema è intervenuto tempo fa anche il capo dello Stato Reuven Rivlin – gran tifoso del Beitar Jerusalem – auspicando una soluzione condivisa sulla questione e difendendo il vigente status quo fra laici ed osservanti, in base al quale «i laici in Israele di sabato vanno al mattino in sinagoga e più tardi allo stadio». Sembrerebbe solo una questione di pallone, non lo è.
(Shalom, novembre 2016)