Prima che diventi un santino anche Pannella (“Marco” in tutte le photo opportunity su Facebook) per anestetizzarne la dirompenza, sarà utile ricordare che qualche sassolino ce lo tenevamo ancora dentro.
Elena Loewenthal 28.5.2009
La stella gialla non era come quella che Marco Pannella ha deciso di usare per dare voce alla sua campagna elettorale. Non era ritagliata nel cartoncino ma stava cucita al vestito, là dove meglio e prima si vedeva: non potevi attaccarla e toglierla a piacimento. Non era una bandiera, bensì un marchio. Lo imposero i nazisti agli ebrei dell’Europa occupata, mentre li rinchiudevano nei ghetti: invivibili anticamere dei treni merci, degli smistamenti all’ingresso del campo di sterminio, delle camere a gas, dei forni crematori. I nazisti hanno inventato la soluzione finale, ma non la stella gialla, che si sono limitati a riesumare dalle ceneri ancora calde di una storia millenaria: la nostra, quella dell’Europa, che per secoli ha imposto ai figli d’Israele un segno di riconoscimento – banda, stella, cappello a punta – sì da poterli individuare, segregare, evitare, e non di rado cacciar via.
La stella gialla non era come quella adottata da Pannella per denunciare una pratica politica, un’inazione generale, un silenzio colpevole. Quella cucita sul vestito non c’entra nulla con la politica intesa come «scienza» (o trasandata pratica) che regola i rapporti fra gli uomini.
Non indica, nemmeno vagamente allude, non lascia spazio ad alcuna istanza di libertà: abita in un universo in cui la libertà non è concepita, non c’è modo di articolarla neppure come remota aspirazione. Chi portava addosso la stella gialla riusciva a pensare solo a sopravvivere, e sapeva bene che l’emarginazione era il muto preludio dello sterminio. Se quella di cartoncino che usa Pannella vorrebbe richiamare l’idea di una battaglia – pacifica e silenziosa, ma eloquente -, l’altra, quella vera, parlava solo di una sconfitta tremenda, inimmaginabile eppure vera. La stella gialla è, insomma, il simbolo di una resa atroce. Non esprimeva alcunché, non provava a sollecitare coscienze, denunciare ingiustizie. Era l’apice e l’abisso di una storia in cui il mettere da parte l’altro, tenersene a distanza, riconoscerlo per evitarlo, significava ribadire l’inguaribile disprezzo che per quel diverso si provava. Al limite da orchestrarne lo sterminio. La stella gialla era la fredda incubatrice della soluzione finale.
Per questo è impropria in qualsivoglia battaglia politica, morale, mediatica. Perché non sveglia le coscienze: le tramortisce. Non è uno stimolo, ma uno schiaffo alla giustizia e all’umanità. La stella gialla che i nazisti imposero agli ebrei, ripescando quel vecchio principio del segno distintivo infamante, concepito per emarginare e riconoscere il diverso per eccellenza, il «perfido giudeo», era un marchio indelebile. Ti stava cucito addosso sinché i kapò non ti facevano spogliare e ti spingevano dentro i locali doccia da cui usciva il gas letale Zyklon B, invece dell’acqua.
Da allora, la stella gialla non regge alcun paragone storico, rifiuta di farsi strumento di lotta, perché non dice altro che quella storia inaudita. Indossarla, farne un’allusione, non è atto che indigna. Men che meno scandalizza: non è oscena né offensiva. Però è inevitabilmente inadeguata a ogni linguaggio che non sia quello dell’abisso nero.
Fa parte di quell’universo, che non risponde alle leggi di questo (o almeno non dovrebbe essere così). Basti pensare a come e dove l’abbiamo vista, cucita sul vestito, indelebile. Nei ghetti, nei campi di raccolta, nelle retate, dentro i treni merci. Addosso a occhi sgomenti, bocche spalancate ma mute, braccia alzate in una resa impari: come quelle del bambino nel ghetto di Varsavia. È addosso ai bambini, che quel marchio grida più forte. Quelle braccine levate, tremule, sembrano sole di fronte agli aguzzini. Ma dietro c’è una folla di vittime. Con la stella gialla addosso: non era un marchio esclusivo. Lì dentro ce l’avevano tutti: vecchi (quei pochi che non erano già stati eliminati dagli stenti e dalle angherie), donne, bambini. Paradossalmente la stella gialla non distingueva nessuno. Anzi, assimilava tutti dentro un unico, terribile destino.
elena.loewenthal@mailbox.lastampa.it
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