Il domenicale di Kolot
Alberto M. Somekh
“Fermati un istante a pensare. Cosa si può ottenere dalle poche ‘ore di ebraismo’ che tu fai frequentare a tuo figlio come supplemento agli studi liceali o, in molti casi, solo come preparazione al Bar Mitzwah? Al più questo insegnamento potrà fornirgli un distillato della Parola Divina, adattato alla visione del mondo e alla capacità intellettuale di un giovane. Ammettiamo che abbia fatto il Bar Mitzwah: abbia felicemente superato l’esamino, abbia recitato la ‘professione di fede’ con il dovuto infantile fervore, abbia ricevuto i complimenti di zii e cugini e che l’istruttore sia stato adeguatamente ringraziato per i suoi sforzi. Dopo tutto ciò puoi tu, padre ebreo, rivolgerTi al Tuo Padre Celeste e dichiarare in tutta sincerità di aver compiuto ogni sforzo in qualità di padre sulla terra, di aver preparato tuo figlio ad affrontare le tentazioni che lo attendono? E se un giorno tuo figlio dovesse prender sottogamba la morale e la religione, puoi dire in tutta onestà di avergli messo in mano tutti i mezzi di salvezza che il tuo D. aveva già riposto nelle tue mani per il bene della gioventù ebraica?” Così Shimshon Refael Hirsch interviene sul delicato tema dell’educazione ebraica (Collected Writings VII, p. 17), aprendo un dibattito destinato ad avere ripercussioni epocali. Peraltro il suo motto Torah ‘im Derekh Eretz (nel senso di combinare insieme la “Torah con gli studi profani”; cfr. Avot 2,2) non presuppone un incontro paritario, né un vero dialogo fra Torah e modernità: per lui “il progresso è valido solo se non interferisce con la religione”.
Ma chi era Shimshon Refael Hirsch? Nato ad Amburgo nel 1808, studiò Talmud con suo nonno, con Rav Yaacov Ettlinger e con Itzhak Bernays, che aveva incluso gli studi profani nel curriculum del Talmud Torah della città. Hirsch frequentò la facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Bonn per un anno (1829). Qui strinse amicizia con Avraham Geiger, il futuro esponente della Riforma: insieme organizzarono un movimento di studenti ebrei per lo studio e la diffusione dei valori ebraici. Nel 1830 divenne Rabbino di Oldenburg. Negli 11 anni di questo incarico scrisse la sue opere principali: le “19 lettere sull’Ebraismo” e il Chorèb, in cui fornì una spiegazione intellettuale delle basi dell’Ebraismo (Ortodosso) in perfetto tedesco. Le lettere sono scritte in forma di scambio epistolare fra due giovani: Beniamino, il portavoce dei “perplessi” che esprime i suoi dubbi e Naftalì, il rappresentante dell’Ebraismo tradizionale, che formula le sue risposte in 18 lettere a proposito del rapporto fra Ebraismo e cultura generale. Ad esse anni più tardi aggiunse il monumentale Commento alla Torah, ai Salmi e al Siddur.
Nel 1846 Hirsch si spostò a Nikolsburg dove divenne Landesrabbiner della Moravia. Durante la rivoluzione del 1848 Hirsch diede il suo contributo all’Emancipazione degli Ebrei di Austria e Moravia, presiedendo il Comitato per i Diritti Civili e Politici degli Ebrei. Si dedicò anche alla riorganizzazione interna delle Comunità morave e all’elaborazione di uno Statuto per l’organismo centrale. Ma la Comunità di stretta Ortodossia di cui era il Rabbino aveva riserve sulla sua apertura. Specialmente il suo metodo di insegnamento (rigettava il pilpùl e dava importanza allo studio del Tanàkh accanto alla Halakhah) suscitò opposizione. Nel 1851 Hirsch fu chiamato al Rabbinato della Comunità Ortodossa di Francoforte (“Israelitische Religiongesellschaft”), posizione che tenne per 37 anni fino alla sua morte. Qui trovò un ristretto gruppo di sostenitori che lo aiutarono a consolidare la sua concezione dell’Ebraismo e ad adottare un atteggiamento pratico nell’affrontare i problemi dell’Ebraismo tedesco in quel periodo. Sotto la sua guida la Comunità Ortodossa di Francoforte e specialmente le istituzioni scolastiche da lui fondate e dirette divennero il paradigma della cosiddetta neo-ortodossia che si sviluppò in Germania e fuori.
Oltre all’educazione ebraica, il problema che S.R. Hirsch dovette affrontare fu quello della Riforma. Nel 1854 Hirsch pubblicò un pamphlet (“La Religione alleata con il Progresso”) in cui confutò la tesi riformata dell’inconciliabilità fra Ebraismo tradizionale ed educazione secolare. Ma Hirsch rifiutava di mettere in discussione i principi della fede ebraica e di mutare le pratiche religiose. Erano gli Ebrei, non l’Ebraismo, ad aver bisogno di una riforma. Perché l’Ebraismo potesse avere accesso alla vita culturale in Europa era essenziale che gli Ebrei si elevassero agli ideali eterni della Tradizione e non li abbassassero semplicemente per adeguarli alla richiesta avanzata dai contemporanei di avere una vita più comoda (lett. 17). Hirsch, pur difendendo la Schul tradizionale, introdusse un coro sotto una direzione professionale e le derashot regolari in tedesco. Difese la lingua ebraica come la sola atta alla Tefillah e all’educazione ebraica, sostenendo che se i nostri Padri avessero scritto le preghiere nella lingua del loro paese, esse ci sarebbero risultate incomprensibili a distanza di secoli e di luoghi.
Inizialmente fu contrario alla creazione di una Comunità separata finché la Riforma non avesse avanzato pretesa di cambiamenti radicali. Ma quando l’Assemblea Rabbinica di Brunswick (1844) decise di abolire divieti halakhici nell’ambito della kashrut e del matrimonio, cambiò radicalmente opinione. In una lettera indirizzata all’ala riformata egli scrisse che se avessero attuato le loro decisioni “la Casa d’Israel si sarebbe divisa in due”. I riformati avrebbero costretto i Tradizionalisti ad una secessione: “Il nostro Patto di unità non durerà e i fratelli si separeranno fra le lacrime”. Dal momento che l’autorità passava sempre più nelle mani dei Riformati, la rottura divenne lo slogan di Hirsch e seguaci. Come esempio Hirsch si ispirava a quanto accaduto in Ungheria dove il governo, nel 1871 (dopo il Congresso dell’Ebraismo ungherese nel 1868-1869) aveva riconosciuto le Comunità Ortodosse come corpo separato. Hirsch scrisse a sua volta alle autorità prussiane domandando di “permettere agli Ebrei di abbandonare le loro Comunità per ragioni di coscienza”.
Nel 1873 il governo prussiano discuteva sull’opportunità di approvare una legge che consentisse a chiunque di lasciare la sua comunità religiosa: si voleva d’altro canto contenere il fenomeno dell’esistenza di persone “senza religione”. Ma Eduard Lasker avanzò l’idea che lasciare la Comunità Ebraica per validi motivi religiosi non avrebbe significato per un Ebreo lasciare l’Ebraismo e l’emendamento fu accolto. Nonostante le proteste dell’ala riformata, nel 1876 fu approvata la Legge di Secessione (Austrittgesetz”), che gettò le basi per il movimento separazionista neo-Ortodosso, con centro nella Adass Yeschurun di Francoforte. “Una Comunità Ebraica –sosteneva Hirsch- ha diritto di esigere contributi dai suoi membri solo nella misura in cui assolve agli scopi indicati nella Bibbia e nel Talmud: lo studio e l’osservanza della legge religiosa ebraica. Una Comunità che trascuri questi scopi, o che giunga ad impedirli ed abolirli, non ha più alcuna pretesa sui suoi membri” (Collected Writings VI, p. 95). Non tutti i Rabbini ortodossi di Germania approvarono la scelta di Hirsch. In aperta polemica con lui Rav Bamberger permise agli Ebrei Ortodossi di rimanere in seno alle Comunità generali purché le loro esigenze fossero tutelate e fu di fatto seguito dalla maggioranza.
Per Hirsch “legge e religione formano un’unità. La legge senza la religione è priva della relazione con l’Assoluto (cosa che manca alle leggi del moderno Stato secolare), mentre la religione senza la legge si riduce a vacuo sentimentalismo e perde influenza sugli affari del mondo. Insieme la religione e la legge portano alla santificazione della vita umana… L’umanesimo, se privo di una base religiosa, cioè se nega la creazione dell’Uomo ad immagine e somiglianza di D., finisce per auto-distruggersi”. Riprendendo la distinzione tradizionale delle Mitzwòt fra Chuqqim (regole rituali) e Mishpatim (regole del diritto) egli scriveva: “I Mishpatim sono più facilmente intelligibili da tutti, in quanto riguardano le condizioni dell’ordine sociale comuni e apparenti a tutti, mentre i Chuqqim si riferiscono alla relazione interiore della materia con lo spirito, e perciò sono sì chiari a D. ma assai meno alla mente umana. Ecco perché lo ‘istinto cattivo’ si ribella ad essi!”. La dicotomia fra ragione e rivelazione dei filosofi medioevali, fra morale (avente valore permanente) e cerimoniale (avente valore transeunte) dei Riformati è superata. Lo scopo dei Chuqqim è contenere i desideri sensuali (kashrut, regole sessuali, per cui la Torah parla di qedushah) e forgiare il carattere dell’individuo affinché sia pronto ad entrare in società con gli altri ed accettarne le regole (Mishpatim). Avendo a che fare con l’ordine del Creato i Chuqqim, lungi dall’essere di per sé norme igieniche, vanno accettati come sono senza interferenze da parte dell’Uomo (cfr. Chorèb, par. 454). E’ sbagliato –afferma Hirsch- limitare D. al Bet ha-Kenesset: dobbiamo piuttosto farlo diventare la forza trainante di tutta la nostra vita (cfr. Chorèb, par. 616). Peraltro in questa visione “religiosa” dell’Ebraismo le aspirazioni nazionali trovano scarsa espressione: Hirsch non fu affatto un precursore del Sionismo. Egli “vede nell’emancipazione un’opportunità significativa per… rinnovare la missione del popolo ebraico in mezzo agli altri popoli nel fornire un esempio di obbedienza alla Volontà Divina” (J. Sacks, Tradition in an untraditional Age, p. 9).
Già pubblicato sul Bollettino di Milano