Una delle affermazioni di quel secolo creativo che indubbiamente è stato anche per il mondo ebraico il Settecento è il chassidismo. Di questo movimento ”di risveglio”, come lo definisce G. Scholem, “che rappresenta tuttora una forza effettiva per migliaia e migliaia di ebrei” si ha spesso un’immagine parziale. In realtà “gli scritti dei Chassidim presentavano un pensiero più originale di quello dei loro avversari razionalisti – i Maskilim – e… la rinata cultura ebraica poteva ricevere più di un efficace stimolo dall’eredità del chassidismo”. Alle origini del movimento si collocano due fenomeni: uno che possiamo definire storico-sociale, l’altro spirituale. Se fino alla metà del Seicento gli Ebrei in Polonia e nelle terre limitrofe godevano di un relativo benessere che aveva permesso una certa fioritura degli studi, le stragi dei cosacchi di Chmielnicki nel 1648 capovolsero la situazione. I massacri antisemiti provocarono la morte di decine migliaia di Ebrei e ne misero in serio pericolo le condizioni economiche. Resi soggetti ad una forte pressione fiscale, gli Ebrei abbandonarono le città, trovandosi non di rado a vendersi come servi ai proprietari terrieri al cui servizio si erano messi come contadini.
L’antisemitismo cresceva sotto la spinta della Chiesa, che sovente reiterava nei loro confronti la secolare accusa di omicidio rituale e faceva bruciare il Talmud nelle piazze. Se la Lituania non fu praticamente toccata dalla crisi e riuscì a mantenere la sua superiorità culturale, le province della Volinia e della Podolia risentirono profondamente dei mutamenti politici ed economici in atto.All’abbattimento morale e spirituale dell’ebraismo polacco fece eco il fallimento del movimento messianico sabbatiano. Shabbetay Tzevì, nato a Smirne nel 1626, dopo essersi più volte proclamato Messia fu imprigionato dal Sultano nel 1666 e per sfuggire alla condanna a morte preferì convertirsi all’Islam. Fu allora che il suo discepolo Natan di Gaza diede forza al movimento, interpretando l’apostasia del maestro come un segno positivo. La dottrina si diffuse anche in Polonia ed avrebbe avuto forza attraverso la predicazione di Jacob Frank (1726-1791), fondatore di una setta di ispirazione sabbatiana. Non è chiaro se e quali rapporti diretti abbia effettivamente avuto il primo chassidismo con gli esponenti del sabbatianesimo. Anche se quest’ultimo fu condannato dai Chassidim, cionondimeno alcuni aspetti della dottrina chassidica originaria potrebbero avere capovolto, come vedremo, un ascendente sabbatiano.
Si attribuisce la nascita del movimento chassidico alla figura semileggendaria di R. Israel ben Eli’ezer Ba’al Shem Tov (acronimo: Be.sh.t., 1700-1760 ca.). Narrare la sua vicenda biografica è tutt’altro che semplice, dal momento che non è sempre agevole distiguere, nelle fonti che lo riguardano, fra la realtà e le numerose leggende (raccolte nei Shivchè ha-Be.sh.t, “lodi del Be.sh.t”) con cui i suoi discendenti e discepoli hanno alimentato la sua personalità carismatica. Nato in Podolia da genitori anziani e poveri e rimasto presto orfano, inizialmente si guadagnò da vivere come insegnante elementare nel cheder. A quattordici anni incontrò il figlio di un certo R. Adam, che lo iniziò allo studio della Qabbalah. Sull’identità di questo personaggio ci sono svariate ipotesi: secondo alcuni si trattava di un cripto-sabbatiano. A vent’anni Israel si spostò nella città di Brody il cui Rabbino Abraham Kitower, attratto dalla sua emergente personalità, gli diede in sposa sua figlia. Inizialmente il matrimonio fu osteggiato dall’altro figlio di R. Kitower, Ghereshon, preoccupato dalle oscure origini del cognato: ma successivamente proprio Ghershon sarebbe diventato uno dei suoi principali sostenitori.
Ritiratosi sui Carpazi, visse sette anni scavando l’argilla che la moglie rivendeva in città. Il giorno del suo 36° compleanno gli venne rivelato dal cielo che era giunto per lui il momento di rivelarsi al mondo. Egli cominciò a girare per la Podolia operando guarigioni ed esorcisimi come erano soliti fare i Ba’alè Shem (lett. “detentori del Nome Divino”) del tempo, facendo uso di cognizioni di Qabbalah pratica ma soprattutto, nel suo caso, della preghiera. Si stabilì a Mesebitz, dove in pochi anni radunò intorno a sè un gran numero di discepoli, che formarono il centro del chassidismo nascente.
Il primo elemento che distinse subito il Chassidismo rispetto ad altri movimenti mistici fu il suo carattere “di massa” e non limitato a pochi iniziati. Peraltro, il Chassidismo non elaborò una forma di pensiero né un linguaggio originale. Esso si basava sull’interpretazione della Qabbalah che ne aveva dato R. I. Luria e in particolare sulla teoria dello tzimtzum (lett. “contrazione”) e della shevirat kelim (lett. “rottura dei recipienti”). La Divinità o Eyn Sof (lett. “infinito”) si sarebbe “contratto” per lasciare spazio al mondo creato. A sua volta la creazione sarebbe avvenuta per stadi, il primo dei quali coincise con la emanazione da parte della Divinità stessa di dieci canali di luce, le Sefirot. Ma i “recipienti” destinati a contenerle non avrebbero retto la forza della luce e si sarebbero rotti, provocando una dispersione della luce Divina nel mondo. Da allora male e bene sono mescolati. Compito degli Ebrei è andare alla ricerca di queste nitzotzot (lett. “scintille”) di luce e separarle dalle qelippot (lett. “bucce”) distillando il bene in modo che il male non abbia più ragion d’essere. La novità del pensiero chassidico consiste nell’aver introdotto in tutto ciò il concetto di elevazione. Il male va sublimato ed elevato, piuttosto che separato. In che modo?
Sebbene non sia vero che lo studio della Torah fosse negletto dai Chassidim ed essi insistessero sul fatto che l’Ebreo deve adempiere i precetti della Torah, la preghiera assume in questa dottrina certamente un’importanza preponderante. Ma lungi dall’essere un’esperienza di raccoglimento, si trattò invece di “movimento”. I Chassidim delle origini si distinguevano per il modo talvolta scomposto con cui pregavano, suscitando non di rado l’opposizione dei tradizionalisti. Anche la danza poteva essere per i Chassidim uno strumento di elevazione. La preghiera perseguita mediante la giusta kawwanah (lett. “intenzione, concentrazione”) “permette di raggiungere quell’annullamento del proprio essere che è condizione indispensabile per poter vedere Dio oltre il velo delle realtà create”. Servire D. con sentimenti di gioia (hitlahavùt) è un’altra caratteristica del Chassidismo (e dell’Ebraismo) rispetto ad altri movimenti mistici. R. Israel ammonisce i suoi discepoli ad evitare “i troppi digiuni, che contribuiscono alla melancolia e alla tristezza”. Lo scopo di tutto è raggiungere la deveqùt, la “adesione” al Divino. L’uomo deve perseguire questa finalità in ogni esperienza della vita e non solo mentre è intento ad eseguire un precetto, perché “allorché la persona tratta delle sue necessità materiali e il suo pensiero aderisce al Divino, sarà benedetta”.
L’altro elemento che distingue il Chassidismo dalla Qabbalah luriana è la dottrina dello Tzaddiq (lett. “giusto”). Ci sono personalità le cui caratteristiche spirituali si distinguono da quelle degli uomini comuni. Gli Tzaddiqim hanno un livello superiore di deveqùt che consente loro di elevare fino a Dio le preghiere e le intenzioni dei loro discepoli, promuovendone la Teshuvah (lett. “ritorno a D.”). Ma per far ciò lo Tzaddiq deve in prima persona confrontarsi con il male, sprofondare in esso (mediante il solo pensiero!) per realizzare completamente il tiqqùn (lett. “riparazione”). Qui c’è la differenza rispetto al sabbatianesimo, in cui l’atto di abiura del cosiddetto Messia era stato percepito come necessario al processo di redenzione. Nel Chassidismo, viceversa, il processo di discesa non implica alcun distacco dalla sorgente Divina: al contrario, se lo Tzaddiq vuole risollevarsi dal profondo e risollevare i trasgressori con sè, deve saper preservare costantemente la propria deveqùt. Allorché uno si allontana da Dio, l’amore di un altro uomo verso di lui è la sua salvezza. Un giorno un padre si lamentava in presenza del Ba’al Shem Tov: “Mio figlio si è sviato da Dio; cosa debbo fare?” Gli rispose. “Amarlo di più!”
Già pubblicato dal Bollettino della Comunità Ebraica di Milano