Daniele Ascani
Università di Pisa – Dipartimento di Civiltà e Forme del Sapere – Corso di Laurea Magistrale in Filosofia e Forme del Sapere – Relatore Prof. Adriano Fabris – Anno Accademico 2016-2017
- Capitolo 1 – Emmanuel Levinas: «la vita e la traccia»
- Capitolo 2 – La «ricerca» di Dio nel pensiero di Levinas
- Capitolo 3 – La «rivelazione» di Dio negli scritti ebraici di Levinas
- Conclusioni – Bibliografia
Non vorrei definire niente attraverso Dio poiché è l’uomo che conosco. È Dio che io posso definire attraverso le relazioni umane e non l’inverso. La nozione di Dio: Dio lo sa, non sono contrario ad essa! Ma, quando devo dire qualcosa di Dio, è sempre a partire dalle relazioni umane. L’astrazione inammissibile è Dio; è in termini di relazione con Altri che parlerò di Dio.
(E.Levinas, Trascendenza e altezza)
Introduzione
Nella biografia intellettuale di Emmanuel Levinas, l’allievo e giornalista Salomon Malka riporta un curioso aneddoto sulla vita del filosofo francese. Durante uno dei loro colloqui, l’argomento era caduto precisamente sui nomi di Dio nella tradizione ebraica. Lo stesso Levinas – scrive Malka – aveva tenuto una conferenza su questo tema, spiegando in modo dettagliato ognuno dei nomi (ad esempio Elohim, El Shaddai..) e attribuendo a ciascuno un significato particolare. Eppure, a questa collezione mancava ancora un appellativo di cui lo stesso Malka lo aveva informato, ricordando una vecchia lezione del padre: questo nome era Kavyakol, che letteralmente significa «secondo tutte le proporzioni», o meglio «per così dire».
«Per così dire. Come detto altrimenti. O altrimenti che essere. L’espressione gli era piaciuta» – racconta ancora Malka – «Aveva ripetuto Kavyakol, Kavyakol, come un dolce che si scioglie in bocca»[1]. Il lavoro che presenteremo in queste pagine prende le mosse dalla convinzione che la questione del divino e della trascendenza teologica svolga un ruolo primario nell’orizzonte di pensiero di Levinas. Essa consente propriamente di «dare un sapore» e offrire un orizzonte di comprensione ampio su molti aspetti della riflessione del filosofo francese. Senza la pretesa di esaustività, cercheremo quindi di ripercorrere le «tracce» di una Presenza negli scritti del pensatore francese, al di fuori di ogni ambito teologico o di qualsiasi adesione religiosa, ma tentando di «tradurre in greco la sapienza ebraica» – per dirla con le parole del nostro filosofo.
Nel primo capitolo, presenteremo in sintesi le grandi prospettive di pensiero che caratterizzano la filosofia di Levinas: gli esordi giovanili, l’incontro con la fenomenologia di Husserl e Heidegger, fino alle opere più mature che lo hanno reso celebre (da Totalità e Infinito ad Altrimenti che essere). Indagheremo i concetti di «infinito», «volto», «soggettività» e «responsabilità», veri capisaldi dell’orizzonte intellettuale levinasiano.
A partire dal secondo capitolo affronteremo da vicino il tema di nostro interesse, dedicando l’attenzione ai testi strettamente filosofici del nostro autore per scoprire in che modo «Dio viene all’idea». Quest’analisi porterà alla luce le nozioni di «traccia», «gloria della testimonianza» e «illeità», ma anche la questione della pensabilità di Dio «aldilà dell’essere» e fuori da ogni ontologia. Un linguaggio nuovo e a tratti «misterioso» che Levinas si impegna a costruire nel tentativo di indicare quel Dire nascosto dietro il Detto.
Il terzo capitolo svilupperà il problema del divino a partire dagli scritti «confessionali», ossia quelli dedicati all’ebraismo e alle letture talmudiche. Ci soffermeremo innanzitutto sulle radici ebraiche di Levinas, definendo la vocazione autentica di quel «pensiero d’Israele» che il nostro filosofo si propone di mettere in luce, sulla scia di grandi intellettuali del XX secolo (tra cui Buber e Rosenzweig) e della tradizione rabbinica. Cercheremo poi di avvicinare il lettore al «mondo del Talmud» attraverso gli occhi dello stesso Levinas, ed in particolare mediante quel particolare metodo esegetico da lui sviluppato, per far emergere quale sia il «volto» di Dio contenuto nella Scrittura.
Infine, nella ultime pagine del presente lavoro tenteremo di «verificare» se davvero quel tentativo di «traduzione» abbia avuto un esito positivo, individuando eventuali analogie e/o differenze tra il «Dio filosofico» e quello della rivelazione ebraica, così come emersi dall’interpretazione levinasiana.
Capitolo 1 – Emmanuel Levinas: «la vita e la traccia»
1.1 Dalla fenomenologia all’evasione dall’essere
1.1.1. Gli scritti giovanili: l’interpretazione di Husserl e Heidegger
Levinas nasce in Lituania il 12 gennaio 1906, nella cittadina di Kaunas, contesa al tempo tra Germania, Polonia e Russia. Abitata prevalentemente da ebrei, Kaunas ben rappresenta quel “crogiuolo” di culture in cui si mescolano varie correnti del pensiero giudaico moderno: dai fedeli ortodossi di area askenazita, fino ai seguaci della haskalah; ma non mancano contrasti anche tra hassidim e mitnaggedim. Un vivace pluralismo religioso motivato da una lunga tradizione storico-culturale: la Lituania ospitava, almeno fino alla prima guerra mondiale, la più grande comunità ebraica esistente.
La famiglia d’origine di Levinas appartiene anch’essa alla piccola borghesia ebraica. Il padre è un commerciante e lavora in una cartoleria del centro cittadino. Fin da piccolo, Levinas viene educato ad un ebraismo sobrio, profondamente radicato nello studio del Talmud e della tradizione rabbinica, senza subire gli eccessi del ritualismo o dell’assimilazione alla cultura circostante. Lo stesso pensatore francese avrà occasione di confermare più volte questa particolare modalità di intendere l’ebraismo. Ne troviamo traccia, ad esempio, nella raccolta di saggi Difficile Liberté, pubblicato nel 1976:
La visione ebraica del mondo si esprime nella Bibbia riflessa dalla letteratura rabbinica, di cui il Talmud e i suoi commentari costituiscono la parte principale […]. Indipendentemente dalle procedure esegetiche utilizzate dal Talmud, il senso dell’Antico Testamento si rivela agli ebrei attraverso la tradizione talmudica[2].
La religiosità ebraica rappresenta indubbiamente la prima fonte d’ispirazione del pensiero di Levinas ed essa sarà continuamente approfondita e ripresa durante l’intero percorso filosofico.
Emigrato a Kharkov, in Ucraina, a seguito dello scoppio della prima guerra mondiale, nel 1916 Levinas ha la possibilità di frequentare le lezioni del ginnasio-liceo statale. Qui entra in contatto con la cultura russa, in particolare con i grandi classici della letteratura (Dostoevskij, Tolstoj, Turgenev), ma si appassiona anche al mondo occidentale (Shakespeare e Goethe). Al termine degli studi superiori, conclusi in un liceo ebraico della città natale, Levinas cerca di iscriversi ad un’università tedesca, ma è costretto a ripiegare in Francia, dove rimarrà definitivamente, scegliendo addirittura la lingua francese per la sua produzione letteraria. A Strasburgo, iscrittosi ai corsi di filosofia, Levinas incontra docenti affermati[3] che lo iniziano al pensiero dei filosofi classici: Platone, Aristotele, Cartesio, Kant. Un notevole interesse è rivolto anche a Durkheim e Bergson, particolarmente vivi nell’insegnamento universitario dell’epoca: autori che per primi indirizzeranno Levinas verso il «pensiero dell’alterità». Ma la svolta decisiva per il suo percorso intellettuale avviene nell’anno accademico 1928-1929, quando Levinas decide di trasferirsi a Friburgo, in Brisgovia, dove insegnava Edmund Husserl. Il primo contatto con la fenomenologia era avvenuto per puro caso, attraverso la lettura delle Ricerche logiche, Suggerita dalla giovane collega Gabrielle Peiffer[4]. A Friburgo, Levinas segue gli ultimi due semestri dell’insegnamento husserliano: quello estivo del 1928, dedicato alla psicologia fenomenologica, e quello invernale, in cui viene approfondito il tema della costituzione dell’intersoggettività. L’incontro con il padre della fenomenologia, che Levinas ha modo di frequentare anche in privato, rappresenta una tappa fondamentale per la sua vocazione filosofica. Così ne parla il pensatore francese nel libro-intervista con Philippe Nemo:
È con Husserl che io scoprii il senso concreto delle possibilità stesse di «lavorare in filosofia», senza trovarsi sin dall’inizio rinchiuso in un sistema di dogmi e nello stesso tempo senza correre il rischio di procedere per intuizioni caotiche[5].
L’anno accademico vissuto da Levinas a Friburgo è in realtà un «passaggio di consegne» dal punto di vista filosofico. Husserl è in pensione, pur insegnando ancora, e la vera «novità» è rappresentata dal pensiero di Martin Heidegger, che proprio in quel semestre invernale ha iniziato la carriera a Friburgo.
Anche per Levinas, dunque, le prospettive aperte dall’analisi heideggeriana esercitano un’influenza crescente e appaiono come un prolungamento «fecondo» della fenomenologia. In particolare, la scoperta di Essere e tempo, pubblicato nel 1927, incide profondamente nell’interpretazione fenomenologica del giovane Levinas. Lui stesso ricorda l’importanza di quest’opera per la sua formazione intellettuale:
Ben presto ho provato una grande ammirazione per questo libro, uno dei più belli della storia della filosofia – lo affermo dopo molti anni di riflessione. (…)
La mia ammirazione per Heidegger coincide soprattutto con l’ammirazione per Essere e tempo[6].
Il periodo friburghese si rivela particolarmente decisivo per le sorti del pensiero di Levinas. L’incontro con Husserl consente di delineare innanzitutto un «metodo» filosofico (quello fenomenologico) che rimarrà il nucleo essenziale delle sue ricerche, pur interpretato in maniera differente da quella originaria. Da Heidegger, invece, il filosofo francese eredita l’importanza del tema ontologico, come fanno intendere ancora le affermazioni rilasciate durante il colloquio con Philippe Nemo:
Con Heidegger è stata risvegliata la «verbalità» nella parola essere, ciò che in essa è evento, l’«accadere» dell’essere (…). Heidegger ci ha abituati proprio a questa sonorità verbale[7].
Il pensiero di Levinas si costruisce, dunque, al crocevia tra la fenomenologia husserliana e l’ontologia di Heidegger. Un aspetto che troviamo fin dalla prima opera giovanile, La théorie de l’intuition dans la phénoménologie de Husserl – tesi di dottorato pubblicata nel 1930 – e soprattutto nella raccolta di saggi dal titolo En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, del 1949. Non possiamo prescindere allora da una breve analisi delle ricerche fenomenologiche del giovane Levinas, utile per comprendere gli sviluppi successivi del suo lavoro.
La prima interpretazione di Husserl già risente del problema ontologico inaugurato pochi anni prima da Heidegger. L’obiettivo dichiarato è, infatti, quello di «mostrare come l’intuizione che egli propone come modo di filosofare derivi dalla sua concezione dell’essere»[8]. La filosofia husserliana si radica oltre il semplice punto di vista epistemologico e presuppone una particolare teoria dell’essere in aperto contrasto con quella presentata dallo psicologismo, bersaglio polemico fin dalle prime battute dell’opera[9]. Per supportare questa tesi, Levinas si sofferma innanzitutto sul concetto di intenzionalità della coscienza, che racchiude l’originalità della posizione husserliana. Trasformando la nozione di soggettività, Husserl ha posto «nel cuore stesso della coscienza il contatto con il mondo»[10]. La vita cosciente ha uno specifico modo di essere che è quello dell’intenzionalità, intesa come «vero atto di trascendenza»[11], o ancora «prototipo stesso di ogni trascendenza»[12]. La coscienza, in definitiva, sarebbe sempre rivolta verso l’altro-da-sé.
Tuttavia, il senso ultimo dell’essere è chiaramente svelato dall’analisi della teoria dell’intuizione elaborata dal filosofo tedesco. Per «intuizione» dobbiamo intendere – riprendendo le parole di Giovanni Ferretti – quella «piena coincidenza tra l’inteso e il dato, che si ha quando l’intenzione di un significato trova perfetto compimento o ‘riempimento’»[13]. Precisamente questa coincidenza costituisce, per Levinas, «l’ “evidenza” dell’essere, come presenza della coscienza all’essere»[14]. L’ontologia husserliana è dunque caratterizzata «dalla “visione”, ovvero dalla trasparenza della coscienza all’essere e dell’essere alla coscienza»[15].
Questa concezione rimarrà centrale nel pensiero di Levinas e sarà il punto di partenza per la successiva interpretazione dell’ontologia, in particolare per l’esigenza di un suo superamento. In quest’opera, tuttavia, prevalgono ancora i punti rilevanti e fecondi del pensiero husserliano, colti da Levinas da un lato nel metodo fenomenologico, che è «riflessione radicale, centrata su di sé, un cogito che si cerca e si descrive senza farsi ingannare da nessuna forma di spontaneità (…), richiamo delle intenzioni offuscate del pensiero»[16], dall’altro nel concetto di essere come «vissuto intenzionale».
In realtà, Levinas evidenzia già alcuni elementi critici nella ricerca del maestro, ossia il primato della coscienza teoretica e la mancanza di un collegamento tra la riflessione sulla vita e la vita stessa, di una «storicità e temporalità» che costituiscono l’essenza umana. Così commenta, in proposito, il filosofo francese nelle pagine conclusive dell’opera:
La rappresentazione ammessa come base di tutti gli atti della coscienza, ecco ciò che compromette la storicità della coscienza e conferisce, di conseguenza, un carattere intellettualistico all’intuizione[17].
Si tratta di una quaestio che troverà la sua prima risposta nell’interpretazione del pensiero di Heidegger, condotta nella raccolta di saggi pubblicata nel 1949, ed in particolare negli scritti Martin Heidegger et l’ontologie, L’ontologie dans le temporel e De la déscription à l’existence[18].
Ciò che emerge a partire da queste analisi è una tensione costante tra l’ammirazione per la «concretizzazione» della coscienza intenzionale (passaggio che mancava in Husserl), operata da Heidegger in Sein und Zeit, e una critica per l’esito immanentistico e nichilistico cui tale riflessione conduce. L’aspetto innovativo della concezione heideggeriana consiste nell’aver concepito l’esistenza umana come luogo in cui l’essere si rivela. La concretezza dell’esistere è precisamente svelamento ed evento dell’essere, poiché l’uomo è quell’ente che comprende l’essere (Dasein, «essere-qui», Esserci)[19]. Da qui deriva che lo studio della comprensione dell’essere è già uno studio del modo d’essere dell’uomo, della sua esistenza: in una parola, è «ontologia» (Heidegger chiama questo studio «Analitica del Dasein»). Se, dunque, da un lato, il concetto di Dasein consente di pensare fino in fondo l’idea di intenzionalità e ribaltare quel primato attribuito da Husserl alla conoscenza teoretico-rappresentativa; d’altra parte, proprio a causa della sua particolare struttura (quella di «essere-nel-mondo»), esso rivela una natura autoreferenziale e totalizzante. Così troviamo scritto in uno dei passaggi dell’opera:
L’esistenza del Dasein consiste nell’esistere in vista di se stesso. (…) Il Mondo non è nient’altro che questo “in vista di se stesso” in cui il Dasein è impegnato nella sua esistenza e rispetto a cui può compiersi l’incontro dell’utilizzabile[20].
Il Dasein è in definitiva «com-prensione» delle proprie possibilità e in quanto tale compie la propria esistenza nel mondo. L’analisi puntuale di quella terminologia chiave che definisce la struttura del Dasein (situazione emotiva, angoscia, derelizione, progetto, cura) conduce Levinas a trarre fino in fondo le conseguenze di una simile impostazione e a mettere in luce gli esiti «drammatici» della filosofia di Heidegger. Per il filosofo tedesco, infatti, esiste un’equivalenza tra comprensione dell’essere, cura di sé ed «essere-per-la-morte». La morte, anticipata quale possibilità più autentica, diviene l’unica capacità per il Dasein di comprendersi a partire da se stesso: l’uomo si riscopre solo, immerso dentro un’esistenza che è temporalità e finitezza. Levinas osserva in proposito:
Nella temporalità originaria, o nell’essere-per-la-morte, condizione di ogni essere, [la persona] scopre il nulla su cui poggia, il che significa anche che essa non poggia su nient’altro che su se stessa[21].
Pur riconoscendo i meriti dell’impostazione fenomenologica, Levinas ritiene che si debba superare innanzitutto l’«ontologia idealistica» di Husserl che afferma il primato assoluto della coscienza; parimenti, l’esito nichilistico della filosofia di Heidegger non può rappresentare la mèta finale nella storia del pensiero. La strada per questo «esodo» viene già indicata nella parte finale del saggio De la description à l’existence: è necessario andare oltre l’«ontologismo», ovvero quel modo di intendere i rapporti costitutivi dell’uomo in termini di comprensione e potere, tipico di tutto il pensiero occidentale[22], liberando il soggetto dalla solitudine e aprendolo alla trascendenza dell’altro/di Dio.
1.1.2 Al di là dell’essere
L’esigenza di una uscita dall’orizzonte ontologico che caratterizza la filosofia dell’esistenza, ed in generale tutta la tradizione occidentale, porta Levinas a sviluppare la propria filosofia in un senso ben preciso negli scritti successivi. In realtà, il tema di una «evasione» dall’essere era già stato affrontato dal filosofo francese alcuni anni prima, precisamente nel 1935, con la pubblicazione di un articolo intitolato per l’appunto De l’evasion[23]. Individuando nel fondo del nostro essere un «peso morto» costitutivo, Levinas annunciava il bisogno di «spezzare l’incatenamento più radicale, più irremissibile, il fatto che l’io è se stesso»[24] e superare la filosofia dell’essere percorrendo una nuova via.
Ma soltanto dopo le tragiche vicende del secondo conflitto mondiale – trascorso da Levinas in un campo per prigionieri a Magdeburg – il tema dell’evasione acquista un rilievo del tutto particolare. L’opera De l’Existence à l’Existant[25], pubblicata nel 1947, rappresenta un primo tentativo sistematico di esplorare orizzonti inediti rispetto a quelli della filosofia occidentale. L’ «uscita» dal piano ontologico viene presentata come un passaggio dall’esistenza anonima (Levinas utilizza il termine neutro il y a, pronome di terza persona nella forma impersonale del verbo essere) all’esistente come sostantivo, come “io” in grado di porsi, nel presente, in relazione con l’essere e costituire un proprio mondo. La «differenza ontologica» proposta da Levinas è dunque quella tra esistenza anonima, impersonale, che abbraccia la stessa distinzione tra essere e nulla, e l’esistente, ipostasi, vera e propria apparizione di una identità. In uno dei passaggi dell’opera, Levinas commenta:
Attraverso l’ipostasi, l’essere anonimo perde il suo carattere di il y a. L’essente – ciò che è – è il soggetto del verbo essere e, di conseguenza, esercita una padronanza sulla fatalità dell’essere che è divenuto il suo attributo[26].
Levinas giunge a queste conclusioni attraverso un’indagine fenomenologica di alcune nozioni chiave della filosofia (coscienza, io, posizione, presente) ma anche grazie alla presentazione di situazioni concrete dell’esistenza umana (la fatica, la stanchezza, la pigrizia, l’insonnia, l’orrore, la notte).
Centrale, a questo proposito, risulta l’analisi del concetto di «mondo», poiché esso offre all’esistente la possibilità di «staccarsi dalle ultime implicazioni dell’istinto d’esistere»[27]. Vivere nel mondo non rappresenta una «caduta» – come avrebbe evidenziato Heidegger – ma piuttosto significa vivere autenticamente e sottrarsi all’anonimato dell’esistenza. Mangiare, bere, respirare sono atti riconducibili alla struttura propria dell’ «essere nel mondo», che è data dalla relazione tra desiderio e soddisfacimento[28]. L’io vive il mondo e quest’ultimo è «vissuto» nel godimento.
Tuttavia, questa presenza dell’io nel mondo si attua anche mediante una lontananza, caratteristica tipica dell’intenzionalità conoscitiva. L’io prende le distanze dalla realtà nel momento in cui se ne appropria conoscendola. Queste le parole di Levinas:
Proprio mentre tende verso le cose, l’io nel mondo si ritira da esse. È l’interiorità; l’io nel mondo ha un dentro e un fuori[29].
La parte conclusiva dell’opera pone nuovi interrogativi all’indagine filosofica, sviluppando il tema della «solitudine» che caratterizza l’esistente. Esso, infatti, pur staccandosi dall’il y a anonimo, rimane ancorato allo specchio del proprio sé, schiavo di una libertà che «non libera dal carattere definitivo dell’esistenza»[30].
Le Temps et l’Autre, che raccoglie quattro conferenze tenute al «Collège Philosophique» di Parigi negli anni 1946-1947[31], risponde esattamente all’esigenza di trovare una «via di fuga» dalla solitudine dell’io.
L’esistenza nel mondo, visto come oggetto di «godimento» e di conoscenza, non è in grado di sradicare l’esistente dall’essere anonimo, poiché essa consiste comunque nel ricondurre l’altro a sé e al proprio orizzonte di riferimento. «Inglobando il tutto nella sua universalità, la ragione si ritrova a sua volta nella solitudine»[32]: queste parole chiariscono ancora una volta la posizione solipsistica della coscienza.
Parlare di solitudine dell’io significa anche riferirsi a quella «assenza di tempo» che lo caratterizza. Levinas, infatti, aveva definito in precedenza l’ipostasi come un evento che accade nel «presente», senza alcun legame con il passato ed il futuro[33]. In che modo, allora, l’io può uscire da se stesso?
Levinas scopre nella relazione con altri l’unica modalità per l’esistente di «evadere» dall’incatenamento dell’essere e individua nel tempo, inteso come trascendenza verso il futuro, quello «strumento» che ci apre alla socialità.
Descrivendo fenomenologicamente alcune situazioni concrete in cui è possibile intravedere un’alterità irriducibile all’io, il filosofo francese trova una via per liberare finalmente l’esistente dal suo isolamento.
In primis, la morte viene concepita da Levinas come un evento «assolutamente altro»[34], di fronte al quale il soggetto non ha potere. La morte è relazione con l’avvenire, con un «mistero» che non può mai essere assunto[35], e per questo essa è in grado di «spezzare» la solitudine dell’esistente, introducendo una «pluralità» nell’esistenza. Il plurale fa parte dell’essenza stessa del soggetto: egli dà sempre è in relazione con l’altro.
Tuttavia, in questa descrizione della morte, Levinas intravede il rischio di un paradosso inevitabile, quello che nasce dal problema della «conservazione dell’io nella trascendenza»[36]: come può il soggetto entrare in contatto con ciò che è assolutamente altro senza perdere la propria identità?
Per sanare questa contraddizione dialettica, viene qui introdotta la categoria di «relazione con altri»[37]:
Questa situazione in cui l’evento accade ad un soggetto che non l’assume […] ma in cui esso gli è in un certo modo di fronte […] è il faccia a faccia con altri, l’incontro con un volto (visage), che nello stesso tempo, dà e sottrae altri (autrui)[38].
A questo punto, Levinas rintraccia nel legame erotico-amoroso e nella fecondità la manifestazione concreta«di questa relazione straordinaria in cui l’io può aprirsi all’alterità più radicale dell’altro pur rimanendo se stesso»[39].
L’eros, da un lato, è l’emblema di un rapporto in cui «la differenza dei sessi non è la dualità di due termini complementari», bensì gli essenti si mantengono in relazione nonostante la separazione. Levinas chiama «femminile» l’altro della relazione, e lo definisce come «il per sé altro, l’origine del concetto stesso di alterità»[40], inconoscibile e misterioso.
Con la nozione di fecondità si comprende ancora meglio il significato di quell’«esistere pluralista» che Levinas vuole mettere in luce:
La paternità non è semplicemente un rinnovamento del padre nel figlio e la sua fusione con lui, essa è anche l’esteriorità del padre in rapporto al figlio, un modo di esistere pluralistico[41].
I risultati «filosofici» raggiunti fin qui da Levinas saranno ampiamente ripresi e sviluppati nelle opere successive, a partire da Totalità e Infinito, e costituiranno l’ossatura del suo pensiero. L’obiettivo dichiarato sarà proprio quello di mettere in discussione l’intero impianto della ontologia occidentale, incapace di salvaguardare l’identità del soggetto e la sua autentica trascendenza verso l’altro.
1.2 Totalità e Infinito: l’alterità del volto
«Questo libro presenterà la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità. In essa si consuma l’idea dell’infinito»[42]. Esattamente con queste parole, che potrebbero apparire «enigmatiche» ad una prima lettura, Levinas esprime la tesi principale di una delle sue opere filosofiche più celebri, pubblicata nel 1961: Totalità e Infinito.
Si tratta di un lavoro in cui confluiscono quelle riflessioni maturate durante gli anni giovanili, qui raccolte e «sistematizzate» per la prima volta. Al contempo, questo saggio rappresenta una «fabbrica» di nuovi interrogativi che saranno sviluppati nelle ricerche successive. Procederemo, dunque, con una breve trattazione di quelle tematiche che compongono l’intero «mosaico», a partire dai termini-chiave che troviamo nel titolo dell’opera.
1.2.1 La critica alla metafisica occidentale
Il concetto di «totalità», utilizzato da Levinas fin dalle prime battute, richiama direttamente quella particolare impostazione filosofica tipica del pensiero occidentale. Il filosofo francese, in sostanza, interpreta buona parte della storia della filosofia come un «tentativo di sintesi universale»[43], «riduzione di ogni esperienza, di tutto ciò che è sensato, a una totalità in cui la coscienza racchiude il mondo, non lasciando nulla al di fuori di sé»[44]. Si tratta di quel cammino della filosofia che passa «dalla Ionia alla Jena», culminante con la metafisica heideggeriana, e di cui Levinas rileva chiaramente il «segno distintivo»:
La filosofia occidentale è stata per lo più un’ontologia: una riduzione dell’Altro al Medesimo, in forza dell’interpretazione di un termine medio e neutro che garantisce l’intelligenza dell’essere[45].
Totalizzazione, sintesi, oggettivazione: conoscere «ontologicamente» comporta sempre un possesso, una tematizzazione dell’Altro che finisce per confluire nelle trame della coscienza. La realtà e l’essere vengono assorbiti nella luce della conoscenza, diventano oggetti «spogliati» della propria alterità. Levinas sottolinea con forza questa caratteristica fondamentale:
La neutralizzazione dell’Altro, che diventa tema od oggetto – che appare, cioè, che si pone in trasparenza – è appunto la sua riduzione al Medesimo [..] Conoscere equivale a impossessarsi dell’essere a partire da niente o a ridurlo a niente[46].
In questo senso è lecito affermare che «la filosofia è un’egologia»[47], poiché essa si fonda sul primato dell’io: conoscere significa semplicemente «dispiegare» l’identità stessa della ragione, manifestazione della libertà illimitata di un essere conoscente «che non incontra niente che, altro rispetto ad esso, possa limitarlo»[48].
Questa impostazione ha precise conseguenze non solo sul piano ontologico-gnoseologico, ma anche a livello storico-politico. La coscienza onnicomprensiva, infatti, può finire per esercitare un potere «violento» e correre il rischio di elevarsi a giudice inappellabile sulla storia, giustificando ogni sorta di regime totalitario. Una situazione ben presente nella mente e nel «cuore» di Levinas che ha vissuto in prima persona le barbarie della seconda guerra mondiale e che, soprattutto, non ha mai dimenticato il «tradimento» del maestro Martin Heidegger e la sua adesione al nazionalsocialismo[49].
Comprendiamo, dunque, più facilmente alcune espressioni particolarmente «severe» che ritroviamo in quest’opera contro l’ontologia heideggeriana ed in generale contro la metafisica occidentale:
L’ontologia come filosofia prima è una filosofia della potenza[50].
Filosofia del potere, l’ontologia, come filosofia prima che non mette in questione il Medesimo, è una filosofia dell’ingiustizia[51].
Non è un caso se la prefazione di Totalità e Infinito si apre esattamente con il tema della guerra, un evento drammatico che «non manifesta l’esteriorità e l’altro come altro»[52], ma addirittura finisce per distruggere «l’identità dello Stesso»[53]. Levinas conclude il suo ragionamento con una affermazione perentoria:
Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale[54].
Ancora una volta, così come era avvenuto nella riflessione giovanile, s’impone l’esigenza di trovare una valida via d’uscita dalla «prigione ontologica», di scoprire un al di là che possa «presentare la soggettività come ciò che accoglie Altri, come ospitalità»[55].
1.2.2 La rottura della totalità
Fin dalla prefazione, Levinas fornisce al lettore la «soluzione» che si prospetta nel seguito dell’opera. Il filosofo francese, infatti, intende collocarsi all’interno di una linea di pensiero parallela a quella dell’ontologia occidentale. Come osserva acutamente Giovanni Ferretti – si tratta di quella «tradizione filosofica della “trascendenza”, significativamente presente nel cuore stesso del pensiero moderno, ovvero nel cogito, tramite la concezione cartesiana dell’idea dell’infinito»[56]. Una tradizione inaugurata da Platone che pone il Bene oltre la dimensione dell’essere, «la trascendenza come ciò che va al di là della totalità»[57].
Levinas, in sostanza, mira a fondare su basi diverse il concetto di soggettività, evitando da un lato la «soggettività del soggetto conoscente»[58], che pretende di inglobare e racchiudere l’essere, e dall’altro quella del «soggetto impulsivo irrazionale»[59]. L’idea di infinito è dunque il primo strumento che inaugura un nuovo tipo di rapporto tra soggetto e oggetto, o per meglio dire, usando le parole di Levinas, tra l’io – chiamato il «Medesimo» (Même) poiché esso rimane sempre ancorato alla propria identità nonostante il mutare nel tempo -, e l’«Altro» (Autre), ovvero l’esteriorità radicale che non si piega alla potenza del Medesimo. Ecco alcune affermazioni in proposito che chiariscono ancora una volta il percorso intrapreso:
La nozione cartesiana dell’idea dell’Infinito designa una relazione con un essere che mantiene la sua esteriorità totale rispetto a chi lo pensa[60].
Questa relazione del Medesimo con l’Altro […] è fissata, di fatto, nella situazione descritta da Cartesio nella quale l’«io penso» ha con l’Infinito, che non può affatto contenere e dal quale è separato, una relazione detta «idea dell’infinito»[61].
Levinas è affascinato dalla struttura paradossale dell’idea di infinito, così come analizzata da Cartesio nella terza delle Meditazioni metafisiche, poiché si tratta di un’idea «in-adeguata» per eccellenza, il cui contenuto eccede il contenente. Pensare l’infinito significa rifiutare quella coincidenza tra realtà «oggettiva» e realtà «formale» che caratterizza lo sguardo intelligibile, significa escludere qualsiasi possesso dell’oggetto. Anzi, il pensiero dell’infinito non equivale alla «visione» di una «cosa» o alla rappresentazione di una forma, ma è diametralmente opposto alla pretesa oggettivante tipica della filosofia occidentale: l’infinito è accesso alla trascendenza, all’alterità vera e propria.
«L’ “intenzionalità” della trascendenza – precisa ancora Levinas – è unica nel suo genere»[62], poiché «l’infinito è il carattere proprio di un essere trascendente in quanto trascendente, l’infinito è l’assolutamente altro»[63].
Su queste basi, come vedremo, il pensatore francese parla di «relazione etico-metafisica» per indicare quel particolare legame che si costituisce tra il Medesimo e l’Altro, in cui viene salvaguardata l’alterità assoluta.
Per dare forma «concreta» alla riflessione, in accordo con il metodo fenomenologico, e individuare un’esperienza vissuta in cui la struttura formale dell’idea di Infinito prende «corpo», Levinas specifica che essa «si produce come Desiderio»[64]. Si tratta, tuttavia, di un desiderio completamente disinteressato, che non è appagato dal possesso, e più precisamente «Desiderio dell’Infinito che è suscitato dal Desiderabile invece di esserne soddisfatto»[65].
Distinto nettamente dal «bisogno» – inteso al contrario come un vuoto che può essere «riempito»[66]– il desiderio in questione tende ad un «Altro assolutamente Altro», che viene indicato da Levinas con il termine «Altri» (Autrui), per sottolineare quel carattere di «alterità anteriore ad ogni iniziativa, ad ogni imperialismo del Medesimo»[67].
Il Desiderio di «Altri», dunque, si presenta come un vero e proprio desiderio metafisico, «in quanto come tale esso apre alla dimensione della “trascendenza”, all’alterità che in nessun modo può essere riportata alla totalità del mio io o del mio mondo»[68].
In sintesi, la particolare struttura dell’idea di infinito, ripresa e sviluppata a partire da Cartesio, si concretizza nel soggetto come Desiderio e apre così ad una «relazione metafisica» tra Medesimo e Altro.
Nell’approfondire i tratti specifici di questo legame, Levinas insiste in particolare sul concetto di «separatezza» che deve caratterizzare i due termini coinvolti.
Il Medesimo e l’Altro sono tra di loro in rapporto e, nello stesso tempo, si assolvono da questo rapporto, restando assolutamente separati. L’idea dell’Infinito richiede questa separazione[69].
La relazione non lega dei termini che si completano e che, quindi, mancano l’uno l’altro, ma dei termini che bastano a se stessi[70].
Questa esistenza positivamente «separata» e indipendente è un presupposto fondamentale per la relazione metafisica, dal momento che «solo in base ad essa si opera la rottura della struttura ontologica monolitica della totalità»[71].
A questo proposito, la seconda sezione dell’opera, dal titolo Interiorità ed economia, è interamente dedicata alla descrizione di questa identità «separata» del Medesimo, designata da Levinas anche con il termine «ateismo»[72]. Il risultato è l’elaborazione di una contro-analitica esistenziale che conduce il filosofo francese a definire la soggettività come fondata sul «godimento», in contrappunto critico con l’analisi del Dasein heideggeriano:
Il godimento è la coscienza ultima di tutti i contenuti che riempiono la mia vita – li abbraccia tutti[73].
Quello che faccio e quello che sono è, ad un tempo, ciò di cui vivo. […] Dietro la teoria e la pratica c’è il godimento della teoria e della pratica: egoismo della vita. La relazione ultima è il godimento, felicità[74].
L’Io è radicato, dunque, nell’atto del «vivere di..», che non è semplicemente la rappresentazione di qualcosa oppure la conoscenza di un ente, bensì puro «godimento» e indipendenza. Pensare, mangiare, dormire, lavorare sono azioni che offrono nutrimento alla vita, poiché «vivere è godere della vita»[75].
Come già accennato in precedenza, Levinas si impegna in una appassionata analisi fenomenologica di quei «momenti» in cui si dispiega questo «egoismo» del soggetto: «il corpo, la casa, il lavoro, il possesso, l’economia»[76].
In questo contesto ritroviamo la tematica del sorgere dell’ipostasi dall’anonimato dell’essere, già sviluppata nelle pagine di Dall’esistenza all’esistente[77], ma ripresa ora con una finalità diversa: mostrare che «la soggettività egoistica ha un senso solo in funzione del suo possibile ribaltamento in “essere per altri”»[78].
Soffermandosi sul «momento» della «dimora» (demeure), Levinas mostra come essa non sia un semplice strumento tra gli altri, bensì la condizione di ogni attività: la «casa» è ciò che permette un «raccoglimento» dell’io, un’interiorità indispensabile per rappresentarsi e possedere le cose. L’uomo, dunque, è un essere che vive in una situazione paradossale, al contempo dentro e fuori dal mondo, «si pone all’esterno partendo da un’intimità»[79]. Tuttavia, si pone il problema di capire in che modo il Medesimo possa attuare questa distanza dalla realtà se la sua esistenza è essenzialmente «godimento».
Il filosofo francese risponde introducendo nuovamente la categoria del «femminile», già utilizzata nel saggio Il Tempo e l’Altro: la «Donna» è propriamente «condizione del raccoglimento, dell’interiorità della Casa e dell’abitazione»[80]. L’io può rifugiarsi in una dimensione di «raccoglimento» poiché qualcuno lo ha accolto previamente, poiché ha già vissuto «un’intimità con qualcuno»[81] che è quella della familiarità, espressa emblematicamente dalla presenza femminile. Il Medesimo si scopre così in relazione con un’alterità che rende possibili nuovi rapporti con il mondo, quali il possesso e la rappresentazione.
Levinas, però, si spinge ben oltre nel tentativo di liberare completamente il soggetto «dall’ immersione negli elementi propria del vivere di..»[82], aprendo finalmente lo sguardo su quelle prospettive più note del suo pensiero. Significative a questo proposito risultano le seguenti affermazioni:
Per potermi liberare dal possesso stesso instaurato dall’accoglienza della Casa, per poter vedere le cose in se stesse, cioè per potermele rappresentare, per poter rifiutare sia il godimento che il possesso, è necessario che io sappia donare quello che possiedo. […] Ma per questo è necessario che incontri il volto indiscreto di Altri che mi mette in questione[83].
Esattamente in questa «incontro» consiste la portata innovativa della riflessione levinasiana, che dunque tenta di stabilire la relazione metafisica tra Medesimo e Altro innanzitutto come una relazione etica.
Si tratta di un’impostazione già prefigurata fin dalle prime pagine dell’opera, a partire dalla descrizione dell’idea di Infinito e del Desiderio. Così si esprime infatti Levinas in uno dei passaggi iniziali:
L’infinito nel finito, il più nel meno che si attua attraverso l’idea dell’Infinito, si produce come Desiderio. […] Desiderio perfettamente disinteressato – bontà. […] Il che si produce positivamente nel possesso di un mondo di cui posso fare dono ad Altri, cioè come una presenza di fronte ad un volto. Infatti, la presenza di fronte ad un volto, il mio orientamento verso altri può perdere l’avidità dello sguardo solo mutandosi in generosità[84].
Nel paragrafo successivo ci occuperemo di approfondire le conseguenze di un simile progetto, impegnato a mostrare che «la morale non è un ramo della filosofia, ma la filosofia prima»[85]: l’etica si configura come la «struttura ultima dell’essere»[86].
1.2.3 Il «volto» che parla
La nozione di «volto» (Visage), emersa nel pensiero di Levinas all’interno di alcuni saggi giovanili, trova in Totalità e Infinito una piena elaborazione. In questo contesto, essa viene introdotta sia per dare una concretezza a quella «alterità assoluta dell’Altro», sia per evidenziare la natura essenzialmente etica della relazione metafisica.
Ma cosa intende precisamente il filosofo francese con questo termine? Come evidenzia Ferretti, «la specialissima “fenomenologia” del volto che Levinas propone, tende a distinguere il «volto» quale «espressione» dell’Altro, sia dai suoi lineamenti, che posso oggettivare riportandoli a categorie generali […], sia dalle qualifiche con cui si inserisce nella trama di relazioni del mio mondo oggettivo»[87]. Parlare di «volto» non significa riferirsi ad un «contenuto rappresentato»[88], ma al contrario a qualcosa che «distrugge ad ogni istante, e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia, l’idea a mia misura e a misura del suo ideatum»[89]. Il volto, in quanto manifestazione di Altri, rifiuta qualsiasi tentativo di tematizzazione e nel suo rivelarsi sfugge ad ogni forma «comprensiva»: non è possibile coglierlo con uno sguardo oppure un’immagine. Nella sua intervista con Philippe Nemo, Levinas specifica ancora meglio il senso di queste affermazioni quando dichiara:
Si può quindi dire che il volto non è «visto»: è ciò che non può diventare un contenuto afferrabile dal pensiero. Il volto è l’incontenibile, conduce al di là, e per questo la sua significazione lo fa uscire dall’essere in quanto correlativo di un sapere[90].
Il volto è semplicemente ciò che significa «di per sé», senza la necessità di una mediazione che finirebbe inevitabilmente per «inglobarlo». Più precisamente – afferma Levinas – l’epifania del volto «è presenza viva, è espressione»[91] di Altri:
La vita dell’espressione consiste nel disfare la forma nella quale l’ente, che si espone come tema, finisce con il nascondersi. Il volto parla. La manifestazione del volto è già discorso[92].
L’Altro, mediante il volto, è colui che si presenta «parlando», poiché il linguaggio, lungi dall’essere un mero strumento comunicativo che fissa la realtà, è ciò che «sollecita altri» e «sporge sulla visione»[93]. Su queste basi è possibile affermare che il discorso «mette in relazione con ciò che resta assolutamente trascendente»[94] ed è l’unica modalità per incontrare l’alterità senza assimilarla. In questo dialogo faccia-a-faccia, che non intende «svelare» alcuna verità, Altri si «lascia essere». E ciò che emerge da questa «rivelazione» è innanzitutto una obbligazione etica. L’Altro che mi appare kath’auto e senza ornamenti è infatti essenzialmente «privo di difese». Nel volto si manifestano «nudità» radicale, miseria, indigenza: icona biblica «del povero, dell’orfano, della vedova» e dello «straniero». In questa prospettiva, riconoscere Altri significa «riconoscere una fame» e dunque «donare»[95]: il suo volto è il comandamento «non uccidere», la sua «parola» è questa.
Altri è colui che oppone alla libertà del Medesimo una resistenza infinita, non in termini di forza contraria, ma instaurando l’ordine della responsabilità. Per questo motivo Levinas giunge ad affermare che «l’epifania del volto è etica»[96].
Questa relazione, instaurata dall’espressione del volto nudo e indifeso, è innanzitutto «asimmetrica» poiché Altri è colui che «chiama in causa» la mia libertà a partire da una dimensione di altezza e infinita trascendenza. Levinas riconosce ad Altri il ruolo di «maestro» e «Signore»:
Riconoscere Altri è donare. Ma significa donare al maestro, a chi si avvicina come “voi” in una dimensione di maestosità (Hateur)[97].
L’essere che si presenta viene da una dimensione di maestosità, dimensione della trascendenza in cui può presentarsi come straniero, senza oppormisi, come ostacolo o nemico[98].
Questo «orientamento inevitabile dell’essere “a partire da sé” verso “Altri” »[99] rappresenta – anche a detta dello stesso Levinas – il punto di approdo di quest’opera[100] e mette in luce almeno due importanti conseguenze, l’ una sul piano filosofico, l’altra sul versante «teologico».
Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, che verrà approfondito successivamente[101], è interessante rilevare come per il filosofo francese questa «curvatura dello spazio intersoggettivo» rappresenti probabilmente «l’intenzione divina di ogni verità», «la presenza stessa di Dio»[102]: qualsiasi tentativo di «dire Dio», in sostanza, non può prescindere dal rapporto etico.
Ma la prima e più importante conseguenza è la subordinazione dell’ontologia alla relazione etico-metafisica, a partire dall’esteriorità assoluta di Altri, che si rivela come volto «nudo» e indifeso, senza alcuna possibilità di «appropriazione» da parte del Medesimo. Comprendiamo meglio, dunque, quelle pagine iniziali di Totalità e Infinito[103] in cui Levinas denunciava l’«egoismo» dell’ontologia e tentava propriamente di «invertire i termini»[104], inaugurando il suo progetto filosofico:
La comprensione dell’essere in generale non può dominare la relazione con Altri. Questa condiziona quella. Non posso sottrarmi alla società con Altri, anche quando considero l’essere dell’ente che è. La comprensione dell’essere già si dice all’ente che spunta dietro il tema nel quale si offre. Questo «dire ad Altri» – questa relazione con altri come interlocutore, questa relazione con un ente – precede ogni ontologia. […] L’ontologia presuppone la metafisica[105].
1.3 La trascendenza radicale in Altrimenti che essere
«Questo libro interpreta il soggetto come ostaggio e la soggettività del soggetto come sostituzione che rompe con l’essenza dell’essere»[106]. Potrebbe apparire persino «scandalosa» una simile dichiarazione, nonostante sia stato Levinas in persona a pronunciarla per chiarire il senso della sua ultima opera pubblicata nel 1974, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza. Eppure, in questa affermazione troviamo una perfetta sintesi della riflessione filosofica sviluppata dal filosofo francese sulla scia dei risultati raggiunti in Totalità e Infinito. Una volta scoperto l’«accesso etico» ad Altri, Levinas è impegnato adesso a salvaguardare l’assoluta trascendenza dell’alterità, muovendosi in una duplice direzione: da un lato radicalizzando il tema della soggettività responsabile, pensata fino all’«espiazione» e alla «sostituzione», nelle quali si rivela il carattere trascendente «rispetto ad ogni tematizzazione ontologica e ad ogni chiusura egoistica nella cura del proprio essere»[107]; dall’altro, approfondendo il concetto di Dio o Infinito, del quale il volto altrui sarebbe una «traccia». In effetti, queste due tematiche sono strettamente connesse, come afferma lo stesso Levinas nella pagine iniziali:
Il problema della trascendenza di Dio e il problema della soggettività irriducibile all’essenza, irriducibile all’immanenza essenziale, procedono insieme[108].
Una simile trattazione esige, tuttavia, un linguaggio adeguato, capace di «significare» la trascendenza in un modo diverso rispetto alle categorie ontologiche esistenti. Si tratta di una vera e propria «sfida» richiamata sin dall’incipit del volume e che interroga in profondità la questione di una riduzione del «Detto» al «Dire» originario – per usare i termini di stampo levinasiano.
Nel presente lavoro ci soffermeremo in particolare su quest’ultimo aspetto «linguistico» e poi tenteremo di indagare la struttura etica della soggettività.
1.3.1 Il «Dire» oltre il «Detto»: «riduzione» fenomenologica
Per rispondere in parte alle critiche rivolte da Jacques Derrida nel suo celebre «commento» del 1964[109], in cui lo si accusava di voler «uscire» dall’ontologia utilizzando però il suo stesso linguaggio, Levinas tenta di impostare su nuove basi la propria riflessione, a partire da una «differenza linguistica» fondamentale: quella tra «Detto» e «Dire».
Il primo è ciò che «tematizza il trascendente»[110] ed ha sempre la funzione di svelare, manifestare l’essere e la realtà, racchiuderla in un sistema di pensieri e segni. Il detto è ciò che «proclama e consacra questo in quanto quello»[111] e all’interno della sua struttura «si mostrano le entità identiche o gli enti»[112]. Di più, esso mette in luce quella che Levinas chiama «anfibologia dell’essere e dell’ente». Riprendendo la distinzione ontologica inaugurata da Heidegger, il filosofo francese fa notare come nel Detto (ed in particolare all’interno del discorso predicativo che afferma o nega qualcosa), «essere ed ente finiscono per identificarsi vicendevolmente, nonostante la loro differenza»[113], poiché da una parte, gli enti «fanno risuonare la verbalità dell’essere che ne costituisce l’essenza»[114], ma dall’altra lo stesso verbo-essere può manifestarsi solo come ente dentro un Detto. Per questo Levinas identifica nel Detto il «luogo di nascita dell’ontologia»[115], evidenziando l’importanza del linguaggio non semplicemente come «codice comunicativo» ma anche come «spazio» in cui l’essere si dice.
Tuttavia, proprio questa «anfibologia» scoperta da Levinas apre la strada ad linguaggio pre-originale, ad un «Dire che non si esaurisce in apophansis»[116]. Si tratta di qualcosa che «significa altrimenti, non è il presentatore dell’essenza degli enti»[117], e che si configura come «espressione anteriore ad ogni tematizzazione del detto»[118].
La filosofia ha precisamente il compito di «risvegliare nel Detto il Dire che vi si assorbe e che entra così assorbito nella storia che il Detto impone»[119]: Levinas parla a questo proposito di «riduzione fenomenologica» del Detto al Dire. Ma in che cosa consiste questo procedimento?
Come fa notare Ferretti, «la riduzione dal Detto al Dire non è la riduzione ad un essere o ente più vero»[120], ma si configura come riduzione «alla significazione etica dell’uno-per-l’altro della responsabilità, in cui emerge la soggettività umana»[121]. In sostanza, si tratta di una risalita dal piano ontologico in cui l’essere ci appare ed il fenomeno si «manifesta», ad un livello etico originario in cui la soggettività si caratterizza veramente come trascendente, «al di là dell’essenza».
Nel descrivere in positivo questa significazione originale del Dire, che dunque rappresenta la «soggettività stessa del soggetto»[122], il filosofo francese opera un vero e proprio «rovesciamento intenzionale» della coscienza: «l’atto del Dire – afferma Levinas – è la suprema passività dell’esposizione ad Altri che è precisamente la responsabilità per le libere iniziative dell’altro», è la «de-posizione o de-stituzione del soggetto», «passività più passiva di ogni passività»[123]. In questo senso, Levinas utilizza il termine «esposizione» per indicare la modalità con cui il soggetto significa all’altro[124], all’interno di un contesto comunicativo.
La riduzione del Detto al Dire, impostata in questi termini, implica una nuova concezione della soggettività, pensata ora come totalmente «nuda» ed «esposta», «iperbole della passività»[125].
1.3.2 Il soggetto tra «prossimità» ed «ostaggio»
Individuata nel Dire originario la radice etica della soggettività, Levinas si impegna a chiarire il senso profondo di questa «trasformazione». L’io, de-posto della sovranità, si rovescia in un Sé all’accusativo, rompendo il guscio della propria autoreferenzialità: «la soggettività del soggetto è la vulnerabilità, esposizione all’affezione, sensibilità»[126].
Da sempre votato al «per-l’altro», il soggetto è completamente de-stituito, spogliato da ogni forma concettuale e da ogni interiorità che vuole assimilare l’alterità. Esso è un «malgrado sé», ossia precedente ad ogni impegno:
Il per sé dell’identità non è più per sé. L’identità del medesimo nell’«io» gli viene malgrado sé da fuori […] Il soggetto è per l’altro; il suo essere se ne va per l’altro, il suo essere muore in significazione[127].
L’io è investito di una responsabilità per Altri ancor prima di ogni sua decisione, di ogni libera scelta. Il soggetto si trova già carico di una istanza etica che può assumere solo passivamente e non in modo attivo: la responsabilità è «più antica di ogni impegno», un’elezione che convoca necessariamente il soggetto. Si delinea qui una particolare struttura della temporalità, poiché «la responsabilità per altri non potrebbe scaturire da un impegno libero, cioè da un presente»[128], bensì essa «eccede ogni presente attuale o rappresentato»[129]. Il «malgrado sé» arriva da un passato ormai lontano, da una «lasso» di tempo – inteso da Levinas come «perdita del tempo» – che non è opera del soggetto e non può mai essere recuperato: esattamente questo significa affermare che il Dire viene «prima« del Detto.
Questa passività del soggetto, tuttavia, non comporta la perdita d’identità, ma anzi la singolarità dell’io consiste precisamente nella sua insostituibilità etica:
Unicità significa qui impossibilità di sottarsi e di farsi sostituire, unicità nella quale si annoda la ricorrenza stessa dell’io. […] Unicità non assunta, non sus-sunta, traumatica: elezione alla persecuzione[130].
Nessuno può rispondere al mio posto: l’appello alla responsabilità è personale e assolutamente indeclinabile. Per questo Levinas, nel mettere in evidenza l’unicità dell’istanza etica, sottolinea lo stretto legame tra l’Uno, che ciascuno è, e la Bontà: «il Bene ha sempre già eletto e richiesto l’unico»[131], esercita un’influenza pre-originale e diacronica, ancor prima di qualsiasi inizio.
Le analisi condotte dal filosofo di Altrimenti che essere si sviluppano in successivi approfondimenti e riprese di quel nucleo originario finora esposto, ovvero la natura etica e trascendente del soggetto.
A questo proposito, Levinas parla di «sensibilità» e «identità incarnata» per mettere in luce la significazione concreta della responsabilità, anteriore ad ogni tipo di intenzionalità:
Un corpo animato o una identità incarnata è la significanza di questa non-indifferenza[132].
La significazione – l’uno-per-l’altro – ha senso solo tra esseri di carne e di sangue[133].
La «sensibilità» è precisamente il motore dell’esposizione all’altro, «della dolenza di un corpo che si strappa il pane dalla propria bocca»[134] per poterlo donare. In questo «esser-stato-offerto-senza-ritegno»[135] si comprende meglio la passività più passiva del soggetto, la sua «vulnerabilità», che ribalta il conatus essendi.
Levinas introduce a questo punto il concetto di «prossimità» che rappresenta una delle qualificazioni principali del soggetto. Con questa nozione, non dobbiamo intendere semplicemente una contiguità spaziale, propria della geometria euclidea, dove regna un ordine sincronico tra gli elementi. Parlare di prossimità significa riferirsi ad un «soggetto che si approssima e che, di conseguenza, costituisce una relazione alla quale io partecipo come termine, ma in cui sono più – o meno – di un termine»[136]. È la prossimità della vicinanza, della fraternità, dell’umanità: «non-luoghi» che non si irrigidiscono in una struttura ma che rendono possibile la spazialità geometrica.
Levinas si spinge ben oltre, sostenendo che questa prossimità è addirittura «ossessione», poiché il soggetto, nel suo avvicinarsi ad altri, non può impadronirsi di lui e ricondurlo a sé, ma al contrario è come «posseduto» dall’altro.
Le affermazioni che seguono chiariscono fino in fondo la radicalità della proposta levinasiana e soprattutto evidenziano la profonda asimmetria della relazione etica:
La prossimità è un’impossibilità di allontanarsi senza la torsione del complesso, senza «alienazione» o senza colpa, insonnia o psichismo. Il prossimo mi convoca prima che lo designi. […] Nell’approssimarsi io sono di colpo servitore del prossimo, già in ritardo e colpevole di ritardo[137].
L’io si ritrova «costretto a…», «di colpo responsabile senza alcuna possibilità di scampo»[138], poiché Altri, «primo venuto», significa una responsabilità irrecusabile, che non lascia spazio ad un assenso o ad una scelta. Non c’è tempo perché Altri si manifesti alla mia coscienza, ma il prossimo è precisamente «non assumibile come la persecuzione»[139]. La singolarità di Altri è data dal suo convocarmi, precedente ad ogni designazione o apparizione, poiché «mi ordina prima di essere riconosciuto»[140].
Nonostante le ulteriori specificazioni sopra delineate, Levinas porta alle estreme conseguenze la propria riflessione, nel tentativo di uscire definitivamente dall’impostazione ontologica del soggetto e «potersi veramente aprire alla trascendenza dell’altrimenti che essere»: l’io diviene letteralmente «ostaggio» e «sostituto» del prossimo.
La «passività totale dell’ossessione», la «nudità» e la «vulnerabilità» complete si manifestano in quella responsabilità o «essere-in-questione sotto forma di esposizione totale all’offesa, nella guancia tesa verso colui che percuote»[141]. Il soggetto, fin dall’inizio «all’accusativo», Sé, ossessionato in modo anarchico dall’altro, si trova «sotto il peso dell’universo – responsabile di tutto»[142]. La passività del soggetto è davvero «assoluta» poiché in questo caso «il perseguitato è in grado di rispondere del persecutore»[143], espiando per lui. Levinas afferma in proposito:
La soggettività in sé è il rigetto verso sé, il che concretamente significa: accusata di ciò che fanno o soffrono gli altri o responsabile di ciò che essi fanno o soffrono. L’unicità di sé è il fatto stesso di portare la colpa d’altri[144].
Esattamente in questo senso il soggetto è «ostaggio». Se da un lato, l’io è insostituibile, eletto per chiamata di Altri, contemporaneamente esso si sostituisce all’altro nelle sue stesse responsabilità: l’Altro in qualche modo è nel Medesimo e «la parola Io significa eccomi, rispondente di tutto e di tutti»[145]. Questa esasperazione della responsabilità potrebbe far pensare ad un’autentica alienazione e perdita d’identità da parte del soggetto. In realtà, non dobbiamo considerare la «sostituzione» come «l’atto di sostituirsi ad altri compiuto da un io già costituito in se stesso», ma piuttosto nei termini di un «evento stesso dell’io come possibilità del sacrificio per altri ovvero come originaria Bontà»[146]. Levinas riconosce tuttavia il paradosso di questa singolare struttura dell’io, che ad un tempo è se stesso per mezzo dell’altro, che lo interpella fino all’ossessione, ma finisce per essere «un altro», producendo una vera e propria diseguaglianza nell’identità. Per esprimere questa «identificazione» dell’io per «sostituzione», il filosofo francese ne parla come «ciò che unisce alterità e identità»[147]. Si tratta di una formula che potrebbe apparire «contraddittoria« e priva di senso se riferita alle categorie ontologiche. Eppure, esattamente in questa paradossalità si situa quel «salto» al di là dell’essere che Levinas ha tentato di compiere fin dall’inizio dell’opera:
Attraverso l’implicazione dell’uno nell’uno-per-l’altro, attraverso la sostituzione dell’uno all’altro, i fondamenti dell’essere vacillano o si consolidano, ma questo vacillamento o consolidamento non appartengono ad alcun titolo alle gesta dell’essere[148].
In tutta questa analisi non si vuole ricondurre un ente, che sarebbe l’io all’atto di sostituirsi, che sarebbe l’essere di questo ente. La sostituzione […] è l’eccezione che non può piegarsi alle categorie grammaticali come Nome o Verbo, se questo non è nel detto che le tematizza. La ricorrenza non può dirsi che come in sé e come il rovescio dell’essere o altrimenti che essere[149].
Per cogliere il senso autentico della soggettività umana dobbiamo abbandonare il piano ontologico e abbracciare una significazione che «non riposa nell’essere»[150]. Il soggetto si riscopre «irriducibile» alle strutture in cui l’essere si manifesta, realmente «dis-interessato» perché positivamente «pre-occupato» di Altri nella responsabilità, sempre rivolto agli altri uomini, in quella totale passività che lo identifica nella sua unicità. La particolare significazione della «prossimità» è propriamente al di qua di ogni mondo, e «al di là dell’essenza»[151], poiché, se il senso dell’approssimarsi è la bontà – come abbiamo mostrato – , quest’ultima potrà certamente manifestarsi nell’ontologia, «metamorfizzata in essenza […] ma l’essenza non può contenerla»[152]. In questo senso, il soggetto è investito dal Bene ancor prima di ogni atto libero o di coscienza, «colto» da un’istanza etica che proviene dall’Alto e dall’Altro: la «liberta finita», indirizzata preliminarmente, è la libertà del soggetto responsabile[153], una libertà «ontologicamente impossibile».
Precisamente in questo patto anteriore col Bene, in questa «eteronomia», Levinas scopre il «Dire» originario della trascendenza oltre il «Detto» dell’ontologia. Il comando alla responsabilità che mi giunge dal Bene, assolutamente trascendente ed «epekeina tes ousias» – per riprendere un’espressione platonica[154] – apre così la strada al tema dell’Infinito e di Dio che cercheremo di approfondire nel seguente capitolo di questo lavoro.
[1] SALOMON MALKA, Emmanuel Levinas. La vita e la traccia ( a cura di Claudia Polledri), Jaca Book, Milano, 2003, p.1
[2] EMMANUEL LEVINAS, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo (trad.it. di Silvano Facioni), Jaca Book, Milano, 2004, p. 57
[3] Levinas ricorda in particolare Charles Blondel, Maurice Halbwachs, Maurice Pradines e Henri Carteron. Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Etica e Infinito. Dialoghi con Philippe Nemo (a cura di Franco Riva), Città Aperta, Troina 2008, p.52
[4] Cfr. Ivi, p.54
[5] Ibid.
[6] Ivi, p.59
[7] Ibid.
[8] EMMANUEL LEVINAS, La teoria dell’intuizione nella fenomenologia di Husserl (a cura di Vittorio Perego e Silvano Petrosino) Jaca Book, Milano, 2002, p.8
[9] Cfr. Ivi, p.12
[10] Ivi, p.73
[11] Ivi, p.69
[12] Ibid.
[13] GIOVANNI FERRETTI, La filosofia di Levinas. Alterità e trascendenza, Rosenberg & Sellier, Torino, 1996, p.50
[14] Ibid.
[15] Ivi, p.51
[16] E.LEVINAS, Etica e infinito, cit., p.55
[17] E.LEVINAS, La teoria dell’intuizione, cit., p.173
[18] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Scoprire l’esistenza con Husserl e Heidegger (a cura di Federica Sossi), Raffaello Cortina, Milano, 1998
[19] «L’essenza dell’uomo è in quest’opera di verità; l’uomo non è dunque un sostantivo, ma inizialmente un verbo: è nell’economia dell’essere, il “rivelarsi” dell’essere, non è Daseiendes, ma Dasein» (Ivi, p.67)
[20] Ivi, pp.73-74
[21] Ivi, p.102
[22] «Ma il rapporto dell’uomo con l’essere è unicamente ontologia? […] In quanto creatura o in quanto essere sessuato, l’uomo non intrattiene nessun’altra relazione con l’essere se non quella di una potenza su di esso, o di una schiavitù, di attività o di passività?» (Ivi, pp.121-122)
[23] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Dell’evasione (a cura di D.Ceccon e G.Franck), Elitropia, Reggio Emilia, 1984
[24] Ivi, p.17
[25] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente (a cura di Federica Sossi) Marietti, Casale Monferrato, 1986
[26] Ivi, p.75
[27] Ivi, p.38
[28] Cfr. Ivi, pp.36-37
[29] Ivi, p.40
[30] Ivi, p.77
[31] Cfr. EMMANUEL LEVINAS, Il Tempo e l’Altro (a cura di Francesco Paolo Ciglia), Il Melangolo, Genova, 1993
[32] Ivi, p.37
[33] «L’io e il presente sono il movimento del riferirsi a sé che costituisce l’identità» (E.LEVINAS, Dall’esistenza all’esistente, cit., p.73)
[34] E.LEVINAS, Il Tempo e l’Altro, cit., p.45
[35] Cfr. Ivi, p.46
[36] Ivi, p.47
[37] Ivi, p.48
[38] Ibid.
[39] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.97
[40] Ivi, p.96
[41] E.LEVINAS, Il Tempo e l’Altro, cit., p.60
[42] EMMANUEL LEVINAS, Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità (a cura di Silvano Petrosino), Jaca Book, Milano, 1980, p.25
[43] E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.81
[44] Ibid.
[45] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.41
[46] Ivi, p.41
[47] Ivi, p.42
[48] Ivi, p.40
[49] A questo proposito, cfr. E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.62
[50]E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.44
[51] Ibid.
[52] Ivi, p.20
[53] Ibid.
[54] Ibid.
[55] Ivi, p.25
[56] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.104
[57] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.104
[58] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.105
[59] Ibid.
[60] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., pp.47-48
[61] Ivi, p.46
[62] Ivi, p.47
[63] Ibid.
[64] Ivi, p.48
[65] Ivi, p.48
[66]«Il desiderio è un’aspirazione animata dal desiderabile […]. Invece il bisogno è un vuoto dell’Anima, parte dal soggetto» (Ivi, p.60)
[67] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.36-37
[68] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.111
[69] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.103
[70] Ivi, p.105
[71] Ivi, p.112
[72] «Si può chiamare ateismo questa separazione talmente completa che l’essere separato sta assolutamente solo nell’esistenza, senza partecipare all’essere dal quale è separato»(Ivi, p.56-57)
[73] Ivi, p.111
[74] Ivi, p.113
[75] Ivi, p.115
[76] Ivi, p.36
[77] Cfr. supra
[78] G.FERRETTI, Alterità e trascendenza, cit., p.106
[79] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.156
[80] Ivi, p.158
[81] Ibid.
[82] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.142
[83] E.LEVINAS, Totalità e infinito, cit., p.174
[84] Ivi, p.48
[85] Ivi, p.313
[86] Ivi, p.277
[87] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.120
[88] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.182
[89] Ivi, p.48
[90] E.LEVINAS, Etica e Infinito, cit., p.88
[91] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.64
[92] Ibid.
[93] Ivi, p.200
[94] Ibid.
[95] Ivi, p.73
[96] Ivi, p.204
[97] Ivi, p.73
[98] Ivi, p.220
[99] Ibid.
[100] «La priorità di questo orientamento […] riassume le tesi di quest’opera» (Ivi, p.220)
[101] Cfr. infra (Capitolo II)
[102] E.LEVINAS, Totalità e Infinito, cit., p.300
[103] Cfr. in particolare il paragrafo «La metafisica precede l’ontologia» (Ivi, pp.40-45)
[104] Ivi, p.45
[105] Ibid.
[106] EMMANUEL LEVINAS, Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (a cura di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello), Jaca Book, Milano, 1983, p.228
[107] GIOVANNI FERRETTI, Emmanuel Levinas. Un profilo e quattro temi teologici, Queriniana, Brescia, 2016, p.32
[108] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.22
[109] Cfr. Jacques Derrida, Violenza e metafisica. Saggio sul pensiero di Emmanuel Levinas (in La scrittura e la differenza, a cura di G.Pozzi, Einaudi, Torino, 1971, pp.99-198)
[110] E. LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.8
[111] Ivi, p.45
[112] Ivi, p.49
[113] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.214
[114] Ibid.
[115] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.54
[116] Ivi, p.9
[117] Ivi, p.58
[118] Ivi, p.20
[119] Ivi, p.54
[120] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.216
[121] Ibid.
[122] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, cit., p.60
[123] Ibid.
[124] «L’esposizione ha qui un senso radicalmente diverso dalla tematizzazione. L’uno si espone all’altro come una pelle si espone a ciò che la ferisce» (Ivi, p.62)
[125] Ibid.
[126] Ivi, p.64-65
[127] Ivi, p.66
[128] Ibid.
[129] Ibid.
[130] Ivi, p.72
[131] Ibid.
[132] Ivi, p.88
[133] Ivi, p.92
[134] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.229
[135] Ivi, p.93
[136] Ivi. p.102
[137] Ivi, p.108
[138] Ivi, p.105
[139] Ivi, p.109
[140] Ivi, p.106
[141] Ivi, pp.139-140
[142] Ivi, p.145
[143] Ivi, p.139
[144] Ivi. p.140
[145] Ivi, p.143
[146] G.FERRETTI, La filosofia di Levinas, cit., p.248
[147] E.LEVINAS, Altrimenti che essere, p.148
[148] Ivi, p.171
[149] Ivi, p.146
[150] Ivi, p.171
[151] Ivi, p.173
[152] Ibid.
[153] Cfr. Ivi, pp.153-163 («La “libertà finità”»)
[154] Cfr. Platone, Repubblica, VI 509b