La legge ebraica, un po’ più antica della Costituzione della Repubblica, ha dovuto affrontare da millenni in modo drammatico i conflitti con il potere. Ne è una prova il racconto talmudico (Sanhedrin 18b) sul re Yannai (Alessandro Ianneo, morto nel 76 av. e.v.), un servo del quale aveva ucciso un uomo.
Il Sinedrio, presieduto da Shimon ben Shatach, convocò omicida e mandante in tribunale. Venne chiesto al re, come a un qualsiasi imputato, di alzarsi. Il re rispose al presidente che lo avrebbe fatto se alla sua richiesta si fossero associati gli altri giudici; si girò per guardarli in faccia a destra e a sinistra, ma nessuno ebbe il coraggio di sostenere il suo sguardo.
La fine consolatoria del racconto è che venne l’angelo Gavriel e punì duramente i giudici vigliacchi. La fine non consolatoria è la regola che venne allora stabilita: “il re non giudica e non viene giudicato, non testimonia e non si testimonia su di lui” (Mishnà Sanhedrin 2:2). Il Talmud riapre la discussione precisando che la regola non vale per altre massime autorità ebraiche (come il Gran Sacerdote) e che i re di cui si parla qui non sono quelli della dinastia davidica (Yannai era Asmoneo, di discendenza sacerdotale).
L’assenza di potere ebraico ha congelato l’applicazione pratica di queste discussioni per due millenni, ma la fondazione dello Stato d’Israele ha riproposto il problema. Il resto è cronaca, là e qua.
Tratto dalla newsletter L’Unione Informa 8/10/2009