Preparate il Maalox. Stavolta Meotti picchia a destra, al centro e a sinistra. L’autodistruzione delle famiglie che hanno guidato lo stato ebraico
Giulio Meotti
Quei tre figli hanno fatto di tutto per liberarsi dalla gigantesca ombra del padre severo e assente, l’eroe di guerra, e con esso dell’ombra di Israele. Con la scomparsa pochi giorni fa del figlio del generale Moshe Dayan, Assi, si chiude il lungo ciclo della “camelot d’Israele”, la più nota delle dynasty dello stato ebraico. Una breve storia del sionismo e dello stato d’Israele: quattro generazioni di una famiglia che hanno incarnato il mito israeliano. C’è tutto dentro, la conquista e il pentimento, l’euforia e la malinconia. Alla fine, gli eredi Dayan hanno lasciato alle proprie spalle una storia di autodistruzione e di estraniazione.
Quattro generazioni: Shmuel, contadino e pioniere; Moshe, guerriero e statista; Assi, regista e attore, e Lior, giornalista. Il primo ha costruito, il secondo ha conquistato, il terzo ha dissacrato, il quinto si è ritirato nel torpore. Il racconto inizia in Galilea, dove il capostipite Shmuel, di famiglia hassidica ucraina, e la madre Dvorah lavorano nel kibbutz di Degania. “Il 4 maggio 1914 nascevo e mi veniva dato il nome di Moshe”, scriveva il generale Dayan nella sua autobiografia, “Story of my life” (Weidenfeld & Nicolson editori). “La terra di Israele si chiamava Palestina, allora, ed era parte dell’impero ottomano. Quell’impero sarebbe crollato due anni e mezzo più tardi e la Palestina sarebbe stata governata da un’amministrazione mandataria britannica. Ma io crebbi in una società ebraica indipendente, che parlava ebraico e incoraggiava i valori degli ebrei che avevano piantato le loro radici qui, nella terra dei loro padri”.
Il padre fondatore, Shmuel Dayan, arrivato dalla Russia con la seconda aliyah, fonda un kibbutz a Degania e diventa membro della Knesset. Il figlio è il leggendario guerriero e icona globale della rinascita d’Israele, il più israeliano degli israeliani, celebre per frasi come “meglio Sharm el Sheikh senza la pace della pace senza Sharm el Sheikh”. Ricordato per la benda nera che lo rendeva simile a un pirata cinquecentesco, sulla faccia larga, sorridente, la camicia sempre aperta sul collo, i modi franchi e spicciativi, Dayan aveva dato al suo grande maestro, il vecchio David Ben-Gurion, la gioia di un tramonto felice, e al suo popolo, una nuova fierezza.
Raramente concedeva interviste, Dayan, benché accettasse volentieri la conversazione, ma su argomenti non militari, e nemmeno politici. “Parliamo di archeologia”, diceva mostrando i denti forti, un po’ feroci. Indossava camicia, cravatta e giacca solo quando andava in missione all’estero; nel kibbutz della Galilea dov’era nato, e dove aveva allevato le pecore, aveva imparato a vivere duramente. A differenza dei suoi eredi dandy e decadenti, non lo si incontrava mai ai cocktail party così frequenti a Gerusalemme e a Tel Aviv. Mangiava per tenersi in forma, non beveva, aveva sulle labbra quel perenne sorriso fra l’ironico e l’irridente. Era poco cortese, vestiva quasi sempre con una camiciola a mezze maniche, scarpe un po’ grevi, come se non avesse dimenticato che i suoi genitori venivano dalla Russia. Dunque il prototipo della generazione dei padri fondatori d’Israele.
Una grande epopea di coraggio, virtù e abnegazione finita con l’edonismo triste del figlio Assi, scomparso pochi giorni fa, e che simbolicamente si è spento per il 66esimo anniversario dell’Indipendenza, dopo quattro matrimoni falliti e numerosi soggiorni in clinica per curarsi dagli eccessi della droga. Il suo film più emblematico “Dr. Pomerantz”, del 2011, parla di uno psicologo che affitta un appartamento dove la gente può andare a suicidarsi. Assi il profeta della sventura israeliana, il critico dell’occupazione, del militarismo del padre, dell’amara vittoria.
Il figlio di Assi, Lior, oggi fa il giornalista e scrive soltanto dei propri incubi, della propria insonnia, dei propri mal di testa, incarnazione vivente della scetticismo. Soltanto vita privata, niente miti nazionali. E nel mezzo, gli altri Dayan.
Come Yael, figlia del generale, che sposò un militare di nome Dov Sion prima di scoprirsi lesbica militante, e che ha scritto un romanzo, “Il mio volto nello specchio”, che parla dell’esercito. Qualcuno ha paragonato Yael a Jane Fonda per la sua opposizione alla guerra e per la sua bellezza di ragazza bruna, coi capelli lunghi, la pelle abbronzata, gli occhi scuri.
Una Dayan sempre in prima fila non per i fratelli e le sorelle israeliane, ma per i palestinesi, i poveri, gli omosessuali, i derelitti. Yael Dayan fu la prima deputata laburista a incontrare gli ascari dell’Olp di Yasser Arafat nel suo esilio a Tunisi. Poi disse che re Davide era un omosessuale. E rischiò di far cadere la coalizione di governo, dopo che Yossef Azran, esponente del partito ultra-ortodosso, minacciò: “Faremo crollare questa coalizione di sinistrorsi, svergognati e ignoranti che non distinguono un’amicizia da una relazione oscena”.
Il ripudio del padre Yael Dayan lo consumò nel romanzo “Una giovane roccia”. Un atto d’accusa contro gli uomini che suo padre condusse alla vittoria nella guerra lampo del 1956. Il protagonista Nimrod, forte come l’eroe della Bibbia, partecipa alla campagna contro l’Egitto, si rivela soldato e cittadino ideale; eppure il suo destino è quello di un vinto, perché ha ucciso la paura nel cuore. Dopo aver realizzato l’ideale di “uomo nuovo”, tutto pietra e acciaio, dopo aver distrutto ogni pietà di se stesso, si sente inerme e disperato e solo come aveva ammonito il vecchio Lamech: “Chi è incapace di avere paura, è incapace perfino di amare, e Iddio vuole che noi amiamo”.
La vicenda di Nimrod è semplice e simbolica. Suo padre, un piccolo artigiano emigrato dalla Russia dei pogrom in una fattoria sul lago di Tiberiade, lo educa a essere un uomo sicuro fino alla spavalderia e al coraggio non impacciato da sentimentalismi e angosce, libero e solido nelle armi e nei lavori di terra. Perché la terra è la nuova religione degli ebrei divenuti contadini, come Moshe Dayan: “Prendi questa terra”, dice al ragazzo, “sentila, assaporala. E’ qui il tuo Dio”. Il bambino che amava le fiabe, il coniglietto di cuoio, le preghiere in sinagoga, la fuga dalla paura nelle braccia materne, gli obbedisce: come una roccia sarà forte e impassibile, ma arido e solo. Non sa più capire e parlare nemmeno con la madre, con la moglie, con il suo bimbo. E quando, davanti al rischio mortale corso dal suo figlioletto, un terribile senso di paura spezza alla fine la sua corazza, è troppo tardi perché possa tornare sulla strada giusta: resterà a piangere in solitudine. Fu così che Yael Dayan condannò l’ideale pionieristico del padre eroe di guerra. Al coltello dei pionieri i figli preferiscono il coniglietto di cuoio.
Prima di finire perso nell’alcol e nelle droghe, Assi Dayan ha chiamato un fotografo per posare nudo a sessantadue anni. “Guardate questo cumulo di immondizia. Quello che avete davanti è un vecchio, grasso, un uomo coperto da pelle che sta scivolando verso l’inferno e la fine della vita”, ha scritto di sé sul giornale Yedioth Ahronoth. “Ogni tentativo di cercare anche un solo segno della bellezza che lo ha accompagnato è destinato a fallire. Il sabra che camminava attraverso i campi, affascinante e con i capelli ricci, ha cominciato a camminare in campi di marijuana e tra strisce di cocaina. Da allora, parliamo di un drogato che sta perdendo la ragione e che ha cominciato a vomitare nel piatto d’argento che gli è stato messo davanti”. Poi Dayan ha invitato nel suo appartamento alla periferia di Tel Aviv le telecamere del Canale 10. Le immagini mostrarono un Dayan circondato dal nichilismo e dalla sporcizia. “Guardo me stesso”, disse il figlio del generale, “e vedo il nostro stato, a sessant’anni passati, ingrassato e non felice, ormai sdentato”.
Era stata la madre, Ruth, a consegnarlo alla polizia per l’uso di cocaina. “Ero rimasto affascinato – aveva ricordato di recente Assi Dayan – nel constatare in quale misura la cocaina serva a concentrarsi”. Già, Ruth Dayan, novantasette anni ma ancora molto combattiva e presente sulla scena pubblica israeliana. L’anno scorso in una intervista a Newsweek, anche la vedova Dayan ha predetto la morte del progetto israeliano: “Credo che il sionismo abbia fatto il suo tempo”.
I rampolli dell’aristocrazia israeliana fuggono spesso all’estero. In ebraico c’è una parola: “yerida”. La discesa. La contro-aliyah. Un percorso inverso a quello compiuto dai loro padri e nonni. Una scelta che fece molti anni fa il figlio della premier Golda Meir, Menachem, diventato un violoncellista di fama internazionale. Anche uno dei figli del premier Yitzhak Rabin, Yuval, ha trascorso molti anni negli Stati Uniti, per “disintossicarsi”. Yigal Arens, figlio dell’ex ministro della Difesa Moshe Arens, insegna in una università degli Stati Uniti. Da posizioni della sinistra radicale è passato a un atteggiamento antisionista duro e puro ed è talmente ingombrante che due anni fa una università israeliana ha rinunciato a invitarlo a un congresso per evitare possibili polemiche. Arens ha preso parte anche a un incontro in California intitolato, emblematicamente, “Intifada Café”. Anche il fratello dell’ex ministro Arens, Richard Arens, giurista alla University of Bridgeport, è stato un noto antisionista e ha apertamente paragonato lo stato ebraico al nazismo. Si arriva alla famiglia Olmert, quella dove il ripudio d’Israele si fa più forte assieme ai Dayan. “Posso dire che la sua famiglia è la cosa migliore di lui”, ha scritto dell’ex premier israeliano il giornalista Jihad el Khazen sul quotidiano libanese Al-Hayat. “Sua moglie Aliza è una nota scrittrice e attivista di sinistra. Dei suoi cinque figli, tre si oppongono alle guerre. Il figlio maggiore, Shaul, risiede a New York. Ha rifiutato il servizio militare nei territori occupati. Il secondo figlio, Ariel, è andato a vivere a Parigi per evitare di fare il servizio militare ed è attivo tra i gruppi che si oppongono alla presenza di Israele in territorio palestinese. Sua figlia, Dana, è lesbica ed è una di quelle donne israeliane che hanno formato gruppi per osservare i soldati israeliani ai checkpoint”.
Nel 2006 Dana Olmert prese parte a Tel Aviv a un picchetto di protesta per l’incursione militare di al Sudaniya in cui era rimasta uccisa una intera famiglia palestinese. Trecento dimostranti convennero nel rione di Zahala, a nord di Tel Aviv, di fronte alla abitazione del capo di stato maggiore generale Dan Halutz. Uno dei cartelli di Dana Olmert annunciava: “Abitanti di Zahala, c’è un assassino fra di voi”. E ancora: “Halutz assassino, l’Intifada vincerà”. Di Aliza Olmert, una raffinata artista bohémienne molto di sinistra, fu pubblicata una fotografia in cui la si vede abbracciare Muhammad Abu Tir, un leader di Hamas. Aliza fa parte del movimento Peace Now, promotore del ritiro israeliano dai Territori palestinesi, al quale sono legati anche i loro quattro figli. Lo disse bene Ehud Olmert per spiegare il ritiro unilaterale israeliano da Gaza: “Siamo stanchi di combattere, siamo stanchi di essere coraggiosi, siamo stanchi di vincere e di sconfiggere i nostri nemici”.
Infine c’è Avinadav Begin, nipote del Nobel e primo ministro, che pubblica un libro per chiamarsi fuori da “questa fabbrica delle guerre” e per ripudiare il sionismo. Anche un altro figlio di Moshe Dayan, Ehud, “Udi” lo scultore, ha lasciato Israele, dopo aver vissuto nel deserto, e oggi fa del suo meglio per vendere opere in ferro battuto e pagarsi il viaggio per le spiagge della Thailandia. Edonismo. Anche Udi Dayan si compiace nel rendere pubblici i propri fallimenti quasi fossero un vezzo. Come ha fatto Aviv Geffen, il più celebre cantante rock d’Israele, il nipote di Yael Dayan, che ha lanciato un appello ai soldati: “Non fatevi ammazzare in Libano solo per consentire ai vostri superiori di far carriera”. E ancora: “Ragazzi, fuggite all’estero”.
Eccolo l’Edipo israeliano. All’epoca della guerra del Sei giorni, quella vinta dal generale con la benda all’occhio, circolava una freddura amara. All’aeroporto di Tel Aviv una insegna recita: “L’ultimo ad andarsene spenga la luce”. Come hanno fatto i figli di Moshe Dayan, i prediletti da Israele.
Il Foglio – Sabato 7 Giugno 2014