Nicola Gallino
C’è in Israele un pezzo di storia ebraica piemontese custodito dagli eucalipti e dal vento caldo che qui gira dal promontorio di Giaffa. È l'”Aron ha Kodesh” della sinagoga di Moncalvo, sacro armadione ligneo dove gli ebrei monferrini riponevano i rotoli della Torah. Due colonne ioniche tinte a finto marmo. Ante massicce e protettive. Sopra, il capriccio d’oro e intagli di un fastigio. E in cima le Tavole della Legge incoronate. Un manufatto di ebanisteria primo Ottocento in tutta la sua solennità, salvato e restituito al culto della sinagoga Obadiah da Bertinoro di Ramat Gan, popoloso e tranquillo sobborgo residenziale di Tel Aviv. L'”aron” è affidato alle cure di un nucleo di ebrei italiani che hanno fatto “aliyah” negli anni Quaranta e Cinquanta e che oggi si godono una longeva e serena stagione di affetti e di memorie.
La comunità ebraica di Moncalvo è per secoli tra le più fiorenti del Piemonte. Di lì arrivano i «barba», gli antenati che Primo Levi evoca con ironia e tenerezza in “Argon”, primo racconto del “Sistema periodico”. Con Asti e Fossano, Moncalvo è depositaria dell’Apam, rito antico e speciale così chiamato dall’acronimo delle iniziali ebraiche delle tre città e dotato di canti e preghiere tutti suoi. Lì sono risuonati gli ultimi echi del dialetto giudeo-piemontese. E nel 1860 inaugura con orgoglio la nuova facciata della sua sinagoga: l’unica in Europa a insistere sulla piazza principale, intitolata proprioa quel Carlo Alberto che nel 1848 aveva emancipato gli ebrei piemontesi permettendo loro di non nascondere più i templi nei penetrali di anonimi casamenti.
Poi le piccole comunità di provincia si svuotano poco a poco: per saldo naturale, per l’inurbamento che attira tante famiglie israelite verso Torino e i centri maggiori. Dopo l’ultima guerra anche a Moncalvo non c’è più nessuno. Il tempio chiude i battenti. Oggi resta un guscio vuoto, confuso fra le case del centro storico e una memoria sbiadita che lo chiama «la cèsa dij Ebrei».
Solo Piero Norzi, anni fa, è tornato lì da Torino per spremere dalla fecondità veramente biblica di queste colline il primo vino “kosher” del Piemonte. È lui che custodisce l’antico cimitero israelitico e lo apre ai turisti che arrivano da tutto il mondo in occasione delle festività religiose e delle Giornate Europee della Cultura Ebraica, la prossima in programma il 29 settembre.
Fra le villette e i giardini tropicali di Ramat Gan ci accompagna Sharon Nizza, giovane ebrea italiana da anni in Israele dove si occupa di cultura e sociale. La sinagoga porta il nome di Obadiah da Bertinoro, rabbino del Quattrocento autore di un compendio della Mishnah venerato in tutte le comunità d’Europa. Il fabbricato in cemento è arricciato e dimesso. Niente sontuosità o bellurie. Semmai la stessa aria domestica di tante chiese prefabbricate delle nostre periferie. Sui gradini ci aspettano Silvio e Liliana Della Torre e Simcha Nahon. Simcha è figlia di Umberto Nahon, infaticabile salvatore del patrimonio dell’ebraismo italiano dopo la Seconda Guerra Mondiale. A lui è intitolato il piccolo e meraviglioso Museo di Arte Ebraica Italiana di Gerusalemme.
Silvio è del 1919, novantaquattro anni. Liliana una decina di meno.
Ma non glieli daresti mai. Hanno la lucidità signorile di una vita piena di ricordi e cose da raccontare.
«Ho vissuto a Torino negli anni della guerra», si scioglie lui. «Lì ho conosciuto mia moglie, che abitava in via della Rocca angolo corso Vittorio. Frequentavo la casa, lei era ancora una bambina». E un po’ alla volta riaffiorano storie incredibili.
«Arrivai a Torino per imparare un mestiere che mi consentisse di trasferirmi in terra d’Israele non appena possibile. Ma l’Italia entrò in guerra e non potei più muovermi.
Finché mi cercò un industriale meccanico che mi permise di lavorare per l’intero conflitto senza nemmeno cambiare identità». Perché ci sono anche Della Torre non ebrei, e il cognome non insospettiva. «Sotto la Rsi fui fermato molte volte ma sempre rilasciato, perché la mia classe non era stata richiamata e la mia officina faceva produzioni belliche per i tedeschi. Mi andò bene quella volta che a un posto di blocco si dimenticarono di perquisirmi. In tasca avevo il libro di preghiere per Pesach», la Pasqua ebraica. E Liliana sorride con occhi da sposina: «Ditemi se non è pazzo… «.
Poi l’incubo finisce. Silvio nel 1945 fa “aliyah” assieme ai genitori e altri tre fratelli, oggi ancora tutti in Israele e felicemente veleggianti fra i 90 e i 98 anni. Uno, Mario, è anzi fra gli ultimi depositari del “bagitto”, il vernacolo giudeo-livornese nel quale ha pubblicato vivaci poesie.
Silvio negli anni successivi torna a Torino appena può. Ritrova Liliana cresciuta. Si frequentano. Nel 1954 rav Dario Disegni li sposa in sinagoga a San Salvario e lei lo segue in Israele. A dividerli resta un dettaglio più forte del legame mosaico. «Io sono livornese. Mio nonno è stato l’ultimo rabbino a Pisa, poi finito deportato. Ma mia moglie è di famiglia pisana… Sa com’è il detto: “Meglio un morto in casa”… «. E ride mentre te lo sussurra in un orecchio, sornione e tranchant: «Per me… mia moglie è torinese e basta».
Anche all’interno la sinagoga è spoglia, essenziale. Arrivano da Moncalvo anche i capitelli ionici in legno dorato montati sopra le finestre a “vasistas”, unica ricercatezza oltre all’altare. Simcha: «A Ramat Gan gli italiani sono sempre stati numerosi. Diverse centinaia. La strada principale la chiamavano addirittura “Boulevard des Italiens”. All’inizio era tutto molto precario. Il dottor Genazzani era rabbino e faceva scuola. Si pregava a casa di Germana Sinigagliae Lidia Servadio, venute qui nel 1939. La Sinigaglia convince il Comunea cedere un appezzamento su cui viene costruita una prima sala, quella che oggi è il tempietto sotterraneo che funge anche da rifugio. Finché un giorno una comunità ashkenazita tedesca ci chiede di poterlo utilizzare. Noi glielo vendiamo e con il ricavato, fra il 1988 e il ’91, riusciamo a edificare questa sinagoga».
I rotoli manoscritti della Torah arrivano dall’Italia, alcuni vecchi anche di trecento anni. Pure i banchi arrivano dalla Penisola, restaurati con cura a Gerusalemme. Ma manca la cosa più importante. L’ aron, appunto. A Ramat Gan vengono a sapere che in una yeshiva, una scuola religiosa di Benei Berak, pia cittadina nei pressi di Tel Aviv, ce n’è uno antico. Lo aveva portato in Israele nel 1950 il rabbino Yosef Kahaneman, chiamato in Piemonte da Umberto Nahon a salvare dall’abbandono il tempio di Moncalvo ormai chiuso. Lo fanno restaurare e lo riportano agli onori del culto.
Oggi in Israele sono una ventina le sinagoghe italiane smontate pezzo per pezzo e ricostruite in tutto o in parte: metafora scintillante del rapporto unico che il popolo ebraico ha con la nozione di radici, di «qui» e «altrove». Saluzzo, Trino Vercellese, Busseto, Soragna, Reggio Emilia, Sabbioneta, Mantova, Padova, Pesaro, Ancona, Livorno, Pisa – visitata di recente dal concittadino Enrico Letta – fino agli splendori rococò di quella di Conegliano rimontata nel Museo Nahon e quella di Vittorio Veneto, dal 1964 all’Israel Museum. Dà emozione pensare che su quelle panche pregavae sgambettava da bambino Lorenzo Da Ponte, il futuro librettista di “Nozze di Figaro”, “Don Giovanni” e “Così fan tutte”.
«La sinagoga di Ramat Gan la frequentano una ventina di famiglie fisse e molte di passaggio. Italiani, francesi e belgi che vengono a celebrare il “bar mitzvah” dei ragazzi perché apprezzano la moderazione e liberalità di noi ebrei occidentali».
L'”aron” monferrino però non ode più le invocazioni del rito Apam ma quelle livornesi sefardite. Su questo, Silvio è fiero e perentorio: «Ancora oggi si fa così. Le preghiere e i canti degli ebrei dei paesi arabi ci feriscono. I tedeschi sembra che piangano. Noi vogliamo armonia, teniamo molto ai nostri canti e alla loro melodiosità. Siamo italiani e abbiamo la musica nel cuore». E mentre usciamo arriva da Liliana una visione sospesa come un flebile rimpianto: «Mia nonna a Torino faceva in casa il salame d’oca “kosher”. Chissà se si trova ancora…».
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