La recente polemica sulla candidatura di un’ebrea nelle file del PDL non è purtroppo che l’ultimo di una serie di conflitti che stanno dilaniando l’ebraismo italiano. Questa disputa politica si aggiunge ai fronti già aperti sulle conversioni, sui matrimoni misti, sulla carne kasher, sul ruolo dei rabbini, sulla scuola, sul dialogo interreligioso e tanti altri.
Nessuno ebreo sano di mente può concepire un ebraismo senza confronti serrati su qualsiasi argomento. Noi ebrei infatti spesso aspiriamo all’eccellenza e lo facciamo senza mezzi termini.
Ognuno di noi (utilizzando una parafrasi calcistica) è convinto, come minimo, di poter riunire al meglio entrambi le cariche, quella di Rabbino capo e quella di Presidente di Comunità. E soprattutto è convinto di poterlo fare con risultati assai migliori delle persone che abbiamo eletto in quei ruoli.
In Italia inoltre assistiamo negli ultimi anni a un risveglio culturale e spirituale che non avevamo conosciuto da tempo e che per fortuna affianca un dato demografico sempre peggiore. Il numero di libri su qualsiasi argomento ebraico che gli ebrei italiani pubblicano oggi è solo uno degli aspetti di una consapevolezza che credevamo dimenticata. L’altra cifra di questa consapevolezza è l’estrema varietà delle opinioni. Dopo anni di torpore uniforme e assimilazionistico abbiamo scoperto la diversità. Una diversità molto vivace.
Tuttavia non è certo questa diversità a essere pericolosa, quanto l’incapacità di discutere (anche duramente) in maniera ebraica, cioè senza costantemente tentare di delegittimare l’avversario. Ed è proprio quello che invece è successo anche con l’ultima polemica.
La neo-deputata alla Kenesset Ruth Kalderon nel suo discorso inaugurale dedicato al Talmud inteso come patrimonio comune per tutti gli ebrei, laici e religiosi, ne indicava uno degli aspetti fondanti, cioè quello di riuscire a capire che possono esistere situazioni in cui entrambi i contendenti hanno ragione.
Assurdo? Non tanto. Noi ebrei da millenni siamo impegnati a dimostrare che il mondo in cui siamo costretti a vivere è una realtà complessa. Purtroppo sui nostri organi di stampa, spesso l’informazione puntuale e approfondita su questa realtà complessa è molto carente. Molti di noi non sanno nemmeno di non sapere.
Che fare allora?
Rav Jonathan Sacks questa settimana parlando della lunghe e noiose parashòt dedicate alle minuzie della costruzione del Santuario, si domanda il perché di queste descrizioni quando per tutta la Creazione del Mondo basta appena un capitoletto.
Sacks spiega che da quando si parla di popolo ebraico a partire dal libro dell’Esodo le polemiche sono quasi all’ordine del giorno. Si comincia con gli ebrei che rinfacciano a Moshè di aver ucciso l’egiziano, passando per l’acqua, il cibo, e mille altre questioni, più o meno importanti. C’è un solo momento, invece, durante il quale le polemiche sembrano accantonate, e cioè proprio durante la costruzione del Santuario nel deserto.
Capiamo allora che la realizzazione comune di un obiettivo è un aspetto fondante per ogni popolo e a maggior ragione per il litigioso e variegato popolo ebraico.
Forse il nostro problema come ebrei italiani non sono allora le polemiche e la diversità, ma la scarsezza di obiettivi comuni da realizzare. Stiamo diventando una società dove tutti picconano e pochi veramente costruiscono. E per costruire serve più di un’offerta di denaro, una volta ogni tanto, a questa o quell’altra istituzione ebraica, oppure la partecipazione a una serata comunitaria.
Basterebbe l’impegno di ognuno di noi, a che a ogni critica, come abbiamo visto sacrosanta, perlomeno corrisponda un mattoncino, anche uno solo, da aggiungere a una costruzione più grande, capace di unire le nostre diversità.
Non esistono critiche costruttive, perché tutte le critiche sono distruttive. Esistono le critiche e queste andrebbero affiancate, ogni tanto, da azioni costruttive.