La difficile ricerca di un partito kasher e i benefici dell’estraneità istituzionale. Un Commento.
Alla recente cerimonia annuale per il premio in memoria del Commissario Palatucci, presso la scuola di Polizia di Roma, le autorità dello Stato intervenute hanno sottolineato il forte impegno delle forze dell’ordine a tutela delle categorie esposte a rischio, citando le comunità ebraiche, le comunità di recente immigrazione, gli omosessuali. Mentre dobbiamo rinnovare la nostra gratitudine per quanto viene fatto per la nostra sicurezza, non possiamo non riflettere sugli accostamenti proposti, che esprimono la posizione che viene attribuita agli ebrei nella classificazione burocratica e politica e nell’immaginazione diretta e spontanea, pure animata da sentimenti di amicizia. Siamo considerati categorie a rischio sostanzialmente estranee. Eppure nella sala di accesso all’aula dove si svolgeva il convegno faceva bella mostra di sé un busto in onore del fondatore della scuola, Salvatore Ottolenghi, di evidenti origini ebraiche. Gli ebrei hanno fondato quella scuola, ma rimangono estranei.
Sono dati e percezioni che in questi giorni sono stati rinfocolati dalla campagna elettorale, dalle candidature di ebrei e dalle prese di posizione di noti esponenti politici. La domanda posta anche in termini molto polemici è se un ebreo possa candidarsi nell’ambito di entità politiche che per idealità, interpretazioni storiche, interessi o scelte di campo vanno contro alcuni temi cari alla sensibilità ebraica: dallo Stato di Israele all’antisemitismo, passando per i temi della libertà, della moralità, dell’onestà ecc.; fermo restando che proprio in campo ebraico vi sono visioni molto differenti su quali debbano essere i valori ebraici primari da difendere. Ma a parte la questione specifica delle candidature c’è il disagio che si prova nel dubbio della scelta per chi votare. Un disagio condiviso con la maggioranza degli italiani, ma che diventa ancora più forte se ai temi comuni si aggiunge la particolare sensibilità ebraica e l’attenzione che si vorrebbe per certe esigenze. Tutto questo non è una novità: vi sono stati lunghi periodi in cui molti elettori ebrei si rifugiavano in partitini (piccoli dal punto di vista numerico) e non si ritenevano soddisfatti dalle grande forze in campo.
La novità di oggi sta forse nei toni che caratterizzano gli ultimi eventi, che sono le forti passioni in gioco, e il ruolo politico degli ebrei italiani, che è cresciuto a dismisura, ma che rischia di esplodere come una bolla. Così come è cambiato in qualche modo il ruolo di molti candidati ebrei. Vi sono sempre stati uomini e donne di origine ebraica attivi in politica in virtù delle loro capacità e non delle loro origini ebraiche, che qualcuno rivendicava con orgoglio o nascondeva per imbarazzo, ma non erano le origini il primo motivo -se non una lontana idealità- che li portava nella scena politica. Da qualche tempo prevale il modello del candidato ebreo in quanto tale, che ha certo tutti i diritti di proporsi o farsi proporre per portare il suo contributo alla crescita del Paese dove vive, e per rappresentare e difendere interessi ebraici, ma che per questa sua connotazione ebraica deve fare i conti con la forza politica in cui si trova, quale che essa sia, nella difficile opera di mettere a posto tutti i tasselli di un puzzle che invece non può essere mai composto per intero.
L’occasione è buona per fare una riflessione più distaccata sul senso di tutto questo: la percezione esterna nei nostri confronti considerati spesso un corpo estraneo, e la nostra percezione nei confronti della realtà politica, che è una condizione tormentata in cui si vorrebbe stare dentro ma non si riesce mai a starci completamente, se non a costo di rinunce e compromessi. Ma il disagio continuo che ne deriva non dovremmo viverlo con fastidio. Perché in realtà è la nostra condizione esistenziale. A cominciare da uno dei nomi che portiamo, quello di “ebreo”, in ebraico ‘ivrì, un nome che nasce con il patriarca Abramo (Bereshit 14:13) e che è collegato con il nome dell’antenato ’Ever, ma del quale il midrash spiega il significato più profondo. ‘Ever significa “oltre”, “dall’altra parte” (di un fiume, di un confine ecc.) e non è soltanto un attributo di origine geografica, ma l’indicazione spirituale dell’essere dall’altra parte, di porsi in discussione con la realtà in cui si vive. Cosa che porta necessariamente all’insoddisfazione, alla critica, a vedere le cose in modo diverso. Un ebreo comincia a farlo andando (o non andando) in luoghi di culto diversi da quelli della maggioranza, continua a farlo, per esempio, quando deve scegliere tutto quello che può mangiare. E soprattutto continua a farlo quando comprende che la realtà che lo circonda (a cominciare da quella ebraica) non gli va bene. Con fatica, chi lo cerca, può trovare un prodotto alimentare kasher lamehadrin; ma è difficile che trovi un partito con questi attributi. Si può e si deve essere ottimi cittadini, ma non bisogna mai omologarsi spiritualmente. Da questo conflitto e questo stimolo continuo nascono probabilmente le grandi energie ebraiche di alcune personalità che sfondano nella scienza, nelle arti, nel pensiero; ma nel quotidiano è l’impegno critico di ognuno, strutturalmente educato a non accontentarsi della realtà, che deve emergere. Un ebreo realizzato nel mondo è paradossalmente un ebreo non realizzato, perché la sua energia critica si è fermata. Ciò che sembra un male e un tormento, l’estraneità istituzionale, è un bene essenziale. Cerchiamo di godercela e di capire che vuol dire. Soprattutto per definire meglio l’identità ebraica, che nelle turbolenze della attualità, viene caricata di etichette, che come tutte le etichette, valgono poco e durano ancora meno.