Il settimo comandamento: Non commettere adulterio. L’intervento di rav Somek alla Giornata del Dialogo e della Riflessione Ebraico-Cristiana a Torino
In una celebre storiella si descrive Mosè mentre scende dal Monte Sinai sotto il peso di due enormi tavole della legge. “D. mi ha incaricato di darVi i Comandamenti. Sono 50 in tutto”. Il popolo protesta per il gran numero e sotto il peso, questa volta, della contestazione, Mosè accetta di risalire sul monte per trattare con D. Dopo qualche tempo il popolo lo rivede scendere dal monte. “Sono riuscito ad ottenere una riduzione dei Comandamenti a dieci soltanto. Ma quanto all’adulterio –riferisce scuotendo il capo- non c’è stato nulla da fare”. Il Talmud interpreta in modo simile l’episodio in cui il popolo nel deserto “piangeva per le sue famiglie” (Num. 11,10) ricordando i cibi che mangiava in Egitto durante la schiavitù a confronto con la manna. Secondo una scuola di pensiero il cibo è in realtà una metafora sessuale e l’espressione biblica va piuttosto intesa nel senso: “Piangeva per le questioni inerenti alle sue famiglie” (Yomà 75a). L’etica coniugale già allora non piaceva.
Il settimo comandamento.
“Poichè Tu o D. non gradisci la malvagità, il male non soggiornerà con Te”, dichiara il Salmista (5,5). Come scrive Maimonide (Guida, III, 10-11): “Non si può affermare, a proposito di D., che Egli sia la causa diretta del male. Ciò non può essere! Al contrario, tutte le Sue azioni costituiscono il bene assoluto, giacché Egli non crea che l’essere e tutto l’essere è bene”. D. non permette neppure che il Suo Nome sia menzionato in relazione ad azioni malvagie. Analogamente, quando nei primi versi della Genesi si parla della creazione della luce e del buio è scritto nella Torah: “E D. chiamò la luce giorno e il buio chiamò notte” (Gen. 1,5): in riferimento al buio il Suo Nome non è ricordato. E’ questo parimenti il caso degli ultimi cinque Comandamenti: quelli che nell’esegesi ebraica compongono la seconda Tavola. A differenza dei primi cinque in cui appare il Nome di D., perché non si riferiscono a crimini contro l’Uomo, a partire dal sesto Comandamento (per intenderci: “non uccidere”) in avanti, il Nome di D. non è mai più adoperato.
Così avviene, fra gli altri, a proposito del settimo comandamento, “non commettere adulterio”. Sette è un numero speciale, impegnativo. In ebraico shiv’ah (= “sette”) e shevu’ah (= “giuramento, patto”) hanno la stessa radice. Esiste certamente un rapporto fra questo e i comandamenti circonvicini. Possiamo distinguere un andamento decrescente di gravità. L’omicidio è il crimine più grave contro l’Uomo. Chiunque versa il sangue altrui provoca una riduzione dell’immagine Divina con cui l’Uomo stesso è stato creato. A seguire per gravità l’adulterio. Profanare l’intimità degli affetti di un’altra persona e la sua stessa vita famigliare costituisce un’offesa gravissima, la profanazione di un Patto. Le infrazioni al matrimonio precedono quelle al patrimonio: il divieto di rubare, pur con tutte le sue numerose implicazioni, appare solo al terzo posto. Così sarà anche nel decimo comandamento: “Non desiderare la casa (cioè la famiglia) altrui; non desiderare la donna altrui” precedono ogni altra insana ambizione.
Nelle parole di un commentatore medioevale, il Sefer ha-Chinnukh, il divieto dell’adulterio riassume con particolare efficacia gli altri. Se uomo e donna si lasciano andare a rapporti promiscui, il figlio di una simile unione potrebbe non sapere chi è suo padre e non essere pertanto in grado di osservare il comandamento di onorarlo. Peggio ancora, potrebbe sposare una donna senza sapere che si tratta di sua sorella e così commettere incesto. L’adulterio è a sua volta una forma di furto, in quanto l’amante sottrae il sentimento che il marito ha per la propria moglie. Infine, l’adulterio può portare facilmente all’omicidio, dal momento che il marito disonorato decide spesso di uccidere l’amante della moglie in un raptus di gelosia.
I dieci Comandamenti sviluppano un processo di crescita che porta l’uomo dall’egoismo più sfrenato, in cui la società si presenta come un’anarchia di elementi interamente ripiegati su di sè, verso un’unità dell’umanità con D. e con se stessa. Più che una serie di dieci leggi, o principi morali giustapposti, è lecito vedervi un cammino, una progressione in cinque fasi che è parallela nelle due Tavole. Nella prima Tavola si tratta di conseguire l’unità dell’uomo con D., nella seconda l’unità dell’uomo con il suo prossimo. La prima fase di questo processo consiste nell’accettare l’esistenza dell’Altro, e quindi affermare da un lato l’esistenza di D., dall’altro il valore assoluto della vita umana. Il secondo stadio comporta l’accettazione dell’altrui dominio. Ciò significa accettare il fatto che D. e nessun altro all’infuori di Lui è padrone del mondo, ma anche che la persona umana ha diritto ad un dominio di affetti esclusivo per definizione. Il terzo stadio educa a non adoperare la proprietà in modo illegale (che si tratti del Nome di D. o, nei rapporti umani, non impadronirsi di ciò che non ci appartiene). Il quarto punto mira ad instillare il principio della piena disponibilità a cooperare, specie attraverso l’uso della parola e della testimonianza che tanta importanza hanno nel persuadere gli altri (lo Shabbat per noi Ebrei è una testimonianza dell’autorità di D. sul mondo da Lui creato). Infine, il quinto e ultimo stadio rappresentano il conseguimento dell’unità tanto ambita: unità con la propria sorgente (i genitori, di cui si comanda il rispetto), e unità nei confronti del prossimo, verso il quale ci viene chiesto di mettere definitivamente da parte ogni sentimento o risentimento negativo[1].
Questo quadro ci autorizza a tracciare dei paralleli fra i rispettivi comandamenti delle due Tavole. Emerge così che il divieto di non commettere adulterio, al secondo posto nella seconda Tavola, è omologo del divieto dell’idolatria nella prima. Non è un caso che molte volte i Profeti di Israele si servono dell’immagine della donna adultera per descrivere il “tradimento” operato dal popolo d’Israele che ha abbandonato il Suo D. per seguire divinità aliene. Il rapporto con D. è concepito come un rapporto coniugale, di fedeltà esclusiva. Ne sono testimonianza il terzo capitolo di Geremia e di Osea. Ma se, come vedremo, la moglie adultera non può più essere ripresa dal marito, D. è disposto a riavviare il rapporto con Israele in qualsiasi momento purché ci sia Teshuvah. E’ però anche vero il processo inverso. L’adulterio è veicolo di idolatria, con tutte le tragiche conseguenze del caso. Quando i Moabiti vogliono stornare da sè il pericolo della conquista israelitica, mettono a disposizione degli Ebrei nel deserto le loro donne, le quali li attraggono al culto orgiastico del Ba’al Pe’or o, nell’accezione popolare italiana, il Belfagor (Num. 25, 1 sgg.). Simbolo di spregiudicata dissolutezza e quindi di dissoluzione.
La santità della famiglia ebraica.
Su questo punto la tradizione ebraica parla chiaro fin dai primordi. Il divieto dell’adulterio non nasce con i Dieci Comandamenti, ma è già implicito nella creazione della prima famiglia umana: “Perciò l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà con sua moglie” (Gen. 2, 24). Commenta il Talmud: “ma non con la moglie di un altro” (Sanhedrin 58a). La purezza e l’onore della famiglia costituita dall’unione uomo-donna sono la base di una società forte e stabile. L’allentamento dei vincoli morali ne provoca invece la dissoluzione, contribuendo di fatto al crollo della civiltà. Per questo l’ideale ebraico è che tanto l’uomo che la donna abbiano un solo partner. Nel XII secolo Ibn Ezra spiegava che tre sono le ragioni per la concupiscenza di un uomo. Il suo desiderio di riprodursi, quello di soddisfare un bisogno fisiologico e l’istinto animale di conquistare e dominare una donna. I primi due motivi possono essere legittimi, il terzo no. Il suo commento contiene una velata polemica persino contro l’amor cortese in voga allora. La legge ebraica parte dal presupposto che solo la sessualità vissuta all’interno del matrimonio è conforme alla norma. Levitico 18 ci fornisce la lista più completa delle proibizioni sessuali, presentandole come comportamenti immorali degli antichi Egiziani e dei Cananei. Come è noto, queste regole sono state comunicate nel deserto e gli Ebrei furono avvertiti di non tornare ai costumi della terra dalla quale provenivano, nè di emulare quelli del paese di cui erano destinati a prendere possesso.
Al v. 20 è scritto: “Non avere relazioni carnali con la moglie del tuo prossimo, così da renderti impuro con essa”. Si ritorna sulla norma al cap. 20, v. 10, dove è scritto: “Se un uomo commette adulterio con la moglie del suo prossimo, saranno messi a morte tanto l’adultero che l’adultera”. Se dunque un uomo e la moglie di un altro vengono trovati colpevoli di adulterio, l’antico diritto biblico prevedeva la pena di morte[2]. Vi sono peraltro fin da antico forti limitazioni a questa legislazione. Anzitutto, la pena di morte (non più amministrata del tutto a partire dal I secolo) si applicava solo nel caso in cui entrambe le parti adultere erano adulte. Se in particolare la ragazza non aveva raggiunto l’età della pubertà quando il fatto era avvenuto, soltanto l’uomo era passibile di pena. Ma soprattutto si richiedeva in tutti i casi una duplice testimonianza oculare di flagranza del reato. Come in ogni processo capitale la pena di morte era effettivamente comminata solo nel caso in cui ambo le parti erano state preventivamente avvertite dai testimoni circa l’immoralità del loro comportamento e le sue conseguenze legali.
Se le parti non sono state avvertite in questo modo, la punizione è soltanto divina. Per l’adulterio viene peraltro comminata la gravissima pena del karèt (lett. “recisione dal popolo”). Essa consiste, secondo le varie interpretazioni o in una morte anticipata, o in una morte senza aver avuto figli, o nella perdita dei propri figli, ed è comminata dalla Torah per le 36 trasgressioni più gravi: fra esse l’infrazione del Sabato, del digiuno di Kippur, del divieto di mangiare cibi lievitati durante la Pasqua, di mangiare il sangue, non essersi sottoposti alla circoncisione. Quei precetti che sono ritenuti unanimemente fondanti dell’identità ebraica, tanto che alcuni ritengono che il concetto di “recisione” implicito in questa pena vada inteso proprio nel senso di recisione dai destini del popolo. Sotto questo profilo l’adulterio è simile all’incesto sia nel diritto biblico che post-biblico. Vi è però un’evidente differenza. Il divieto dell’incesto si applica indifferentemente all’uomo e alla donna: in altre parole, come ad un uomo non è consentito avere rapporti con sua madre, figlia o sorella, così ad una donna si proibisce di congiungersi con suo padre, figlio o fratello, in modo del tutto reciproco e parallelo. Nell’adulterio, invece, vi è una fondamentale differenza fra uomini e donne. La donna, sposandosi, diviene assurah le-khol adàm, “proibita a tutti” eccetto che a suo marito. Ma un uomo sposato non viene punito allo stesso modo se ha relazioni con un’altra donna che non sia sua moglie una volta che questa sia nubile, anche se questo comportamento è comunque riprovato, al punto che il Talmud proibisce ad un uomo di appartarsi con donne esterne alla sua famiglia (Qiddushin 80b-81b). La maggiore libertà, sia pure teorica, dell’uomo è messa in relazione con la più antica concessione alla poligamia, che è stata formalmente proibita circa mille anni fa da Rabbenu Ghereshom Meor ha-Golah[3].
Altra conseguenza dell’adulterio, una volta che ci fossero i due testimoni, è che la donna non avrebbe più potuto continuare nè la relazione con l’amante, nè la vita coniugale con il marito per cui le viene imposto il divorzio (Sotah 27b). E’ questo l’intento di Deuteronomio 24,1 dove è scritto che il marito può divorziare dalla moglie “qualora abbia trovato in lei qualcosa di immorale” (ki matzà vah ‘erwat davàr) nell’interpretazione della Mishnah (Ghittin 9, 10). La duplice sanzione avrebbe avuto come effetto l’emarginazione totale dell’adultera dalla società anche laddove l’esecuzione capitale non fosse stata comminata: è ben difficile immaginare che la donna avrebbe trovato un terzo uomo disposto a sposarla!
La Sotah
E’ peraltro vero che l’adulterio viene di solito perpetrato lontano da testimoni e in assenza di prove di fatto, benchè sospetti e chiacchiere non siano infrequenti in questi casi. L’antico diritto biblico non era insensibile alla minaccia che anche sospetti del genere potessero costituire per l’istituto famigliare, come fonte di potenziale violenza e quindi di rischio ai danni della moglie sospettata. La soluzione del problema era affidata ad un giudizio Divino cui questa donna era sottoposta per verificare la sua innocenza. E’ la prova della Sotah (la donna errante), descritta in Numeri cap. 5.
La Sotah era una donna che ha suscitato in suo marito sospetti di infedeltà. Egli l’aveva avvertita davanti a due testimoni di non incontrare in forma clandestina un certo uomo (qinnuy). Se la donna avesse ignorato l’avvertimento e si fosse incontrata con l’uomo segretamente (setirah), l’unico modo per scagionarsi sarebbe stato acconsentire di bere le “acque amare”. Ben inteso, nessuno avrebbe potuto costringerla; ma se si fosse rifiutata avrebbe dovuto accettare il divorzio dal marito senza aver diritto alla ketubbah, la “copertura economica” prevista di norma per lei in caso di scioglimento del matrimonio. Il rituale delle “acque amare” avveniva nel modo seguente. Dopo aver accertato che la moglie aveva ignorato il suo avvertimento, il marito la conduceva al tribunale locale, che prendeva atto delle accuse. Se il qinnuy e la setirah erano effettivamente avvenute, il tribunale faceva accompagnare i due coniugi a Gerusalemme: qui il caso sarebbe stato giudicato dal Gran Sinedrio, la più alta corte di giustizia costituita da 71 membri.
Il tribunale supremo di Gerusalemme esercitava pressioni affinché la donna confessasse. Ma se essa insisteva nella propria innocenza un Kohen le scompigliava gli abiti e la capigliatura, poi pronunciava per la donna uno scongiuro di esecrazione, come scritto nella Torah: “Il S. ti faccia divenire di maledizione in mezzo al tuo popolo; entri quest’acqua di esecrazione nelle tue viscere facendoti il S. cadere la coscia e gonfiare il ventre” (v. 21). La donna rispondeva con un doppio Amèn. Allora il Kohèn scriveva su un pezzo di pergamena il voto appena pronunciato, compreso il Nome di D. In un recipiente di terracotta veniva versata dell’acqua e mescolata con della terra presa sollevando una botola nel pavimento del Santuario. Il Kohèn metteva nell’acqua anche la pergamena finché se ne fosse cancellata la scrittura. La donna allora beveva la pozione così ottenuta, mentre il marito portava un’offerta farinacea d’orzo, priva di olio e spezie. Se le sue cosce fossero cadute e il suo ventre si fosse gonfiato sarebbe stato segno di colpevolezza; se nessun mutamento fisico si fosse verificato, sarebbe stata dichiarata innocente.
La cerimonia aveva una carica simbolica fortissima. Terra e acqua richiamano il racconto della Creazione, che la donna avrebbe profanato attraverso l’unione clandestina. Commenta ancora la Mishnah (Sotah 1,7): “A seconda di come la persona si comporta, così viene trattata. La Sotah si è agghindata per commettere una trasgressione, il S. l’ha disonorata; ella ha scoperto il proprio corpo per commettere una trasgressione, il S. ha ordinato di svestirla pubblicamente; ha iniziato la trasgressione con la coscia e successivamente con il ventre, perciò verrà colpita (dalle acque amare) prima alla coscia e poi al ventre. Le altre membra del corpo non si salveranno dalla punizione”. Infine, la scelta dell’orzo invece del frumento per l’offerta farinacea del marito era dovuta al fatto che l’orzo era considerato principalmente cibo per animali. Commentava R. Gamliel: “come le gesta di lei sono state gesta animali, così la sua offerta è costituita da cibo per animali” (2,1).
La cerimonia della Sotah presenta il carattere, unico nel suo genere nelle istituzioni ebraiche, d’essere un appello diretto al giudizio di D. Lo scopo che si proponeva il legislatore era duplice: 1) si trattava di impedire al marito di abbandonarsi ad atti di violenza contro la moglie, obbligandolo a presentare la sua causa al tribunale. Egli doveva calmarsi fin dal momento in cui la donna accettava la prova e non temeva di esporsi ad un terribile castigo, se essa avesse realmente mancato, 2) una messa in scena di quel genere era tale da far riflettere la donna, da ispirarle il proponimento di evitare perfino l’apparenza della leggerezza, per non irritare le suscettibilità dell’onore maritale e non esporsi alle critiche intransigenti dell’opinione pubblica[4]. “Infatti se la donna era pura e poteva rassicurare il marito sul suo conto -scrive il Maimonide (Guida, III)- la maggior parte dei mariti avrebbe dato tutto ciò che possedeva per risparmiarsi l’atto a cui la moglie doveva sottoporsi… Ispirando questo timore si sono evitate le gravi disgrazie capaci di turbare la pace di molte famiglie”. Sentenziarono i Maestri del Talmud che la Divinità stessa avrebbe tollerato di vedere il proprio Nome cancellato nell’acqua purché si ritrovasse la pace fra marito e moglie. Quanto agli effetti della pozione delle “acque amare” va ancora aggiunto che per ammissione dei Maestri essi dipendevano da molteplici fattori. Uno di questi era l’irreprensibilità del marito. Il Midrash intende il v. 31: “Il marito sarà immune da trasgressione e quella donna porterà la pena della sua colpa” nel senso che solo se il marito sarà stato effettivamente immune da trasgressione allora la donna subirà gli effetti della sua colpa, altrimenti le “acque amare” non avrebbero funzionato.
La discussione talmudica sul rituale della Sotah si trova in dettaglio nel trattato che porta questo nome, ma qui non v’è cenno alle presunte motivazioni che abbiamo ipotizzato. La ragione di ciò potrebbe essere che già ai tempi della Mishnah la prassi era stata sospesa e la discussione era puramente accademica. “Da quando i casi di adulterio si sono moltiplicati, cessarono (di applicare la procedura del)le “acque amare” e fu R. Yochanan ben Zakkay ad interromperle, come è detto: Non punirò le vostre figlie se si prostituiranno, nè le vostre nuore se commetteranno adulterio, giacché esse non fanno che unirsi alle altre prostitute e partecipare alle orge con le altre meretrici; e il popolo inciampa senza rendersene conto (Hos. 4,14)” (9,9). R. Yochanan ben Zakkay visse all’epoca della Distruzione del II Tempio (70 E.V.) e fondò la scuola di Yavne dopo la conquista romana di Gerusalemme. Più che una data precisa, il termine temporale va visto piuttosto come parte di un genere, nella letteratura talmudica, per segnalare cambiamenti fondamentali nella società e nell’etica attribuendoli alla distruzione del Tempio.
Il mamzer e la ‘agunah.
Un’altra conseguenza giuridica che mette sullo stesso piano l’adulterio e l’incesto riguarda non più i protagonisti della trasgressione, ma la nuova generazione che ne deriva. A fronte della ottusità derivante dalla passione e dall’attrazione romantica –scrive un Rabbino americano contemporaneo[5]– talvolta per proteggere la Legge e la dignità personale la biologia è più forte della moralità. Ecco dunque che il figlio di un’unione che la Torah proibisce con la pena Divina del karèt è un mamzer (questa definizione non si applica, per inciso, a qualsiasi figlio nato fuori dal matrimonio!). Il mamzer (vocabolo spiegato come una crasi di mum zar (=”difetto estraneo”) o me-‘am zar (=”da discendenza estranea”) non può sposarsi altro che con un’altra mamzeret (o con una proselita) per tutte le generazioni (Deut. 23,3). Sebbene questa soltanto sia la sanzione per un mamzer secondo il diritto ebraico, e per il resto egli può occupare incarichi pubblici e persino diventare il re d’Israele, se ne comprende immediatamente la gravità. I Rabbini di ogni generazione hanno compiuto sforzi estremi per evitare di attribuire questa qualifica a chicchessia, ma la minaccia dovrebbe costituire un deterrente sufficiente contro l’adulterio.
Già abbiamo detto che la Torah autorizza il divorzio e che l’adulterio è una ragione sufficiente addirittura per prescriverlo. D’altronde, per lo stesso motivo una donna non può iniziare una nuova vita matrimoniale se il precedente matrimonio non è stato sciolto tramite un regolare atto formale di divorzio religioso, un documento (ghet) nel quale le si dichiara: “da ora sei libera di risposarti con qualsiasi uomo”. La santità della famiglia ebraica va preservata anche nel passaggio a matrimoni successivi. Questo è uno dei motivi per cui le regole sulla procedura stessa del divorzio sono così severe, nell’intento di creare una rottura definitiva della prima unione, che non comporti alcun tipo di strascico che possa pregiudicare un nuovo vincolo nuziale. Senza un divorzio regolarmente eseguito secondo la Halakhah, per la Legge ebraica il primo matrimonio è ancora effettivo fino alla morte di uno dei coniugi. Questa regola può avere conseguenze gravi nel caso della ‘agunah. Si chiama ‘agunah (=”ancorata”; cfr. Rut 1,13 dove il termine è adoperato con un senso più generico) quella donna che non ha più di fatto una vita matrimoniale ma, non potendolo dimostrare giuridicamente, non è in grado di risposarsi. Ciò avviene principalmente per quattro ragioni: 1) il marito, ancora in vita, l’ha abbandonata ed è scomparso; 2) il marito è presumibilmente deceduto in circostanze misteriose che nessuno è in grado di provare; 3) il marito perseguita la moglie rifiutandosi di darle il divorzio; 4) il marito esiste ma non è in grado di intendere e di volere, condizione necessaria perché il divorzio sia compiuto. Il problema può essere qui solo accennato[6]. E’ materia di giurisprudenza rabbinica da secoli e riguarda doppiamente il nostro argomento per la sua complessità. Da un lato i Rabbini sono preoccupati di non creare le condizioni per un adulterio legalizzato qualora si sciolga troppo sbrigativamente il vincolo matrimoniale in atto; dall’altro si cerca di non frapporre troppi ostacoli, anzitutto per sollevare la donna dalla tragica condizione in cui viene a trovarsi; ma anche per evitare l’incresciosa eventualità di una soluzione “fai da te” per cui la donna potrebbe di fatto proprio commettere adulterio sotto l’esigenza di rifarsi una vita.
Esempi biblici.
Fin qui il diritto, o Halakhah. Esistono nella Bibbia Ebraica degli exempla che illustrino il significato etico del divieto dell’adulterio, o più in generale della continenza sessuale? I monarchi orientali avevano l’abitudine di requisire le mogli altrui e sopprimerne i mariti. Alla corte del Faraone Abramo presentò Sara come sua sorella per aver salva la vita. L’adulterio fu miracolosamente evitato per un intervento divino e l’attenzione si concentrò tutta sulla menzogna. Nachmanide afferma che per questa ragione i discendenti di Abramo sarebbero stati un giorno schiavi in Egitto (Gen. 12, 10). Negativo è pure l’esempio del re David e Batsheva’. I libri della Bibbia Ebraica non sono testi agiografici. I grandi personaggi dell’antico Israele vi si riflettono come esseri umani con tutti i loro pregi e talvolta con i loro difetti, discutibili per definizione. Come si racconta in 2Sam. 11, durante la guerra contro gli Ammoniti David vide Bat Sheva’ mentre si faceva il bagno e ordinò che gli fosse portata a palazzo. Essa era la moglie di Uriah l’Ittita, uno dei suoi guerrieri impegnati sul fronte. Quando seppe che la donna era rimasta incinta dapprima il re tentò di far rientrare Uriah a casa sua ma, non essendoci riuscito per la lealtà del guerriero, trovò allora un pretesto perché fosse mandato a combattere in prima linea e così fu ucciso. Il profeta Natan rimproverò aspramente David, che in quell’occasione compose il Miserere. Bat Sheva’ fu la madre di Salomone. La tradizione rabbinica tentò di giustificare il re in vari modi. Secondo un passo del Talmud non ci fu adulterio perché l’uso voleva che i soldati prima di partire per la guerra consegnassero alle rispettive mogli un ghet che divenisse valido in caso di non ritorno, per evitare che le donne cadessero nel problema della ‘agunah. E Uriah cadde in battaglia (Ketubbot 9b).
Nella liturgia ebraica del Sabato mattina ricorrono le parole be-fì yesharim titromàm (“per bocca dei retti sarai esaltato”). La tre lettere bet-peh-yod che compongono la parola be-fì (“per bocca di…”) sono viste, secondo un’interpretazione, come le iniziali di altrettanti nomi della storia biblica che si distinsero per aver trattenuto il proprio istinto in situazioni in cui il comportamento opposto avrebbe comportato una trasgressione e in almeno due casi su tre l’adulterio. La bet sta per Bo’az e il riferimento è all’episodio raccontato in Rut 3. Naomi convince la nuora a raggiungere il potenziale sposo nottetempo sull’aia dove era impegnato nei lavori agricoli. “Bo’az mangiò, bevve allegramente, poi andò a coricarsi in fondo al mucchio dell’orzo. Rut venne pian piano, scoprì i suoi piedi e si coricò a sua volta. Verso mezzanotte l’uomo ebbe un brivido, e si rivoltò guardando: ecco che una donna giaceva ai suoi piedi” (v. 7-8). Il Midrash spiega che Bo’az non si approfittò di lei, bensì attese di averla regolarmente sposata.
La peh è l’iniziale di Paltì, o Paltiel figlio di Layish. Michal, figlia del re Saul era stata data dal padre in moglie al re David in un primo tempo ma successivamente, in preda alla gelosia, Saul gliel’aveva tolta per darla a Palti (1Sam. 25,44). Dopo la morte di Saul Abner, irritato dal figlio di questi Ish-Boshet, propose segretamente a David la propria alleanza per dargli in potere tutto Israele. David acconsentì a patto di riavere in moglie l’amata Michal. “Ish-Boshet andò a prenderla dalla casa del marito Paltiel figlio di Layish. Il marito andò con lei e l’accompagnò piangendo fino a Bachurim. Poi Abner gli disse: Torna indietro”. Ed egli se ne ritornò” (2Sam. 3, 15-16). La Torah proibisce ad un uomo di rimanere sposato con una donna dopo che questa ha avuto rapporti con un altro uomo (Deut. 24,4). Come avrebbe potuto dunque David riprendersi Michal in moglie dopo che era stata sposata con Paltiel? Prima ancora di ciò, con che diritto Saul l’aveva sottratta a David con cui era regolarmente sposata per darla a Paltiel? Secondo il Talmud Palti “aveva messo una spada fra sè e Michal dicendo: chiunque dei due vorrà avere rapporti sarà trafitto da questa spada” (Sanhedrin 19a). E per quale ragione pianse nell’accompagnare Michal indietro quando David la richiese per sè, dal momento che non l’aveva mai trattata come sua moglie? Il giusto pianse in quel momento consapevole di perdere l’opportunità di resistere alla tentazione.
La yod è l’iniziale di Yossef-Giuseppe, il caso più antico, più famoso e forse più significativo. Qui le cose andarono in parte diversamente: sedotto dalla moglie di Potifar Giuseppe “abbandonò il vestito nella mano di lei, fuggì e uscì fuori” (Gen. 39,12). Giuseppe ci insegna qui una lezione importante. Nella liturgia cristiana si recitano le parole: “e non indurci in tentazione”, che sono in realtà la traduzione dell’espressione tratta dalla liturgia ebraica del mattino: we-al teviènu lidè nissayòn. Nella visione dei Maestri d’Israele è comunque preferibile fuggire ad una tentazione del tutto piuttosto che affrontarla per combatterla. Per estensione è quindi meglio evitare una cattiva compagnia piuttosto che mescolarsi con essa e poi resistere alla sua cattiva influenza. Come aveva fatto Yossef a vincere il proprio istinto? Il Midrash racconta che in quel momento gli apparve davanti agli occhi l’immagine di suo padre che gli disse: “Giuseppe, i nomi dei tuoi fratelli saranno incisi sull’abito del Gran Sacerdote e il tuo nome deve figurare fra essi. Vuoi che il tuo nome venga cancellato perché sarai chiamato cortigiano delle prostitute?” (Tos. a Sotah 36b).
Nessuna definizione -scrive il rabbino francese Elie Munk nel suo Commento alla Torah- potrebbe meglio di questo Midrash esprimere l’obiettivo supremo dell’educazione ebraica. La visione paterna giunse al giovane figlio (aveva 17 anni!) nel medesimo istante in cui la sua volontà stava per cedere. La donna credeva ormai di averlo in pugno. Ma proprio allora la visione improvvisa gli diede la forza di dominarsi, di trionfare su quell’attimo di debolezza e di vincere la sua natura sovreccitata dai lunghi mesi di eroica resistenza. Un’educazione in cui l’influenza paterna è in grado di guidare un figlio ormai geograficamente lontano dal focolare famigliare e assorbito dall’ambiente frivolo di un paese lontano realizza pienamente l’ideale di educazione ebraica”[7].
“L’uomo è certamente consapevole di avere molte necessità –scrive ancora Rav Soloveitchik, uno dei più grandi Maestri dell’ebraismo americano del secondo Novecento- ma le necessità di cui è consapevole non sono sempre le sue. All’origine della propria incapacità di riconoscere quali sono le necessità veramente degne di valore sta la capacità dell’uomo di fraintendere e stravolgere se stesso, ovvero perdersi. Molto spesso l’uomo si perde identificando se stesso nell’immagine sbagliata. E per via di questo errore di identificazione egli finisce per adottare la lista sbagliata delle necessità che sente di dover soddisfare. L’uomo risponde in fretta alla pressione di certe necessità senza sapere di chi veramente sono le necessità che intende gratificare. La trasgressione nasce a questo punto. Qual è la causa della trasgressione, se non la diabolica abitudine dell’uomo di sbagliarsi riguardo a se stesso?”[8]
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