La sposa promessa. Non capita ogni giorno di potere scrivere il commento halakhico ad un film; o più esattamente, di riuscire a cogliere il pretesto di una pellicola per fare halakhah.
Alberto M. Somekh
Molti ricorderanno certamente alcuni anni fa Un’estranea fra noi: in quel caso l’esile trama di un giallo forniva a sua volta il pretesto per un documentario sulla vita dei haredim di Brooklyn. Peraltro, il film culminava con la scena di un omicidio che poteva essere giustificato soltanto ricorrendo alla regola ebraica del rodèf (persecutore): la Halakhah permette infatti di togliere di mezzo chi attenta alla vita altrui anche a prezzo della sua stessa vita se non vi sono altri modi per farlo.
E’ programmato nelle sale in queste settimane un altro documentario del genere, girato non in America, bensì fra i haredim di Benè Beràq in Israele. Non di giallo si tratta, ma di una vicenda matrimoniale riassumibile in poche parole. Una donna muore di parto e la giovane sorella di lei viene convinta dai genitori a sposare il cognato vedovo per evitare che questi con il bambino lasci l’alveo famigliare. Il titolo dell’edizione italiana La sposa promessa è blando e fuorviante, perché la ragazza non è affatto promessa, almeno all’inizio. Molto più efficace il titolo ebraico originale del film, Lemallè et he-chalàl. L’espressione significa letteralmente “riempire il vuoto”, ma contiene un gioco di parole allusivo dell’altra accezione che il termine chalàl ha in ebraico biblico (Bemidbar 19, 16.18), in base alla quale la frase andrebbe più opportunamente tradotta: “rimpiazzare la salma”.
I temi halakhici che fanno da sfondo a una trama trattata con grande garbo sono sostanzialmente due: uno se vogliamo più contingente, l’altro di principio. E’ scritto nella Torah: “Non prenderai in moglie una donna oltre a sua sorella per non creare rivalità, per scoprirne la nudità mentre l’altra è ancora in vita” (Vaikrà 18,18). La Halakhah deriva da questo versetto la proibizione a un uomo di sposare contemporaneamente o successivamente due sorelle, sebbene abbia nel frattempo divorziato dalla prima fintanto che questa è ancora in vita (Rashì). I commentatori si soffermano soprattutto sul verbo litzròr (“creare rivalità”). Da questo deriva il termine tzarah con cui già nel Tanakh (1Shemuel 1,6) veniva identificata nel regime poligamico più antico l’altra moglie dello stesso marito: un vocabolo omofono del più comune tzarah, “disgrazia”.
Scrive il Sefer ha-Chinnukh a proposito del nostro divieto che “il Signore della pace vuole la pace di tutte le Sue creature, tanto più di quelle creature per cui la natura e la ragione esigono che vi sia pace fra loro, e non liti e competizioni tutto il giorno”. La Torah è preoccupata dell’armonia fra gli esseri umani al punto di proibire ogni commistione fra due relazioni di parentela di natura differente fra loro: quella derivante dal matrimonio e quella basata sulla consanguineità. Il nostro divieto è messo sullo stesso piano dell’incesto e punibile con la gravissima pena divina del karèt. Ma lo stesso divieto si dissipa completamente se prima dell’unione dell’uomo con la seconda sorella la prima è morta: in tal caso viene meno ogni timore di dissidio. Fin qui gli aspetti etico-legali: nel film la questione è opportunamente oggetto di una sheelah (“quesito rituale”) inoltrata al rabbino. Peraltro, sul piano strettamente psicologico, la situazione non fa che aggiungere tragedia alla tragedia.
Al dramma della perdita prematura di una persona cara, sia per il marito che per la sorella, si aggiunge quello della consapevolezza di costituire l’eccezione a una regola fondante della Torah e del popolo d’Israele. Sul problema contingente di accettare questa condizione, dicevamo, se ne instaura uno di principio non meno grave. La fonte è sempre nel libro di Vaykrà, ma nei primissimi versetti questa volta, dove si tratta delle regole del sacrificio. La Torah dice in proposito: “Se la sua offerta è un olocausto preso dai bovini, offrirà un maschio senza imperfezioni e lo dovrà offrire alla porta del convegno, dinanzi all’Eterno, di sua volontà” (1,3). Commenta Rashì: “Se è scritto ‘lo dovrà offrire’, ci insegna che lo si obbliga. E’ tuttavia possibile che ciò avvenga suo malgrado? No, perché è anche scritto ‘di sua volontà’. Come si fa? Kofin otò ‘ad she-omèr rotzeh anì, lo si obbliga finché dice: sono io a volerlo!” (cfr. Talmud Rosh ha-Shanah 6a e Yevamot 106a). Il Maimonide stabilisce la halakhah di conseguenza: “Sebbene sia scritto “di sua volontà” lo si obbliga (a portare il sacrificio) finchè dice: sono io a volerlo” (Hil. Ma’asseh ha-qorbanòt, 14,16). Nel pensiero ebraico il rapporto fra obbligo e volontà è un tema troppo complesso per essere esaurito qui. Ma l’idea secondo cui l’animale sacrificato nei tempi antichi era solo uno strumento di espiazione e che tocca in realtà all’essere umano guidare le proprie scelte è sempre presente alla mentalità ebraica.
Se oggi siamo ancora qui a parlarne è per merito di tutti coloro che nei secoli si sono sforzati di far coincidere la propria personale volontà con la Volontà superiore per eccellenza, affinché non si uscisse dall’alveo famigliare del nostro popolo. Del resto la nostra esperienza storica lo insegna: la vita, e quella ebraica in particolare, è una successione repentina di momenti di gioia e di dolore. Il chiaroscuro del film lo rende bene: fin dalle prime sequenze vediamo la scena spensierata di una Se’udat Purim alla corte del rabbino che contemporaneamente consegna Mattanot la-Evyonim a uno stuolo di postulanti in miseria. Il canto delle Zemirot di Shabbat fa da sfondo alle frenetiche trattative per lo shidduch, che di Shabbat sono appunto consentite perché parte di una mitzvah. Istruttiva infine la scena del Nichum Avelim, seguita da quella del Brit Milah subito dopo il termine della Shiv’ah di lutto. La donna è morta di parto ed è possibile che i due momenti si siano susseguiti nell’arco della stessa giornata essendo morte e nascita ahimè coincise nel tempo. Metafora della vita ebraica.
Quanto può aver colto di tutto ciò il pubblico non ebraico che pur gremiva la sala? I commenti della gente in uscita mi hanno attirato non meno della visione del film. Alcuni ritenevano che lo svolgimento fosse troppo lento e forse non avevano tutti i torti. Altri esprimevano interesse e stupore per una cultura a loro sconosciuta. Ma non sono neppure sfuggite osservazioni come la seguente: “Questi ebrei cantano e ballano tutto il tempo. Lavorano mai?”.
Pagine Ebraiche, gennaio 2013