Una breve nota femminile su un cambiamento per nulla scontato
Donatella Di Cesare
Non è un segreto che i riformati cerchino di cavalcare il disagio che le donne avvertono negli ultimi anni. Nel loro spirito illuministico, nella loro euforia riformatrice, credono e fanno credere che si tratti di cambiare qui e là i testi, modificare mitzvòt, introdurre magari un nuovo minhag, per risolvere la «questione femminile».
Perché mai pregare, ad esempio, sedute accanto agli uomini sarebbe preferibile? In che cosa ne verrebbe aumentata l’autostima? E se invece stare accanto ad altre donne, nei matronei, non significasse assaporare qualche ora di suggestiva intimità? Stare tra le donne non equivale ad essere relegate o emarginate. Vuol dire semmai vedere la realtà dalla prospettiva diversa da quella maschile, che non è l’unica.
Fuori dall’alternativa tra protagoniste e comparse, quello che le donne desiderano è di poter partecipare, cioè essere coinvolte e coinvolgere a loro volta. Anzitutto nello studio. Senza perdere tuttavia la propria angolazione, senza abbandonare il proprio posto. La tradizione ebraica, che insegna la differenza delle donne, è perciò in questo senso una enorme risorsa. D’altronde negli Stati Uniti, in Israele, ma anche in molti paesi europei, le comunità che si definiscono ortodosse chiedono alle donne un’intensa partecipazione.
Questo dovrebbe valere anche in Italia dove grande è il disorientamento nel mondo femminile. Che dei suggerimenti non vengano proprio dal mondo ebraico? Lo speriamo. D’altronde, in tante comunità, le donne hanno dimostrato di avere idee, iniziative e desiderio di impegnarsi.