Un capitolo della nuova Haggadà di Pèsach con traduzione, note e commento a cura di rav A. Somekh
Alberto M. Somekh
Perché il S.B. non ha scelto un modo più pacifico per liberare gli Ebrei dall’Egitto? Forse che non avrebbe trovato la forza di convincere il Faraone a lasciarci andare? R. Eli’èzer Ashkenazì “contesta” l’assunto del Talmùd (Nedarìm 32a) e di altri commentatori (Nachmanide) secondo cui la discesa degli Ebrei in Egitto era stata la punizione per trasgressioni commesse da Avrahàm Avìnu. Esistono infatti altri passi nel Midràsh dai quali emerge che la Discesa in Egitto era già stata decisa da Dio in precedenza: quando Avrahàm era sceso in Egitto per la carestia il S.B. gli aveva già detto: «Tzè ukhvòsh et hadèrekh lifnè vanèkha – Va’ e spiana la via ai tuoi figli», (Bereshìt Rabbà 40, 6). Secondo un altro Midràsh (ibid. 5, 5) la rottura del Mar Rosso era già stata pattuita da Dio ai sei giorni della Creazione. Scopo dell’Esodo era lefarsèm Elohutò – rendere nota la forza della Divinità al mondo.
Per questo il Magghìd dice: “Se il S.B. non ci avesse tratti di là con mano forte e braccio disteso, ma convincendo gli Egiziani a rilasciarci, ancora noi e i nostri figli saremmo asserviti agli Egiziani” e saremmo loro debitori di eterna gratitudine per averci liberato. L’opposizione ’avadìm (sul piano fisico) / meshu’bbadìm (sul piano spirituale) ritorna alla fine del Magghìd nel brano Lefikhàkh: hotziànu me’avdùt lecherùt umishi’bbùd ligheullà. Per questo motivo si aggiunge “Che anche se fossimo già tutti dotti siamo tenuti a rinnovare ogni anno il racconto dell’uscita dall’Egitto”: la ripetizione non ha solo scopo didattico. Inoltre, ciò spiega la contraddizione fra il fatto che “È mitzvà per noi rinarrare l’Uscita dall’Egitto” e “Chiunque racconti l’uscita dall’Egitto è degno di lode”, espressione in genere adoperata per un atto meritorio, ma facoltativo. La frase va in realtà intesa nel senso che questo racconto è una lode per noi che abbiamo meritato l’Esodo in questa forma. «Se infatti il S.B. li avesse liberati per volontà del Faraone e dell’Egitto, non ci sarebbe stato motivo di lode, in quanto se l’uomo è stato schiavo e successivamente è stato liberato dal padrone di sua volontà, non rappresenta questo motivo di lode per lui, ma semmai di biasimo».
“Vehì she’amedà – È stata la divina promessa ad assistere i nostri padri e noi perché non uno solo, bensì in ogni generazione si levano contro di noi per ucciderci, ma il S.B. ci salva dalle loro mani”. Che promessa è questa – domanda r. Eli’èzer Ashkenazì –, per cui “in ogni generazione si levano contro di noi per ucciderci”? Se non fosse stato per le continue persecuzioni nell’arco della Storia il senso profondo dell’Esodo sarebbe stato dimenticato fra le nazioni del mondo. Viceversa il fatto che ogni volta “Il S.B. ci salva dalle loro mani” rinnova di generazione in generazione il ricordo dell’Esodo, la notorietà della forza divina, della Sua azione nel mondo e del Suo amore per noi. Esiste quindi una responsabilità che incombe sulle generazioni successive. Anche qui c’è un capovolgimento. L’Esodo non è semplicemente il prototipo di tante persecuzioni posteriori per le quali fornisce un elemento consolatorio ad un popolo continuamente afflitto, ma proprio le persecuzioni successive servono ad eternare il messaggio della prima, la schiavitù d’Egitto e la successiva liberazione. «Il Magghìd menziona la salvezza dai nemici e non la loro uccisione, perché il Suo amore per noi non diverrebbe manifesto qualora uccidesse chi si leva contro di noi: in tal caso, infatti, si potrebbe affermare che Dio agisce in odio dei nemici e non per amor nostro…». Per questo si dice nella prima berakhà della ’Amidà: «E porti il redentore ai figli dei loro figli per il Suo nome con amore, re che aiuti, salvi e difendi». L’amore si manifesta nella difesa.
Già in Shemòt 12, 15 troviamo l’obbligo di mangiare la matzà, prima dell’Uscita dall’Egitto e prima che gli Ebrei si avvedessero di non aver il tempo per far lievitare il pane destinato al viaggio: il comandamento della matzà era dunque già stato dato prima dell’evento storico che lo avrebbe motivato. Così scrive Abravanèl nel suo commento alla Haggadà, ma a ben vedere l’osservazione è già implicita nei commentatori medioevali a Shemòt 13, 8: «Ba’avùr ze ’asà Ado-nài li betzetì mimitzràyim – Per questo scopo l’Eterno mi ha fatto – tutto ciò – allorché uscii dall’Egitto». Rashì commenta: «Affinché osservassi le Sue mitzvòt, come pèsach, matzà e maròr». Ancora più diffuso Ibn Ezrà: «Ci saremmo aspettati l’affermazione inversa: osservo queste mitzvòt per quello che l’Eterno fece per me all’Uscita dall’Egitto. Ma invece è il contrario. Affinché compissimo questo servizio divino che consiste nel mangiare la matzà e nell’astenersi dal chamètz e che è il principio delle mitzvòt che il S.B. ci ha comandato. Dio ci ha fatto tutti i miracoli con cui ci ha portato alla liberazione dall’Egitto. Egli ci ha tratto dall’Egitto perché lo servissimo, come è scritto: “Quando farai uscire il popolo dall’Egitto servirete l’Eterno su questo monte”, e ancora: “Vi ho tratto fuori dalla terra d’Egitto per essere il Vostro Dio”» Sono le mitzvòt la causa dell’Esodo e non l’Esodo la causa delle mitzvòt. Non le mitzvòt al servizio della Storia, ma la Storia al servizio delle mitzvòt (cfr. anche Resp. ’Assè Lekhà Rav 5, 14).
«Il vantaggio per cui è stata voluta l’Uscita dall’Egitto – scrive r. Eli’èzer Ashkenazì – ci tocca in ogni generazione, perciò “Bekhòl dor vadòr chayàv adàm lir’ot et ’atzmò keìllu hu yatzà mimitzràyim – In ogni generazione ciascuno ha il dovere di considerare se stesso come se personalmente fosse uscito dall’Egitto”. Dal momento che secondo la Torà la matzà e il maròr che noi osserviamo in ogni generazione sono la ragione dell’Uscita dall’Egitto, quando la matzà e il maròr sono disposti davanti a lui è il momento di realizzare lo scopo stesso dell’Uscita dall’Egitto: lefarsèm Elohutò di generazione in generazione per tramite nostro».
«E il Magghìd non dice “Besha’à shematzà umaròr munnachìm lefanàv – Racconterai a tuo figlio nel momento in cui la matzà e il maròr saranno disposti davanti a lui”), cioè davanti al figlio, perché questo figlio (che non sa fare domande) non è detto che si accorga della novità rappresentata dalla matzà e dal maròr, bensì dice che dovrai fare il racconto quando Matzà umaròr munnachìm lefanèkha: “davanti a te”, cioè al padre». Non ci si aspetti che i nostri figli seguano le tradizioni senza un adeguato impegno dei genitori. L’esempio personale è il primo segreto di ogni buon educatore.
Haggadà di Pèsach commentata da rav Somekh, 212 pp
Morashà, Milano 2012
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