Dalla derashà di Yom Kippur 5772 tenuta al Tempio del Centro Culturale della Comunità ebraica di Roma (presso la sede degli Asili)
Pochi giorni prima di Kippur ho assistito in diretta televisiva all’annuncio della sentenza del processo d’appello per il delitto di Perugia, in cui quattro anni fa fu crudelmente uccisa la ragazza inglese Meredith Kercher. Sentendo che i due imputati erano assolti, ho provato un tale senso di disagio emotivo che quella notte non ho potuto dormire. Mi risuonavano continuamente le parole del pubblico ministero: “Da oggi due assassini in libertà”. I giudici evidentemente hanno giudicato sulla base delle prove esistenti e se queste non erano sufficienti per condannare, non c’era scelta – in uno stato di diritto – se non assolvere. Però, la verità processuale non sempre coincide con la realtà e quelle parole del PM non mi lasciavano in pace. Mi è venuto da pensare che una sensazione simile probabilmente provò a suo tempo il profeta Giona, quando, mandato per annunciare la punizione divina sulla città di Ninive, finì per assistere, con suo grande sconforto, all’assoluzione generale di tutta la popolazione.
La storia di Giona (Yonà), nelle sue linee generali, è nota, giacché la leggiamo tutti gli anni nel pomeriggio di Kippur. Ma molti dettagli sfuggono a una lettura frettolosa, soprattutto se in condizioni di ipoglicemia. Ed è un peccato, perché essa è “una piccola grande perla che brilla nella corona d’oro degli scritti sacri”, come scrive Josef Klausner (Ha-neviym, Gerusalemme 1954). La frase di Klausner, che è lo zio di Amos Oz e protagonista di buona parte del libro “Una storia di amore e di tenebra”, è citata in Augusto Segre, Jonà, il libro del pentimento (in “La Rassegna Mensile di Israel”, XLI, n. 9-10, sett.-ott. 1975, pp. 389-407; consiglio di leggere interamente questo bell’articolo di A. Segre).
Il racconto biblico si trova fra i “Dodici Profeti”, o Profeti minori, e un breve cenno a Giona sta anche in 2 Re 14:25. La storia è ambientata durante il regno di Geroboamo II nel VIII secolo a.e.v. A quell’epoca Ninive era la capitale dell’Assiria, corrispondente all’odierno Iraq, sulla riva orientale del Tigri di fronte a Mossul. L’Assiria non era ancora una grande potenza, ma lo sarebbe presto diventata sotto il dominio di Sancheriv (704-681). Fu questo re che avrebbe provocato l’esilio delle Dieci Tribù del Regno d’Israele del Nord e anche l’assedio di Gerusalemme (l’assedio si risolse poi in nulla di fatto; vedi 2 Re, capp. 17-19; Isaia capp. 36-37; 2 Cronache 32:1-23). Il clamore della malvagità della popolazione di Ninive, ci dice il libro di Giona, era giunto fino a D-o che aveva deciso di punirla. Prima di far ciò, D-o mandò Giona per annunciare l’imminente distruzione della città. Il testo ci racconta che Giona, però, fuggì da davanti a D-o e invece di recarsi a Ninive andò dalla parte opposta, imbarcandosi su una nave in partenza da Giaffa e diretta verso Tarshish, che alcuni identificano con una città della Spagna o della Sardegna. Ma la nave venne subito investita da una furiosa tempesta.
Saltiamo per il momento il noto episodio della balena, su cui torneremo, e chiediamoci perché Giona fugge. Il racconto ce lo svela solo verso la fine. Quando Giona finalmente arriva a Ninive e annuncia la punizione divina, tutti quanti digiunano, si vestono di sacco e si pentono dei loro comportamenti malvagi e violenti. Tutti lo fanno, dal re fino alla popolazione intera e persino gli animali. D-o quindi perdona la città di Ninive e Giona rimane profondamente irritato da tale decisione divina. Per questo, sapendo che D-o è pronto al perdono e alla misericordia, Giona ci dice che era fuggito. Ma lo scopo della fuga non è chiaro. Era per non diventare lo strumento della misericordia divina? O forse pensava che senza di lui l’annuncio non sarebbe stato portato alla città? Più probabilmente, Giona sa che rifiutandosi di eseguire l’ordine divino e imbarcandosi nella nave andrà incontro alla morte. Morire è esattamente quello che egli vuole. Ce lo dimostra il seguito del racconto, dopo il perdono divino concesso alla città di Ninive, quando Giona così dice: “Ora, dunque, o Signore, prendi, ti prego, la mia vita da me, giacché preferisco la morte alla vita!” (cap. 4:3). Giona ribadisce questo concetto poco dopo per ben due volte, ai versi 8 e 9, quando si secca il ricino che gli aveva dato momentaneamente ombra e sollievo. Che si preferisca morire per una cosa di poco conto come un ricino che si secca può sembrare assurdo; i cinefili, appassionati di Woody Allen, possono trovare un caso analogo all’inizio del film “Basta che funzioni”, nello straordinario incipit in cui il protagonista afferma che suo padre si tolse la vita perché la lettura dei giornali del mattino lo deprimevano.
Nell’antichità era cognizione comune che un comportamento colpevole fosse considerato punibile con una tempesta. Così scrive E. Bickerman:
“Secondo la concezione degli antichi, la nave che viene colpita da una violenta tempesta deve trasportare un nemico degli dèi. Nell’Atene del V secolo, Antifonte, un contemporaneo di Socrate, poté sostenere di fronte al tribunale popolare che il suo cliente, imputato di omicidio, doveva essere innocente dal momento che la nave sulla quale aveva viaggiato era arrivata a destinazione senza incidenti. Una volta che Diagora, soprannominato l’ ‘ateo’, fece un viaggio per mare, scoppiò un fortunale; ma il filosofo, indicando altre navi in difficoltà, chiese se Diagora per caso si trovasse anche su quelle navi. Per parare un simile argomento ironico, Teodoro di Mopsuestia, un erudito esegeta cristiano del IV secolo, assicurò i suoi lettori che in quel caso la tempesta aveva colpito soltanto la nave che trasportava Giona” (Elias J. Bickerman, Quattro libri stravaganti della Bibbia, Patron, Bologna 1979, pp. 19-64 e in part. p. 29).
Torniamo ora al racconto biblico. Quando i marinai si vedono in pericolo, convinti che la tempesta sia un segno della Divinità, pregano ognuno – senza successo – il proprio dio, oltre che gettare a mare il carico per alleggerire la nave (è interessante che prima pregano, poi gettano a mare il carico). L’unico che non prega è proprio Giona, che scende nella stiva e si addormenta. Il capitano gli si avvicina e lo invita a pregare anche lui, affinché tutti si possano salvare. Il testo non ci dice se Giona, in effetti, preghi: forse lo fa o forse fa solo finta. In ogni caso, la tempesta continua e i marinai decidono di tirare a sorte per identificare il responsabile della sciagura (che ci sia un colpevole, non è in dubbio). La sorte cade ovviamente su Giona. I marinai cercano subito di capire da Giona stesso cosa abbia mai fatto di così grave da provocare una tale disgrazia e gli chiedono: “Che lavoro fai e da dove vieni, qual è la tua terra e di quale popolo fai parte?” (cap. 1:8). E’ interessante notare che l’appartenenza etnica è l’ultima delle domande dei marinai. La risposta di Giona non è per nulla evasiva: “Sono ebreo e temo il Signore D-o del cielo che creò il mare e la terraferma”. Giona dice anche loro che sta fuggendo dal cospetto del Signore (1:9-10).
Individuato a questo punto il responsabile della bufera, ci aspetteremmo che i marinai gettino Giona a mare. Non è così. Loro stessi chiedono a Giona cosa fare e lui dice appunto di gettarlo a mare perché sa di essere in colpa, ma i marinai si rifiutano! Qui vediamo chiaramente che le intenzioni di Giona sono di morire annegato. I marinai però non vogliono rendersi responsabili di un omicidio, se pur giustificato dall’esigenza di salvare tutte le altre vite, e cercano di remare verso la riva, senza però riuscirci a causa della forza della tempesta. A quel punto capiscono che è la Divinità stessa che non vuole che la nave arrivi in porto. Il Midrash amplifica il racconto biblico e ci racconta come i marinai facciano delle prove, prima di lasciare Giona del tutto in balia delle acque del mare: “Legano Jonà ad una corda e lo calano in acqua fino alle ginocchia. La tempesta si placa istantaneamente; lo tirano su, e il mare riprende ad infuriare come prima. Fanno ancora alcuni tentativi: lo calano prima fino all’ombelico e poi fino al collo. Ma ogni volta che lo tirano su, la tempesta si scatena con sempre maggior furore. Non c’è dunque altra via di scampo e i marinai, dopo aver pregato il Signore di non essere considerati colpevoli per ciò che avrebbero fatto, molto a malincuore, gettano Jonà in mare. La tempesta si placa all’istante” (riportato da A. Segre, Jonà, cit., p. 405).
L’immagine dei marinai che esce fuori dal racconto è ben descritta da Dante Lattes: “Il quadro di quella gente primitiva e della vicenda drammatica che stava attraversando è molto affascinante nella sua semplicità e nella sua ingenua veridicità. L’arte del narratore, così priva di artifizi, riesce a farci penetrare nell’anima di quella ciurma, dai sentimenti e dai costumi pagani, e di farcene apprezzare tutta la grande umanità. La maniera cortese, il rispetto della vita altrui, il sentimento religioso di cui fan mostra, rendono quei rozzi marinai degni di ammirazione. E’ il quadro di un’umanità ideale, in cui non ci sono differenze di fede, di nazionalità, di razza, di lingua, ed in cui il nome di ebreo suscita rispetto e il nome del Dio del Cielo che egli adora desta venerazione e timore” (Dante Lattes, I Profeti d’Israele, p. 302; anche in A. Segre, Jonà, cit., p. 400).
Giona, gettato in mare, tuttavia non muore annegato. Se questa era la sua idea, non era però l’idea del Signore Iddio, che fa sì che Giona venga inghiottito da un “grande pesce” (una balena?), dove il profeta rimarrà per tre giorni e tre notti. Giona, dal ventre della balena, prega e fa teshuvà. Questo è infatti il libro della teshuvà della città di Ninive ma anche della teshuvà di Giona. Alla fine, il grande pesce, su ordine divino, risputa fuori Giona, che a questo punto accetta di andare a Ninive (cap. 2 e inizio cap. 3).
Traiamo ora alcuni insegnamenti dalla lettura di questo libro. Oltre a quello ovvio sul valore della teshuvà, sia individuale che collettiva, una importante conclusione è che la provvidenza e la benevolenza divina si esercitano su tutta l’umanità, non solo sul popolo d’Israele. Giona era forse restio ad accettare questa idea, o forse non voleva che dei malvagi venissero perdonati solo grazie a qualche giorno di digiuno, ma la Bibbia qui ci dice chiaramente che il Giudice Supremo (come, lehavdil, mutatis mutandis, quello terreno) giudica a volte diversamente da come noi penseremmo debba fare. “I Miei pensieri non sono i vostri pensieri e le vostre vie non sono le Mie, dice il Signore” (Isaia 55:8). D-o ha a cuore tutta l’umanità e i Suoi criteri di giudizio non sono i nostri.
Un altro importante insegnamento è che non solo la benevolenza di D-o si rivolge agli uomini, ma anche agli animali. A ben leggere, la presenza degli animali in questo libro è ricorrente più volte, a partire dallo stesso nome del profeta e del libro: Yonà, infatti, in ebraico vuol dire colomba. Troviamo poi, al cap. 2, il “grande pesce”. Al cap. 3:7-8 si dice che il re di Ninive comandò che, oltre agli uomini, anche “gli animali, bestiame grosso e minuto non avrebbero dovuto assaggiare nulla né bere acqua e che sia uomini sia animali si sarebbero dovuti ricoprire di sacco”. Al cap. 4 si riferisce poi di un piccolo verme che rose la pianta di ricino che faceva ombra a Giona. E per finire, l’ultimo verso del libro, ci dice che così D-o replicò a Giona che si lamentava del ricino seccatosi: “Non dovrei, Io, aver pietà di Ninive la grande città, contenente più di centoventimila persone, che non sanno distinguere la loro destra dalla sinistra, e animali in gran numero?” (cap. 4:11, trad. di Rav Giuseppe Laras nella Bibbia curata da Rav Dario Disegni, ed. Giuntina).
Concludo con un midrash, riportato ben cinque volte nelle fonti ebraiche (Talmud Yerushalmi, Bava Metzi’à II, 6; Bereshit Rabbà, XXXII; Vaykrà Rabbà, XXVII; Tanchumà, Emor, IX; Pesiktà shel Rav Kahana, IX) e una in quelle greche, ma con diverse e fondamentali varianti (Filostrato Apollonio di Tiana, II, 39). Si trova anch’esso nell’articolo di A. Segre (Jonà, cit., pp. 406-407). Nella versione ebraica, si racconta di Alessandro Magno che era presente una volta ad un giudizio che si svolgeva davanti al re Katzia (un re mitologico delle Montagne nere, in Africa), di fronte al quale si trovavano due uomini. Uno di essi aveva venduto all’altro un terreno e costui vi aveva scoperto un tesoro. Sosteneva il compratore: “Ho comprato solo il terreno e non il tesoro, perciò esso spetta di diritto al venditore”. Ribatteva il venditore: “Niente affatto, ho venduto il terreno e quindi tutto ciò che ivi poteva essere contenuto. Il tesoro perciò appartiene di diritto al compratore”. Il re consigliò di far sposare la figlia del venditore al figlio del compratore e di dar loro in dote il tesoro. Alessandro Magno commentò ironicamente tale sentenza, affermando che nel suo paese si sarebbe proceduto all’esecuzione di quei due strani personaggi e che il tesoro sarebbe passato allo Stato. Allora il re chiese ad Alessandro se il sole brillava nel suo paese e se in esso vi era almeno un ovino. Alla risposta “Certo” che Alessandro, tutto sorpreso, diede, il re così concluse: “Ebbene, soltanto per merito di questo ovino il sole brilla nel paese di Alessandro Magno”.
Per approfondimenti, oltre ai testi citati sopra, si può vedere: Jonah, Mesorah Publications, Art Scroll, New York 1978 e Il Libro di Giona, DLI-Mamash, Milano 1996.
Ringrazio l’amico scrittore Aldo Zargani, autore del pluripremiato “Per violino solo”, una delle più intense rievocazioni della Shoà italiana. Le sue domande sul profeta Giona mi hanno stimolato a occuparmi di questo libro molto di più che nel passato.
Domenica 6 novembre 2011, ore 16,00-19:30, presso il Centro Bibliografico dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Roma, si terrà un convegno intitolato Gli animali e la sofferenza: La questione della shechità, organizzato da Il Centro Hans Jonas, il Collegio Rabbinico Italiano, la Rassegna Mensile di Israel, con la partecipazione (nell’ordine) di Claudia Debenedetti, Giacomo Saban, Tobia Zevi, Laura Quercioli Mincer, Mino Chamla, Eligio Resta, Gianfranco Di Segni, Stefano Cinotti e Riccardo Di Segni.