In contraddizione con i documenti continua il mantra Sarfatti: dalle Leggi Razziali del 1938 gli ebrei sarebbero diventati tutti antifascisti. Invece, dopo la nota di Aldo Ascoli, è utile leggere anche la storia dell’Ammiraglio Capon che riportiamo in basso.
Anna Foa
Nel 1922, quando il fascismo prende il potere in Italia, gli ebrei – una piccolissima minoranza della popolazione, circa 45000, cioè l’uno su mille – erano profondamente integrati nel contesto sociale e culturale del Paese.
Avevano appoggiato il processo risorgimentale, partecipando attivamente ai moti e alle guerre d’indipendenza e legando strettamente la loro emancipazione al processo di costruzione della nazione italiana. Erano stati protagonisti dell’irredentismo, avevano partecipato con entusiasmo, come gli ebrei tedeschi e quelli francesi, alla prima guerra mondiale, nella convinzione che i legami di appartenenza nazionale si sarebbero ulteriormente rinsaldati versando il proprio sangue per la patria italiana. Avevano dato alla politica italiana ministri come Luzzatti, sindaci come Nathan, alti funzionari dello Stato e dell’esercito.
Erano, cioè, profondamente italiani. Anche il sionismo, che aveva in quegli anni profonde radici nel mondo ebraico dell’Europa orientale, rappresentava in Italia a quella data un movimento assai marginale, patrimonio di una piccola élite, e tale sarebbe rimasto anche negli anni seguenti, nonostante il crescere di gruppi che univano all’anelito per il ritorno a Sion quello di un profondo rinnovamento interiore dell’ebraismo. Quando per gli italiani l’adesione alla patria si identificherà con quella allo Stato fascista, quindi, anche gli ebrei italiani, come gli altri cittadini, aderiranno al fascismo. In che forma e in che misura rispetto al resto degli italiani, è una questione che merita di essere vista più da vicino.
Gli ebrei italiani iscritti al Partito Nazionale Fascista all’epoca della marcia su Roma erano, secondo dati desunti dal censimento degli ebrei del 1938, circa il 3 per mille degli iscritti complessivi. Una percentuale molto più alta di ebrei, oltre il 10%, si ritrova fra gli intellettuali antifascisti, fossero socialisti o liberali come quelli che aderirono al manifesto di Croce del 1925. Man mano che il regime si consolidava e acquistava consenso, evidentemente, la percentuale di ebrei con la tessera fascista era destinata a crescere, anche se diventava meno significativa di un’adesione sincera all’ideologia fascista. Forte restava comunque la presenza antifascista fra gli intellettuali, rivelata da alcuni segnali inequivocabili: quando nel 1931 il regime impose il giuramento di fedeltà al fascismo ai docenti universitari, ebrei erano ben 6 dei 14 professori ordinari che rifiutarono il giuramento, con il risultato di dover abbandonare la cattedra; una proporzione enorme rispetto al numero degli ebrei italiani e anche rispetto alla proporzione di ebrei fra i docenti universitari. Ugualmente alto fu il numero degli ebrei presenti fra gli arrestati torinesi del 1934 e del 1935, appartenenti al gruppo clandestino di «Giustizia e Libertà». Fu questo fra l’altro il primo momento in cui il regime sottolineò l’identità ebraica degli arrestati, iniziando quell’identificazione fra ebraismo e antifascismo che sarebbe ulteriormente stata incrementata dalla campagna antisionista iniziata nel 1937, volta ad identificare il sionismo con l’antifascismo e a perseguitarlo in quanto tale.
Se in genere quindi possiamo dire, con Michele Sarfatti, che gli ebrei furono fascisti come gli altri italiani, e più antifascisti degli altri italiani, resta un fatto che fra gli ebrei gli intellettuali dimostrarono un maggiore riluttanza al fascismo e un maggiore attaccamento ad una visione liberale e democratica della politica e della cultura, quale era stata del mondo ebraico italiana nel Risorgimento. Gli anni Trenta furono segnati da un netto conflitto all’interno degli organismi comunitari: da una parte i fascisti per convenienza o conformismo, che cercavano di convivere al meglio con il fascismo; dall’altra una tendenza più risolutamente fascista, che diede vita nel 1934 a Torino a un giornale, La nostra Bandiera, e ad un movimento, quello degli «Italiani di religione ebraica», che cercò di conquistare la direzione delle Comunità, ottenendo la maggioranza a Torino e Firenze. Era fortemente antisionista, tanto che nel 1938, nell’imminenza del varo delle leggi razziste, un gruppo di «bandieristi», su iniziativa di uno dei leader del movimento, Ettore Ovazza, compì un vero e proprio attacco squadristico alla sede fiorentina della rivista sionista Israel devastandola.
A pesare sulla situazione degli ebrei italiani e sulla loro adesione al fascismo era anche quanto succedeva agli ebrei tedeschi dopo il 1933, con l’avvento di Hitler al potere. Fino a che Mussolini distinse nettamente la sua politica da quella hitleriana, fu possibile al mondo ebraico italiano esprimere la sua preoccupazione per quanto succedeva in Germania e partecipare all’attività di aiuto e sostegno ai profughi senza entrare troppo in conflitto con il regime. È vero che nel 1936 Raffaele Cantoni, che dirigeva il gruppo milanese di questo Comitato di assistenza ai profughi, fu rimosso dal suo incarico, ma Cantoni, che poi sarebbe stato il maggior protagonista della ricostruzione dell’ebraismo italiano del dopoguerra, era antifascista e sionista. Dopo il novembre 1937, con la costituzione dell’Asse Roma-Berlino, ogni spazio per una convivenza degli ebrei con il fascismo si chiuse, tranne che per pochi tra i più accesi «bandieristi». Le comunità cercarono di salvare il salvabile, molti emigrarono, molti si convertirono, nella vana speranza di sottrarsi così alla persecuzione. Con il 1938 non si può più parlare di ebrei e fascismo, ma solo di fascismo contro gli ebrei.
Avvenire 5 maggio 2011
Ammiraglio Capon: fascista fino al 16 ottobre del 1943
… Il generale Umberto Pugliese riuscì a cavarsela solo perché la sua nuova condizione di ariano, obbligò la Gestapo a rilasciarlo, dopo averlo interrogato per otto ore nel carcere di via Tasso, ma tra le innocenti vittime del rastrellamento del 16 ottobre 1943, ci fu anche il semiparalizzato ammiraglio Augusto Capon e lo stesso giorno a Parma venne arrestato anche il generale di divisione Armando Bachi. Anche in quest’ultima circostanza, il tentativo, di poter suscitare nei carnefici un benché minimo riguardo per il loro glorioso passato, fu esperito senza però trovare seguito. Neppure l’anziano ammiraglio si astenne da questo triste e mortificante rituale; egli continuò a portare con sé una lettera di Mussolini e, benché fosse molto pessimista – «Andiamo certamente incontro alla morte. Voi non conoscete i tedeschi; io li ho già visti nella prima guerra mondiale» – sperava di guadagnarsi con essa qualche ultimo favore. Capon, addirittura fino al giorno del suo arresto, provò sentimenti favorevoli per il Duce, per il nuovo Stato fascista di Salò del quale criticava solo la forma repubblicana, essendo lui un fervido monarchico fedele a
Casa Savoia, e per l’intenzione di continuare a combattere al fianco dell’alleata Germania, attribuendo la definitiva rovina dell’Italia al «Maramaldo Badoglienko». Egli approvò in pieno i vari discorsi di Alessandro Pavolini e di Rodolfo Graziani, che incitavano al patriottismo degli italiani per combattere gli angloamericani, solo in apparenza portatori di libertà e benessere. Inoltre si dichiarò lieto della notizia della formazione di un nuovo esercito fascista, pronto a continuare a combattere, chiaro sintomo della ripresa morale e militare italiana, ma rimase sbigottito quando seppe che i tedeschi avevano disarmato a Roma i carabinieri e i corazzieri. Con profonda ingenuità, quasi a voler negare l’evidenza, quando venne informato delle prime rappresaglie tedesche, egli reagì pensando che fossero solo esagerazioni. Solo quando seppe che la Germania aveva manu militari annesso Bolzano, Trento e Trieste, intuii in maniera incredula – il paradosso delle sue convinzioni: «Ma se fosse vero vorrebbe dire che anche se l’Asse riuscisse a vincere la guerra, noi [italiani] ne usciremmo non solo privati del compimento delle nostre giuste aspirazioni, ma anzi menomati fino nel territorio metropolitano. Sarebbe il colino!».
Tuttavia, senza alcuna distinzione anche l’ammiraglio Capon e il generale Bachi, deportati ad Auschwitz, come molti altri, furono subito uccisi nelle camere a gas. Simile sorte toccò al capitano Ettore Ovazza, fucilato dalle SS e bruciato l’11 ottobre nella caldaia di una scuola di Intra insieme alla moglie e alla figlia. Anche il generale Adolfo Olivetti nell’agosto del 1944 verrà arrestato a Torino, dove però prima di essere deportato mori in carcere per malattia. Secondo i dati riportati da Alberto Rovighi il totale degli ex ufficiali deceduti per fatti di guerra o perché deportati e uccisi sarebbe 158, ma tale cifra, riferendosi solo a coloro che verranno riconosciuti in seguito come vittime dell’«Olocausto», sembra approssimativa per difetto.
Giovanni Cecini
I soldati ebrei di Mussolini
Mursia 2008