Appena Ieri
Anna Foa
Scritto negli anni della Seconda guerra mondiale, pubblicato a Tel Aviv nel 1945, questo romanzo, mai tradotto prima d’ora in italiano, è considerato il capolavoro di Agnon, lo scrittore in lingua ebraica insignito nel 1966 del premio Nobel per la letteratura. La splendida traduzione di Elena Loewenthal lo rende in tutta la sua ricchezza linguistica e letteraria, tanto da far subito capire al lettore che ci si trova di fronte a un’opera di grande rilievo.
Restano da comprendere le ragioni della scarsa notorietà in Italia dell’opera di questo grande scrittore, solo in parte tradotta nonostante l’attenzione che il nostro paese ha riservato agli scrittori israeliani delle generazioni successive alla sua, e di cui Agnon è stato l’indiscusso maestro. Nato nel 1888 nella Galizia austriaca, emigrato in terra d’Israele nel 1907 ma ritornato a vivere in Germania negli anni a cavallo della Prima guerra mondiale, Agnon è morto in Israele nel 1970. Il romanzo è ambientato nella terra d’Israele dell’inizio del Novecento, all’epoca della seconda Alyiah, la stessa ondata di immigrazione con cui si trasferì in terra d’Israele quella che sarebbe poi divenuta l’élite del movimento sionista, e la dirigenza politica del futuro Stato.
La storia raccontata nelle settecento pagine del romanzo è quella di un giovane sionista galiziano, Isacco Kumer, che sceglie di mettere in pratica le sue idee e di trasferirsi in terra d’Israele. Figlio di una famiglia di illustre discendenza rabbinica, nella sua adesione al sionismo Isacco si è allontanato da ogni pratica religiosa. Il romanzo narra la sua storia in terra d’Israele, fra Giaffa e Gerusalemme, tra il mondo dei giovani sionisti rivoluzionari e quello dell’antico insediamento ebraico, ultraortodosso e ostile al sionismo, tra due donne, l’una libera e laica, l’altra religiosa, nelle difficoltà terribili della vita, tra il sogno di coltivare la terra, dando inizio al nuovo mondo sionista, e la difficoltà di realizzarlo (Isacco finirà per sbarcare il lunario inventandosi il mestiere di imbianchino). Fra i personaggi principali del libro, il cane Balac, un cane matto e filosofo che rappresenta un alter ego di Isacco e che, a differenza di lui, è libero, data la sua natura canina, di muoversi senza impedimenti fra gli ebrei e i gentili, spesso preso a calci, invano interrogandosi sulle ragioni di questo odio. Nel corso del tempo, Isacco recupererà la pratica religiosa, tornerà a pregare in sinagoga, lascerà la laica Giaffa per la pia Gerusalemme, ma sempre mantenendo una sorta di ironico riserbo un po’ passivo, fatto di curiosità verso i mondi che si trova davanti e di rispetto per le persone che incontra, per quanto diverse siano da lui.
Scritto da un ebreo religioso quale Agnon, al tempo stesso studioso appassionato del mondo chassidico e profondo conoscitore della letteratura tedesca ed europea, questo libro è anche una rappresentazione sottile e non banale del conflitto tra laicismo e tradizione religiosa. Molte vi sono infatti le sfumature, i passaggi quasi inavvertiti tra l’un mondo e l’altro, come a correggere l’immagine che ne abbiamo di uno scontro tra civiltà, di un abisso impossibile da varcare tra il ripudio della religione compiuto dai sionisti laici e la tradizione religiosa dell’Europa Orientale e del mondo ultraortodosso che abitava da sempre la terra d’Israele. Una «combinazione tra fede religiosa e creatività artistica», quella di Agnon, come scrive Yehoshua nella sua introduzione, inusuale nel mondo ebraico dove la creatività artistica è esplosa nel Novecento soprattutto nel distacco dalla tradizione e nel rifiuto della religione. Ma non era questa la strada percorsa da Agnon.
Fra le pagine più affascinanti del libro sono quelle dedicate alla trasformazione del paese: l’estensione di Gerusalemme, fino ad allora ristretta nelle mura della Città Vecchia, con il sorgere di case a Residenza Sette, Cento Porte, e gli altri quartieri dai nomi che siamo abituati a leggere in ebraico e a cui qui la traduzione restituisce un senso più forte. E la nascita di Tel Aviv, ai margini di Giaffa, nel deserto, sradicando dune e costruendo strade sulla sabbia. E poi, le discussioni fra gli immigrati, la creazione dei primi kibbutzim, il clima bohemien di Giaffa, la fame, il mito frustrato della terra: un mondo, quello dei primissimi anni del Novecento, in cui le grandi trasformazioni indotte dall’incontro con la modernità nella diaspora europea sconvolgono radicalmente il paesaggio religioso e sociale del vecchio insediamento ebraico, aprendo la strada all’invenzione di una realtà tutta nuova. Un affresco straordinario, che ridà vita a quel mondo di “ieri” cogliendone il senso, i colori, i sapori, che ne restituisce la storia con maestria, molto più in profondità di qualsiasi libro di storia.
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