Torna in libreria “La famiglia Moskat”. Il Novecento corale di un mondo destinato a sparire con la Shoah
Giorgio Montefoschi
All’inizio del romanzo, il lettore si troverà di fronte a ben tre alberi genealogici fitti di nomi e di linee orizzontali e verticali che collegano questi nomi. Non deve spaventarsi. Da subito e poi pian piano – nella mirabile scansione degli avvenimenti e del tempo – vedrà che quei nomi si trasformeranno in figure umane in carne e ossa che potrà riconoscere anche a distanza di mesi e anni (i mesi e gli anni del romanzo, beninteso) e diventeranno indimenticabili.
E qui sta la straordinaria bravura, diciamo l’ eccezionalità, di Singer (che, molto probabilmente, conosceva la lezione di Tolstoj: quella di descrivere un personaggio attraverso una sola particolarità del suo viso o del suo corpo): dal primo all’ ultimo, dai capostipiti ai bambini in fasce, saranno seguiti tutti, non sarà abbandonato nessuno.
Per quale motivo meravigliarsene, del resto? Questo amore è l’ amore che il Dio degli ebrei, il Dio dei Salmi e della Shekinah (la Presenza di Dio nel mondo), nutre per la Creazione che considera una sua emanazione; e dunque non contempla esclusioni. L’ ebraismo è il cuore profondo della Famiglia Moskat. Tutto quello che si dice, si respira, si fa, si mangia, si beve, in questo romanzo, è ebraico. I palazzi e i cortili sono i palazzi e i cortili di Varsavia nei quali si raggruppano gli ebrei. Le case – sia quelle fastose, come quella del capostipite Meshulam Moskat, sia quelle meno ricche – sono le case in cui vivono gli ebrei: le case nelle quali e dalle quali entrano ed escono in continuazione ospiti, amici, parenti; le case in cui le famiglie ebraiche si riuniscono e, in un profluvio di chiacchiere, risate, canti, lacrime di commozione, celebrano le festività religiose e i matrimoni, i fidanzamenti, le nascite e i lutti.
La lingua che si parla, oltre al polacco e al russo, è in primo luogo l’ yiddish: la lingua degli ebrei ashkenaziti. I ricchi menu delle tavole imbandite a pranzo e a cena (con gli antipasti di fegato e trippa, le minestre fumanti, i tortelli, la carne) sono rigidamente kasher, come sono kasher l’ acquavite e il vino. I libri che in primo luogo si leggono, e che molti conoscono in buona parte a memoria, sono i libri che contengono la Parola di Dio. Dio è il protagonista assoluto della Famiglia Moskat: lo è quando soccorre e quando risponde alle invocazioni; lo è quando perdona e quando punisce; lo è quando insegue e afferra chi vorrebbe allontanarsi da Lui; lo e quando sembra che distolga lo sguardo dalle vicende umane e sia infinitamente lontano o addirittura assente.
Lo cercano incessantemente i giusti, i pii: i chassidim e i rabbini che nelle sinagoghe e nelle case di preghiera profumate di legno e di candele vegliano la notte, pregano e cantano, perché sanno che Dio manda dal cielo i suoi angeli alle finestre delle sinagoghe e delle case di preghiera ad ascoltare le preghiere e i canti. Lo cercano quelli che si purificano e quelli che, con mani pure, con intenzioni pure, completano la Creazione, liberando le scintille divine dall’ imperfezione e dal male. Lo cercano quelli che riescono a incontrarlo nella umile pratica dei riti. Lo cercano i gaudenti e i crapuloni, i donnaioli e i dissoluti come Abram Shapiro (uno dei numerosi parenti acquisiti di Meshulam Moskat) che però, nel momento della morte, dicono: «Io credo in Dio. Muoio da ebreo». Lo cercano quelli che lo dimenticano e lo ritrovano. Lo cercano quelli come Asa Heshel (la figura maschile centrale del romanzo), che credono di poterlo escludere dai propri pensieri e lo cercano proprio per questo.
Asa Heshel arriva a Varsavia dal villaggio di Tereshpol Minor con una lettera di raccomandazione per un importante rabbino e un libro con le opere di Spinoza sotto il braccio, negli stessi giorni in cui anche Reb Meshulam Moskat fa ritorno a Varsavia da Karlsbad, dove era andato a passare le acque, con la sua terza moglie, Rosa Frumetl e Adele, la figlia di lei avuta da un precedente matrimonio. Da questo arrivo e da questo ritorno (a dispetto di quanti ancora si ostinano a decretarne la fine, la mitologia della partenza, dell’ arrivo e del ritorno, non potrà mai smettere di essere l’ essenza di ogni narrazione) prende l’ avvio il romanzo che presto diventerà corale. Il ritorno a casa del patriarca Moskat, l’ uomo ricchissimo, furbo, abile, saggio che tutti gli ebrei della città, non solo i figli e i parenti, trattano con deferenza e rispetto, introduce l’ immensa famiglia Moskat: i figli, le figlie, le nuore, i generi, i nipoti, tutti quanti con le loro gioie e i loro dolori, le loro grandezze e le loro miserie, le loro storie che a poco a poco si intrecceranno.
L’ arrivo dello stralunato Asa Heshel dalla provincia – molto simile per il turbinio degli incontri all’ arrivo, nell’ Idiota, del principe Myskin a Pietroburgo – affida al libro il suo compito più arduo: quello di interrogarsi su Dio. Asa Heshel, infatti, totalmente incerto del proprio futuro, non ha letto, nel villaggio, soltanto il Pentateuco o il Talmud; ha letto Goethe, Schiller, Heine, Leibniz e Kant «ingoiandoli in un boccone, saggiando qua e là» perché, fin dal momento in cui ha preso coscienza di se stesso, le eterne domande gli hanno dato il tormento. C’ è un Dio oppure tutto il mondo è meccanico e cieco? L’ uomo è responsabile oppure non deve dar conto di sé a nessuna potenza piu alta? L’ anima è immortale o il tempo travolgerà tutto nell’ oblio? Tra queste due dimensioni, specchiate in un incessante confronto, la dimensione famigliare e terrena e la dimensione spirituale, si muove La famiglia Moskat.
Non c’ è evento, non c’ è sentimento, non c’ è risvolto psicologico della condizione umana che non sia presente nel romanzo. Ma mai nulla capita, mai nessuno, consapevolmente o inconsapevolmente, compie un passo nella realizzazione del proprio destino, senza che questo passo non sia osservato da uno sguardo a volte misterioso, a volte complice, che scende dall’ alto. Il romanzo è corale; è vero. Tuttavia, è altrettanto vero che alcune figure occupano la scena in maniera prepotente e che alcune delle tante vicende che costituiscono la trama hanno, per importanza e durata nel tempo, la consistenza di travi portanti, imprescindibili, dell’ intero racconto.
Tra i personaggi, non si può non ricordare Meshulam Moskat, il capostipite ombroso e generoso, capriccioso e saggio, vera incarnazione del Padre; Asa Heshel, il ribelle al matrimonio, alla famiglia, a Dio e a se stesso; Adele, la donna che sposa e tradisce e che gli darà un figlio e gli rimarrà sempre fedele; Hadassah, la nipote cagionevole di salute di Meshulam Moskat (bellissima, col suo profilo aristocratico, i capelli biondi), che Asa Heshel amerà follemente, essendo riamato follemente, ma poi, trascinato dalla sua irrequietezza invincibile, abbandonerà; Koppel, il lestofante, il tuttofare imbroglione dei Moskat che fuggirà in America dopo averli traditi; infine, Abram Shapiro, l’ inarrestabile gaudente, il peccatore innocente che ne fa di tutti i colori, si gode la vita come se lui ne possedesse la segreta scintilla, ama Asa Heshel più di un figlio e morirà da ebreo.
Tra le vicende, non si possono non ricordare le due storie d’ amore parallele di Asa Heshel con Hadassah e Adele; il percorso della dissoluzione e della degradazione di Abram Shapiro, simbolico della dissoluzione di tutta la famiglia; infine, la vicenda terrena, storica dell’ «essere ebrei». Quest’ ultima è la Storia con la lettera maiuscola della famiglia Moskat. Una Storia che è stata già raccontata molte volte, da molti scrittori, ma che mai come qui assomiglia alla realtà che coinvolse tutti quanti: le nazioni e i popoli, i gentili e gli ebrei. La Storia che ha il suo principio nelle braci covate sotto la cenere dell’ antisemitismo. La Storia di un popolo che, incredibilmente, quasi fino all’ ultimo, non si rese conto di quello a cui andava incontro.
Pubblichiamo una sintesi dell’ introduzione di Montefoschi a «La famiglia Moskat» di Isaac B. Singer (1904-1991). Con questo romanzo (trad. Bruno Fonzi, pp. 664, 24), Longanesi continua a stampare l’ opera omnia di Singer, che si concluderà nel 2011: a 20 anni dalla morte del Nobel
(10 novembre 2010) – Corriere della Sera