Non solo verso Oriente: studi sull’ebraismo in onore di Pier Cesare Ioly Zorattini (Firenze: Leo S. Olschki editore, 2013), 179-185
Riccardo Di Segni
Una lunga citazione di Ioly Zorattini dal Directorium Inquisitorum di Nicolas Eymerich[1] illustra la complessa procedura tecnica che veniva seguita per la riammissione degli anusim nella comunità ebraica. Dopo aver mondato il candidato nelle parti del corpo che erano state sedi del battesimo e tagliate le unghie usque ad sanguinem, la descrizione così prosegue:
Item radunt caput illius, & postmodum ponunt eum in aqua fluvii correnti, & faciunt illum facere immersionem de capite, in aqua illa tribus vicibus, post dictam immersionem dicunt orationem talem: Benedictus dominus Deus rex saeculorum, qui praecepisti nobis sanctificari super istam aquam seu balneum quod vocatur tevilà in hebraeo.
Si tratta, come dice lo stesso testo, di una tevilà, un’immersione rituale, accompagnata dalla benedizione prescritta, di cui viene data l’esatta traduzione, e preceduta da una tonsura.
Scopo di questa nota è di chiarire l’origine e le posizioni rabbiniche attorno a questo rito applicato a persone convertite dall’Ebraismo ad altra fede, e ai loro discendenti, al momento del loro rientro nell’Ebraismo.[2]
Una premessa sui termini usati nella letteratura rabbinica. Meshumad, passivo di shmad, nel senso di ‘distrutto’, ‘cancellato’, chi non ha resistito a un periodo di distruzione-persecuzione, è colui che passa ad altra fede.[3] Poiché in questa accezione il termine può essere letto come offensivo, molti autori (o editori) preferiscono usare mumar (letteralmente ‘rinnegato’), che è colui che si sottrae all’osservanza di un precetto o a tutto il sistema; può applicarsi anche ad alcune categorie di persone che per motivi di forza maggiore non l’hanno apposto a violenza[4], e indica comunemente i Marrani/Conversos.
Quando un non ebreo desidera convertirsi all’Ebraismo, la procedura ‘tecnica’ di passaggio comporta per un uomo la circoncisione e successivamente la tevilà, l’immersione in un bagno di purificazione; per la donna la sola immersione. Il bagno deve essere ritualmente idoneo; o un miqvà, una raccolta ferma di acque naturali, o una fonte, o il mare o un fiume (quest’ultimo solo se derivante essenzialmente da acque sorgive, altrimenti le sue acque vanno raccolte in un bacino dove rimangono ferme).⁴ Il bagno di purificazione, nel rito ebraico, è prescritto in molte altre occasioni, di cui la più comune è la purificazione periodica della donna sposata dopo il ciclo mestruale; quando una persona nasce ebrea, tale rimane per tutta la sua vita anche se non rispetta le norme o passa ad altra religione, quindi in teoria non ha bisogno di una tevilà per entrare o rientrare nell’Ebraismo. Vediamo tuttavia documentata la prescrizione di una tevilà al rientro di un anùs. Come si è arrivat
Ricostruire la storia delle fonti emergono interessanti linee tendenziali. Il Talmud non affronta il problema specifico, ma tratta la questione dell’accettabilità delle persone che sono pentite di gravi colpe. Tra le diverse opinioni, la scelta dei Maestri del Talmud è quella di accettare sempre i penitenti in ossequio al verso che dice «tornate figli ribelli» (Geremia 3:14 e 22).[5] Non si distingue ancora il convertito dal peccatore.
La questione inizia a comparire nella letteratura dei Gheonim. Rav Natronai Gaon (Sura, seconda metà del IX sec.), in Responsa dei Gheonim Sha’arei Tzedek III 68a, a proposito di un mishumad pentito, afferma che non ha bisogno di tevilà. Un altro responso di rav Yehudai Gaon (capo dell’accademia di Sura dal 757 al 761)[6] dice, a proposito di un servo che era stato fatto ebreo e poi aveva abbandonato l’Ebraismo, era stato venduto a un non ebreo e poi riacquistato dal primo padrone, che costui è come un meshumad che non ha bisogno di tevilà ma solo di hatricazione. Emerge qui il tema della punizione corporale che in qualche modo scompàrirà nelle fonti successive, più sensibile all’accoglienza. A parte questo, la prima posizione che si delinea e che il penitente non abbia bisogno di tevilà. Su questa posizione si colloca Shimon ben Aderet (Barcellona 1235-1310) in Responsa ha-Rishbà V:65: il meshumad che torna deve essere fustigato ma non necessita tevilà; rabbenu Yaaqov (Colonia 1265-Tolosa 1326), autore del Tur, in Yoreh De’ah 267:8, citando il responso del Gaon: il mumar non necessita tevilà; dopo di lui la famiglia rabbinica dei Duran: Shelomo ben Shimon Duran (Algeri 1408 circa-1467), in Responsa RaShBash 89, dichiara che i figli degli anusim non hanno bisogno né di tevilà né di accertazione dei precetti e che non si devono spaventare e intimorire quando ritornano; nella raccolta di Responsa Yakhin uVo’az L75, di Tzemach b.Shimon Duran, figli di Shelomo (Algeri seconda metà del XV secolo) si afferma che «i meshumadim detti anusim non hanno bisogno di tevilà, non vanno chiamati gherùm (proseliti), ma solo persone che si sono pentite (ba’ale teshuva)*».
Il responso è Yehudai Gaon citato dal Tur commenta certe critiche di Yosef Caro (Toledo 1488-Safed 1575), in Bet Yosef Yoreh De’ah 267:8 che parla dei casi in cui, dopo aver citato il parere del Gaon contrario al Nimugè Yosef, v. infra, p. 000); e qui Caro, nelle sue aggiunte successive (Bedeg haBayt) subito dopo le parole del Gaon, che richiede la fustigazione, riporta il responso del Rashbash su cui contrario vieta di intimorire i penitenti, li punisce e codificato in Shulchan ‘Arukh Yoreh De’ah 267:8 a proposito del servo; mentre non si parla di procedure per il meshumad. Yom Tov Zahalon (1559-1638 Safed, in Responsa Maharitaz n. 207, interrogato sul caso di una donna convertita e poi unitasi a un non ebreo, che torna all’Ebraismo con la figlia, insiste nel ribadire che «non ha mai sentito» che per un convertito sia necessaria la tevilà, e riprende il responso sul servo per confermare la sua posizione; E ancora Moshe di Trani (Safed 1500-1580) nei Responsa Mabit II:83 a nome del suo maestro Yaaqov Berav insiste che non ci sia bisogno di tevilà.
Una linea diversa ben più ramificata nelle sue motivazioni e distinzioni, emerge in un’altra serie di decisori. Già il Sefer Chassidim (di Yehuda di Ratisbona, tra la fine del XII e inizio XIII sec., al § 203) parla genericamente di convertito al Cristianesimo che al ritorno del essere ebreo e si impegna a fare ritorno come gli prescrivono i rabbin; dimostrando che esiste una procedura o una possibilità di procedura che però non la descrive. La decisione che è la penitente debba fare la tevilà, ma sul perché la debba fare le fonti si dividono. Un primo brano di riferimento è in Avot di Rabbi Natan (raccolta di aggadot di probabile epoca gaonica, VIII-IX sec.) 8: 8 dove si racconta la storia di una ragazzina (ribà) fatta prigioniera e poi liberata alla quale viene fatta fare una tevilà; «perché per tutto il periodo che è stata tra gli idolatri mangiava e beveva i loro alimenti» e ora deve «purificarsi».[7] Si spiega (Or Zarua’ 12) che la purificazione non è dagli alimenti impuri proibiti, ma dal peccato (benchè commesso sotto costrizione) di averli consumati.
Che questa fonte sia la base dell’uso della tevilà dei penitenti lo dicono: il Tanya rabbati (opera romana del XIII sec.) 72, Izchaq di Vienna (il Riaz, Boemia, 1180-1250) in Or Zarua’ 12, Menachem Recanati (Italia, probabilmente Roma 1250-1310) Pisqé Recanati 67, il Gaon di Vilna in Shulchan Arukh Yoreh De’ah 268. A parte il Gaon di Vilna, molto più tardo, gli autori citati si riferiscono al peccatore generico, non al convertito. Si noti la collocazione geografica di questi autori, diversa dall’area sefardita.
In sintonia con questo racconto, che prescrive la tevilà a scopo di purificazione penitenziale, ce n’è un altro in Pirqé de Rabbi Eliezer (opera aggadica attribuita a rabbi Eliezer ben Hurqenos ma probabilmente di più tarda compilazione) cap. 20: la prima cosa che fece Adamo una volta cacciato dal giardino dell’Eden si pentì e fece un’immersione nelle acque dello Shiloach (la fontana di Gerusalemme).
A favore della tevilà, ma con una motivazione che sembra differente, si esprime, sembra per la prima volta in area sefardita, Yom Tov Ashvili (Saragossa 1250-1330) in Chidushé ha-Ritbà (a Yevamot 47b, Legorno)[8]: «L’ebreo peccatore che si è pentito, di norma non deve fare tevilà ma accertazione delle regole del gruppo[9] davanti al tribunale rabbinico; ciò malgrado fa tevilà come prescrizione rabbinica per applicare un livello alto di rigore (da fare in ‘elà), come la si fa fare al servo liberato, la cui tevilà prescritta solo dai rabbini. L’opinione è ripresa da Yosef Chaviva (Barcellona inizio del XV sec.) nel suo commento all’Alfassi Nimuqè Yosef (su Yevamot cap. 4, 16b). Come si è detto prima, la citazione è ripresa dal Bet Yosef Yoreh De’ah 268, che però non l’accetta.
Che è regola viene codificata nelle aggiunte di Moshe Isserles (Remà, Cracovia 1520-1572) allo Shulchan Arukh (Yoreh De’ah alla fine del cap. 268) dove si dice che il mumar che si è pentito non deve fare la tevilà, ma la fa solo per proscrizione rabbinica, col prendere formale impegno di osservanza[10] davanti a tre persone. Le edizioni a stampa indicano come fonte di questa regola il Nimuqé Yosef, così come indicano la stessa fonte nella regola (Yoreh De’ah 267:8) a proposito del servo del cap. 268 (contro l’opinione di Yosef Caro) deve essere immerso di nuovo.
Il contemporaneo Shelomo Luria (Posen 1510-Lublino 1573, Maharshal o Rashal) in Yam Shel Shelomò (Yevamot cap. 4:52) scrive che «non usiamo» che il meshumad debba fare tevilà a causa delle trasgressioni commesse come è dimostrato nello Yerushalmi[11] nella storia della ragazza liberata»; cita però il Nimuqé Yosef che prescrive per l’ebreo che ha peccato e si è pentito la tevilà come un livello superiore di rigore. Quindi raccoglie entrambe le motivazioni.
David ben Zimra (Spagna 1479-Safed 1573, dal 1517 capo dell’Ebraismo egiziano) in Responsa Radbaz (III:858) distingue tra mumarim consapevoli e anusim che pur potendo tornare all’Ebraismo non l’hanno fatto da una parte, che sono coloro – peccatori occidenti – per i quali esiste una prescrizione rabbinica di fare la tevilà e gli altri anusim per i quali non c’è prescrizione di tevilà. Per Ben Zimra, ripreso da Yeshaya Horowitz (Shelah, Shne luchot haberit Masechet 996) si, manca tevilà non costituisce comunque impedimento e lo scopo sarebbe quello di letza’er ‘atzmo, affliggersi, ma c’è chi corregge questa lettura con letaher ‘atzmo, purificarsi.[12]
Yom Tov Zahalon, sopra citato come testimone del fatto che «non ha mai sentito» che per un convertito sia necessaria la tevilà, è consapevole della differente posizione del Nimuqé Yosef, e pur restando dell’idea che il meshumad non abbia bisogno di tevilà, «la suggerisce per la figlia della donna Anousah-det, nata da padre non ebreo, per recuperare almeno in questo caso la sollecitazione del Nimuqé Yosef.
Per quanto riguarda la pratica della tonsura prima della tevilà, la fonte di riferimento principale è un responso di Israel Isserlein (Maribor in Stiria [ora Slovenia], c. Regensburg 1390-Wiener Neustadt 1460) Terumat ha-Deshen 86. Il problema si pone riguardo alle giornate semifestive (chol ha-mò’ed di Pesach e Sukkot) nelle quali è proibito radersi, con l’eccezione di alcune categorie di persone che per motivi di forza maggiore non l’hanno potuto fare prima della festa; la domanda è se sia lecito considerare tra i casi di forza maggiore anche il convertito pentito, che deve essere sottoposto a rasatura prima della tevilà. Di qui si vede, indirettamente, che esiste una procedura consuetudinaria in questo senso. La risposta è positiva perché, spiega Isserlein, la procedura deriva dal rito di purificazione dei Leviti in Nu. 8:7 che venivano sottoposti a tonsura; come spiega la nota di Rashi a quel passo, a nome di rabbi Moshe ha-Darshan, la tonsura era per espiare la colpa di idolatria del vitello d’oro; il ragionamento allora è questo: l’idolatria rende impura una persona, come la rende impura un morto (Salmi 106:28) e a sua volta la cosa, come si rende impura un morto (Nu. 12:12) e chi è guarito da tzara’at ha bisogno della tonsura per purificarsi (Lev. 14:9); si stabilisce quindi un’identità idolatria = morte = tzara’at.
Nel caso del convertito c’è pertanto da fare un rito espiatorio dell’idolatria che ha come modello quello dei Leviti che devono radersi. La regola (nel senso del permesso di radersi nei giorni semifestivi) è codificata da Moshe Isserles in Shulchan Arukh Orach Chaym 531:7. Avraham Gombiner (Polonia 1635-1682), in Magen Avraham (scritto tra il 1665-1671, ibid. nota 11) spiega che il permesso deriva dal fatto che se non si fa la procedura il pentito non viene riammesso. David Segal (Polonia 1586-1667) in Turé Zahav (pubblicato nel 1646, ibid. nota 7) riprende la spiegazione dell’impurità dello tzara’at; lo stesso autore in Yoreh De’ah 267 nota 5 cita la Derisha (Tur Yoreh De’ah 267 nota 3) di Yehoshua Falk (Polonia 1555-1614) che a sua volta scrive a nome del suo maestro Shelomo Luria (nelle note al Tur): «l’uso è di fare la tevilà ai mumarim e che prima si radano completamente e così ho trovato e ho visto che si insegna a fare effettivamente». Shabatai haKohen (Lituania 1621-Moravia 1662) in Sifte Kohen Yoreh De’ah 268 n. 7 cita Yoel Sirqis (Lublino 1561-Cracovia 1640, il Bayt Chadash) «e così è l’uso dei mumarim – di radersi – quando tornano alla legge ebraica». Di diverso avviso sono i decisori sefarditi: per Yosef Caro in Bet Yosef OH 531 l’uso di Ashkenaz è la tonsura ma quello di Sefarad no; la conseguenza è nel permesso concesso nei giorni semifestivi: per Yosef Teomin (Lemberg 1727, Frankfurt a. Oder 1792) in Pe-ri Megadim Mishbetzot Zahav siccome è solo un livello superiore di rigore sicuramente non è autorizzato a radersi.
In sintesi nella storia di queste procedure emergono usi differenti, da chi non ritiene necessaria la tevilà a chi invece la richiede per vari motivi fino a chi richiede anche la tonsura preliminare. L’opposizione sembra dividere essenzialmente il mondo sefardita, che non richiede entrambe le procedure almeno nelle epoche più antiche, e poi dividersi su due linee di pensiero sulla tevilà, da quello ashkenazita che sembra più rigoroso. Alla luce di questi dati vanno rilette le testimonianze storiche pubblicate, e che riguardano in gran parte i Marrani di origine portoghese. Resta problematica anche la testimonianza dell’inquisitore Eymerich, che è del 1376, e come si è visto è corrispondente a dati documentati (un po’ più tardi) nella letteratura rituale; problematica perché la procedura che descrive ha luogo nell’area ashkenazita mentre l’autore vive in Catalogna, Aragona e Avignone, aree di influenza sefardita dove la tonsura non era praticata e forse neppure la tevilà.
[1] A p. 243 dell’edizione di Roma 1575, nell’articolo di P.C. IOLY ZORATTINI, Derech Teshuvà: la via del ritorno, in L’identità dissimulata, a cura di P.C. Ioly Zorattini, Firenze, Olschki 2000, pp. 195-248: 210-211.
[2] Per una sintesi sul rapporto complesso della comunità ebraica con i convertiti cfr. il mio Problemi culturali delle conversioni: aspetti del rapporto con le fonti ebraiche medievali con i convertiti, in «Dimensioni e problemi della ricerca storica», 2, 1996, pp. 15-24.
[3] L’origine del termine è controversa; potrebbe derivare o essere una deformazione di un’antica forma di passivo di ‘md, mesha’umad, nel senso di ‘colui che è stato immerso’; secondo Nachmaide deriva da meshummad, ‘che è steccato’; cfr. S. D. LUZZATTO, Commento alla Torà, Es. 12:43.
[4] Si noti come nella descrizione di Eymerich si parla di immergere il capo in acqua corrente di fiume.
[5] Decisione di rabbi Yochanan, amorà di Tiberiade del III secolo, rispetto alla controversia di tanna’im (Maestri anonimi) di rabbi Shimon e rabbi Yehuda, riportata nel III secolo, metà del II, in TB Avodà Zarà 7 a-b. Posizione codificata in MAIMONIDE, Teshuot cap. 3.
[6] Molto più tardi, in Osar ha-Gheonim IV 114, le annotazioni all’Alfassi di Yehoshua Boaz De Benedicti, 1518-1555 Yevamot 16b nota 4. Altre decisioni di epoca gaonica in Osar ha-Gheonim 111-114, a proposito di procella che si allontana e poi ritorna.
[7] Il brano ha un parallelo molto più sintetico in TB Shabbat 127b dove però non si parla della purificazione della prigioniera ma di chi l’aveva liberata.
[8] Raccolta che sembra però ignorato nelle varie fonti, viene citato in un’ottima sintesi sull’argomento da rav M. MEISDELSON, Tevilà veghiluach laishw bitshuvà, in Umqà deParscha, Chaiyaj 5773.
[9] In ebraico è qabalat divré chaverut lett. accettazione delle norme del gruppo assunzionista chi voleva diventare chaver, membro del gruppo dei Farisei. Erano impegnati a rispettare scrupolosamente le norme della pubblica (beni) per rispettare il livello di tum’à (impurità) richiesta ai farisei: in pratica la verifica della norma rimaneva solo quella della netiiat yadaim, il lavaggio delle mani, che comunque era diventata regola per tutti. Cfr. Enciclopedia Talmudit s.v. chaver. Evidentemente stanno davanti ad una norma che originariamente riguardava un fariseo che aveva abbandonato le osservanze del suo gruppo, rendendosi così inaffidabile, e che a un certo punto si era pentito e aveva espresso il desiderio di rientrare nel gruppo; gli si chiedeva per questo una dichiarazione formale di accettazione delle regole del gruppo.
[10] L’espressione usata dal Nimuqé Yosef viene ripresa nella regola che riguarda il mumar, e il senso è probabilmente quello che il candidato alla riammissione si impegni all’osservanza delle regole della Torà.
[11] Yerushalmi intende non solo il Talmud di Israele, dove questa fonte manca, ma l’intera produzione aggadica prevalentemente proposta in terra di Israele.
[12] Izchaq Yaaqov Weiss (1901 Galizia-1989 Gerusalemme) in Responsa Minchat Yitzhaq (IV:100).
