Il racconto vincitore del primo premio al concorso del Festival della Letteratura Ebraica di Roma del 2008. Dalla raccolta “Una cosa da niente ed altri racconti” sulle leggi razziali fasciste
Mario Pacifici
Come avrebbe più tardi puntigliosamente annotato nel suo verbale di notifica ed accertamento, il maresciallo Moretti si presentò alla porta degli Efrati alle 13,15 del giorno 14 Marzo 1941. A quell’ora la famiglia era in tavola, gli spaghetti fumavano nei piatti e mentre la mamma ancora sfaccendava tra tinello e cucina, David, il figlio tredicenne, si esibiva, fra un boccone e l’altro, nell’imitazione del professore di matematica.
Per quanto inusuale, considerato l’orario, il suono del campanello non turbò l’atmosfera della tavola.
Quando la porta si aprì, il maresciallo si trovò di fronte una donna giovane e ben vestita, con indosso un ruvido grembiale da cucina. Aveva le mani bagnate, notò, e se le asciugava, senza darlo a vedere, strofinandole sui fianchi. Sembrava allarmata dalla vista della divisa.
“Polizia,” biascicò Moretti, portando la mano alla visiera del cappello, “cerchiamo Efrati Isacco, fu Giuseppe. È in casa?”
La donna annuì intimidita. Squadrava l’intruso senza simpatia e manteneva la porta socchiusa.
“Nino, vieni, è per te,” chiamò ad alta voce.
Il marito la raggiunse dal tinello, interrogandola con gli occhi.
“La polizia,” sussurrò lei.
Efrati spalancò la porta e fece entrare in casa il poliziotto, mentre un piantone rimaneva in attesa sul pianerottolo.
“Cercate me, maresciallo?”
“Sissignore,” rispose Moretti con un’espressione bonaria, “ma vi prego, dite a vostra moglie di non agitarsi, che è una cosa da niente. Una notifica, un breve accertamento. Nulla di serio.”
Parlava con un forte accento napoletano, e sembrava davvero imbarazzato dall’apprensione della donna.
Efrati annuì, prendendo per mano sua moglie.
“Lo senti, Esterina? Non ti preoccupare, dai, che ci penso io qui. Tu, piuttosto, vedi che David finisca di mangiare.”
Attese che la moglie si chiudesse la porta alle spalle prima di fare accomodare il poliziotto su una delle due poltrone che costituivano lo scarno arredamento dell’ingresso.
“Allora, maresciallo. Qual è il problema?”
“Nessun problema, per l’amor di Dio. Ve l’ho detto, è un accertamento, una cosa da niente. Dunque vediamo, voi siete…” consultò l’incartamento che aveva in mano, “…Efrati Isacco, fu Giuseppe, cittadino italiano di razza ebraica.”
Efrati allargò le braccia con un cenno di assenso.
“Per servirvi, maresciallo.”
“Bene, signor Efrati. Devo notificarvi che, come cittadino di razza ebraica, siete inibito alla detenzione di apparecchiature radio riceventi. È vostro dovere denunciare l’eventuale possesso di tali apparecchiature e mettere le stesse a disposizione dell’autorità preposta all’espletamento dell’atto di sequestro, previsto dal regio decreto del…”
“So già tutto maresciallo. I giornali li leggo. Forse, però, vi sfugge che io ho già denunciato il possesso della mia radio, e che per facilitarvi il lavoro ve l’ho addirittura portata in questura. Se mi attendete un attimo, vi prendo il verbale di sequestro.”
“Non c’è bisogno, signor Efrati, per carità, vi credo. E poi sta tutto segnato qui, nel vostro incartamento.”
Fece scorrere rapidamente i fogli finché trovò quel che cercava.
“Ecco vedete, è qui. Verbale di sequestro, eccetera, eccetera… ecco: apparecchio radio ricevente, di medie dimensioni, in bachelite rosso granata, marca Marelli. In data, vediamo…si, in data 7 marzo 1941.”
“Come vi dicevo, maresciallo, la settimana scorsa.”
“Sissignore, non c’è niente da dire. Effettivamente, riguardo all’apparecchio Marelli è tutto a posto. Il problema, semmai, è che a quanto risulta dal vostro incartamento, avete dimenticato di denunciare…” Scorse di nuovo l’incartamento. “Madonna mia, con tutte queste carte… Eppure l’ho visto poco fa… Eccolo, eccolo… Apparecchio marca Siemens, modello RG 40. Acquistato in data 31 ottobre 1940 presso la ditta Alati, in via 4 Novembre, per l’importo… Beh, l’importo non ci interessa…”
Squadrò l’ebreo con aria indulgente.
“Questo ce lo siamo dimenticati, non è vero?”
Efrati era interdetto.
“Ma voi come fate a saperlo?”
“Madonna mia, signor Efrati. Siamo la Polizia. Se non le sappiamo noi le cose, chi deve saperle?”
“Eh già! In effetti, se non le sapete voi… In ogni modo le cose non stanno proprio in quel modo. C’è un errore… o meglio un equivoco…”
Il maresciallo Moretti annuì comprensivo.
“Un equivoco, dite. E va bene. Sono qui per questo. Voi me lo chiarite e tutto è risolto.”
Efrati sospirò a disagio.
“La questione, maresciallo è che non so nemmeno io se lo si possa definire un apparecchio. È piuttosto un pezzo di arredamento. Un mobile, diciamo così, che arreda la parete del tinello. Nello stipo in basso ci teniamo i liquori, come fosse… un mobile bar, diciamo…”
Il poliziotto lo fissò con una smorfia sarcastica.
“Io sono comprensivo, Efrati. Ma voi non mi dovete coglionare, perché altrimenti mi costringete, mio malgrado, a diventare rigido. E allora tutto si complica e nascono i problemi. Sono certo che mi capite.”
Sotto il tono bonario della voce, ora Efrati avvertiva una vena di minaccia.
“Avete ragione,” si affrettò a correggersi, “mi sono espresso male, ma non volevo farmi gioco di voi. Il fatto è che effettivamente ha l’aria di un mobile. E d’altro canto più che una radio è soprattutto un grammofono. Noi in effetti ci ascoltiamo solo i dischi.”
Il maresciallo tornò a sfogliare le carte e quando trovò ciò che cercava puntò il dito su una parola.
“Qui c’è scritto: radiogrammofono. Radio…” ripeté spiccando le sillabe e mimando con le mani la separazione, “…grammofono.”
Fissò l’ebreo, quasi si aspettasse di dover rintuzzare qualche altra risibile eccezione, ma Efrati ormai taceva, incapace di trovare un qualunque appiglio per sostenere una causa che sapeva, comunque, persa in partenza.
Il maresciallo trasse dalle sue carte un modulo ciclostilato e cominciò a stilarlo in silenzio.
“È il verbale di sequestro?” chiese Efrati rassegnato.
Moretti annuì, senza interrompersi.
“Sentite maresciallo, vi parlo come un padre. Voi lo sapete qual è la nostra condizione. Mio figlio è stato cacciato dalla scuola pubblica ed ha perso tutti i suoi amici, tutti i suoi compagni. Poi ha visto sua madre cacciata dal ministero dov’era impiegata. Sa perfettamente che io mi arrangio come posso. Che insegno cultura ebraica alla nostra scuola, tanto per sbarcare il lunario, perché ho dovuto cedere, per motivi razziali, la mia agenzia di viaggi. Avete un idea di come possa vivere un ragazzino una situazione del genere? Quell’apparecchio per lui è importante. Rappresenta un ultimo ancoraggio ad una realtà e ad un mondo che sente estranei e da cui si sente respinto. Ve lo chiedo come un padre, maresciallo, e Dio sa se mi pesa umiliarmi in questo modo. Aiutatemi. Fatelo per mio figlio.”
Moretti lasciò cadere le carte sulle ginocchia e si passò una mano fra i capelli. Guardava l’ebreo con un’espressione del tutto solidale.
“Come faccio, Efrati, ditemelo voi? Non sono io che faccio le leggi. Io le devo solo fare applicare.”
Sospirò, scuotendo il capo.
“Vorrei potervi aiutare, credetemi. Ma sono comandato. Devo rendere conto di ogni cosa ai miei superiori.”
Efrati non si dette per vinto. Anzi gli sembrava di cogliere nelle parole del poliziotto un principio di cedimento.
“Santo cielo, maresciallo, si tratta solo di chiudere un occhio. Dite che non l’avete trovato l’apparecchio. Che l’avevo venduto nel frattempo. Non mettete mica in pericolo la Nazione lasciando che un ragazzino ascolti un po’ di musica.”
Moretti sorrise.
“Voi la fate facile Efrati, solo perché non sapete come funziona la burocrazia. Quando una pratica è istruita non c’è più niente che la possa arrestare. È come se avesse una sua vita autonoma che la costringe a correre lungo un binario obbligato. Adempimenti. Verifiche. Sopralluoghi. La volete insabbiare? Dovete mettere d’accordo un mucchio di gente, chiedere favori, dare spiegazioni. E poi, statene sicuro, quella salta di nuovo fuori nel momento meno opportuno, magari come arma di una faida interna. Date retta ad uno che ne ha viste di tutti i colori. Quando una pratica ha preso il via…”
Lasciò la frase in sospeso, ma intanto, agitando una mano sottolineava quanto ineluttabile fosse il corso degli eventi burocratici.
Efrati annuì rassegnato, e si accasciò senza argomenti sulla poltrona.
Il maresciallo aveva ripreso in mano le sue carte, ma teneva la stilografica lontana dai fogli. Continuava a tergiversare come se stesse riflettendo ad una qualche possibile soluzione.
“Statemi a sentire,” disse alla fine, “io adesso compilo il verbale di sequestro e nel verbale stesso vi nomino custode dell’apparecchio fino all’effettiva presa di possesso da parte degli organi preposti. Questo lo posso fare e lo faccio volentieri. Ad occhio e croce passeranno dieci, quindici, forse perfino venti giorni prima che vengano a ritirarlo. Così voi avrete tutto il tempo di spiegare la situazione al ragazzo e di fargliela accettare poco per volta. Di farlo abituare all’idea…”
Efrati non seguì il consiglio.
Appena uscito il maresciallo, chiamò suo figlio e gli raccontò per filo e per segno che cosa fosse successo.
“Non è giusto,” protestò David cercando di non cedere al pianto.
“Lo so che non è giusto. Ma ci sono le leggi razziali, te l’ho spiegato…”
“Non mi importa delle leggi. Quel grammofono è mio. Non hanno il diritto di rubarmelo.”
Il padre assentì, arruffandogli i capelli.
“Hai ragione, amore mio. Ma siamo ebrei, non te lo dimenticare. Tutta la nostra storia è costellata di ingiustizie. La schiavitù in Egitto, la cacciata dalla Spagna, i ghetti, i pogrom. Abbiamo subito ogni genere di persecuzione, ma non ci siamo mai arresi.”
Ora fissava il figlio negli occhi, stringendolo per le spalle. “Non lo faremo nemmeno oggi, non è vero David?”
Il ragazzino scosse la testa.
“Dobbiamo essere forti David. Io lo so che è un brutto momento, per te come per tutti noi. Ma passerà, non temere. Kadosh Baruchù ci ha sempre protetti e continuerà a farlo, perché noi siamo il Suo popolo.”
David assentiva, ma senza molta convinzione.
Continuava a pensare al suo apparecchio e a quella gente che sarebbe venuta a portarselo via.
Ora le lacrime gli annebbiavano la vista.
“Va bene David, hai ragione. È una grande ingiustizia e se vuoi piangere, lo puoi fare. C’è una cosa però che ti dovrebbe consolare. Kadosh Baruchù sa riconoscere i malvagi e non lascia impunite le loro azioni.”
David adesso singhiozzava silenziosamente.
“Te lo ricordi quante piaghe ha mandato Dio al Faraone?”
“Dieci,” sussurrò il ragazzino, asciugandosi le lacrime col dorso della mano.
“E chi è finito sulle forche erette da Aman per impiccare gli ebrei di Babilonia?”
“Aman e tutti i suoi complici.”
“E allora David, vanne sicuro. Se Kadosh Baruchù ha avuto ragione della crudeltà del Faraone e ha fatto giustizia di Aman, di certo saprà come punire anche il Gran Buffone ed il Re Nanerottolo.”
David sorrise suo malgrado, sentendo il padre usare a voce alta quegli epiteti che generalmente sussurrava, raccomandando a lui di non usarli mai, per nessun motivo al mondo.
“È così, David. Verrà il giorno che quei due pagheranno per tutte le loro malefatte. E quel giorno, stanne certo, Kadosh Baruchù gli presenterà anche il conto del tuo radiogrammofono.”
David annuì, ma certo la prospettiva di una lontana giustizia non cancellava l’infelicità di quella perdita imminente.
Il padre lo abbracciò stretto e d’improvviso un’idea gli baluginò per la mente.
“Stammi a sentire…,” gli sussurrò nell’orecchio.
David annuiva mentre il padre parlava e, a poco a poco, la sua espressione si aprì in un sorriso malizioso.
Il maresciallo Moretti tornò quindici giorni più tardi, accompagnato da una squadra di facchini ed Efrati lo accolse sulla porta con suo figlio che lo stringeva per mano.
“È tutto pronto maresciallo, accomodatevi, vi faccio strada.”
Lo guidò per il corridoio, fino alla porta del salotto.
Quando si accese la luce, il poliziotto rimase impietrito, senza parole.
I mobili e i tappeti erano stati rimossi e tutto il pavimento era occupato da viti, bulloni, manopole, lampade, tiranti, valvole, ingranaggi, supporti, fili elettrici, interruttori.
Il radiogrammofono era stato smontato fin nelle sue parti più esigue e giaceva lì in terra, spezzato, sezionato, segato, ridotto in frantumi mentre ognuno dei suoi minuti frammenti era stato disposto sul pavimento in un ordine maniacale e incomprensibile, fatto di linee contorte ed interrotte.
“Volevamo vedere come era fatto dentro,” spiegò Efrati, stringendo forte la mano di David, “ma poi non siamo più stati capaci di rimontarlo. I pezzi, comunque, ci sono tutti, potete controllare.”
“Capisco,” mormorò Moretti che in realtà non capiva affatto.
Certo, se avesse conosciuto l’ebraico, quel garbuglio di linee e quegli astrusi ghirigori sul pavimento non avrebbero avuto misteri.
“Beyad chazakah,” c’era scritto in caratteri ebraici, “con mano potente.”
Così Dio aveva colpito il Faraone in Egitto.
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