Un uovo, un cibo semplice eppure carico di significati. Un cerchio che fa coincidere in ogni suo punto la fine e l’inizio o, meglio, la nascita o la rinascita nella morte. Si mangia nel lutto ma anche in una nascita, un simbolo che racchiude la storia del popolo d’Israel, che un po’ come l’uovo, più si tenta di cuocerlo e più si indurisce, più si tenta di distruggerci e più ne usciamo fortificati, è il cibo del resiliente, dell’ebreo che non si spezza ma si fortifica. Qualche giorno fa ascoltai una lezione del mio maestro, Rav Yehudà Kahalon Z”L, dove spiegava che esiste una “coincidenza” misteriosa nel calendario ebraico: Il primo giorno di Pesach corrisponde sempre al giorno di Tisha Beav. Un dettaglio che non può essere casuale. Il giorno in cui celebriamo la libertà e quello in cui piangiamo la distruzione, si riflettono l’uno nell’altro. È come se Hashem ci dicesse: “Dove pensi di vedere solo lutto, c’è già la radice della redenzione.”
Nel piatto del seder troviamo un uovo che ricorda sì, la distruzione del Tempio, ma… anche il sacrificio festivo, così come nel pasto precedente Tisha Beav, un uovo per la distruzione ma…anche per la redenzione: Il Mashiach (paragonato a Moshè) nascerà di Tisha beav. Interessante simmetria.
Questo Shabbat, precedente a Tisha Beav, leggeremo il libro di Devarim e l’Haftarà di Isaia, chiamata Chazon- Visione. Una cosa accomuna questi tempi: la parola Echà, presente nella Parashà, nell’Haftarà e nell’omonima Meghillà di Tisha Beav. Un altro Echà compare, per la prima volta, nella Genesi ma punteggiato diversamente: Ayeka-Dove sei? La domanda di Hashem all’essere umano.
E così, la storia dell’esilio si racconta in quattro espressioni di frattura: Ayeka di Adam, Eikhà di Moshe, Eikhà di Yeshayahu, Eikhà di Yirmiyahu. Quattro gridi. Quattro cadute. Quattro volti del galut che si trasformeranno nelle quattro espressioni di redenzione del seder, nei quattro bicchieri di vino, nei quattro figli, nelle quattro lettere del nome di Hashem che verranno riparate. Il primo, Ayekà, lo pronuncia Hashem stesso ad Adam. È la crisi esistenziale originaria. L’uomo si nasconde da Dio. Ha smarrito sé stesso, ha perso la sua identità. È il figlio che non sa nemmeno cosa chiedere: She-eino yodea lish’ol. Il secondo, Eikhà esa levadì, lo dice Moshe. È il grido del leader solo, schiacciato dal peso di un popolo difficile, una sorta di frattura tra individuo e società nonostante quest’ultima ancora tenga una parvenza di stabilità. È il figlio Tam, che chiede con semplicità e ingenuità: “Mah zot?”. Non capisce, ma vuole capire. Il terzo, Eikhà hayta lezonà, è il grido di Yeshayahu. La società è corrotta. È il Rashà, che dice: “Queste leggi sono per voi, non per me”. Sfida l’ordine, rifiuta i valori. Si è tagliato fuori, ma è ancora dentro. Il quarto, Eikhà yasheva badad, è quello di Yirmiyahu. È il silenzio delle rovine, la solitudine del Tempio. La società è ormai solo distruzione, abbandono assoluto. Ma il punto più basso è anche il momento in cui nasce il Mashiach. È il Chacham, che chiede: “Ma cosa significa tutto questo? Quali sono le leggi che dobbiamo rispettare?” “Da dove dobbiamo ripartire”. Cerca la redenzione dentro al dolore. I quattro figli della Haggadà non sono solo tipi pedagogici. Sono quattro reazioni spirituali alla crisi. E la Torah li include tutti. Nessuno viene escluso dal tavolo. Perché anche chi ha sbagliato, anche chi non sa, anche chi si ribella, può tornare.
E proprio come ogni figlio riceve una risposta, così ogni Eikhà riceve una promessa di Geulà:
A chi è perduto: “VeHotzeiti” – Ti tirerò fuori; A chi è confuso: “VeHitzalti” – Ti salverò dal caos; A chi si è separato: “VeGa’alti” – Ti redimerò anche se hai voltato le spalle; A chi cerca senso: “VeLakachti” – Ti prenderò come Mio.” Questa simmetria profonda ci insegna che il Galut non è il contrario della Geulà. È il suo inizio nascosto. Ed è per questo che l’uovo è nel Seder e nell’ultima cena prima del digiuno. Perché ciò che nasce dal dolore – se nutrito con fede – può diventare vita nuova. E allora, se anche oggi leggiamo Eikhà, se ci chiediamo ancora: “Come è potuto succedere tutto questo?”, ”Dove sei Hashem”, ricordiamoci che Hashem come uno “specchio” ci risponde con la stessa domanda: “Ayeka – Dove sei?” E se avremo il coraggio di rispondere, anche spezzati, anche stanchi, anche in lacrime… Allora scopriremo che dentro ogni Eikhà c’è già un “VeLakachti” che ci aspetta.
E Hashem, come un Padre che non smette mai di cercare i suoi figli, ci prenderà per mano…
… e ci porterà finalmente a casa- BAIT, la Terza.