Di Rosh Hashanà, in alcuni riti, si usa recitare brani dello Zohar prima del suono dello Shofar dove, in particolare, si citano questi tre versi:
1. Esaù odiò fortemente Giacobbe a causa della benedizione che gli diede suo padre e pensò in cuor suo: “si avvicineranno i giorni di lutto per mio padre quando ucciderò mio fratello” (Genesi 27:41).
2. In quel giorno, Esaù tornò per la sua strada verso Seir” (Genesi 33:16).
3. E Giacobbe viaggiò verso Sukkot e il Signore costruì per lui una casa e per il suo gregge fece delle capanne, per questo quel luogo fu chiamato Sukkot (Genesi 33:17).
Il primo verso allude ai dieci giorni tra Rosh hashanà e Kippur in cui “Esaù” insegue “Giacobbe” il quale scappa e si salva da lui grazie alla Teshuvà. Il giorno di Kippur Giacobbe manda a Esaù la sua offerta (allusione del capro espiatorio destinato ad Azazel) affinché egli vada per la sua strada e non perseguiti più Israele. Nel momento della quinta preghiera di Neilà si realizza quanto scritto nel versetto della Torà “in quel giorno, Esaù tornò per la sua strada verso Seir”, nel senso che colui che vuole nuocere ad Israele se ne va per la sua strada e il Signore espia le colpe di Israele. Ed è allora che il Signore vuole gioire con i suoi figli e per questo è scritto che “E Giacobbe viaggiò verso Sukkot e il Signore costruì per lui una casa”, cioè la Sukkà, dove Israele abita per sette giorni e all’interno della quale viene protetto e salvato dal suo accusatore.
La Sukkà dunque, è il luogo dove ognuno di noi viene protetto dall’azione delle forze dell’impurità che non solo non possono toccarci, ma addirittura scappano lontane da noi. Come la Torà stessa insegna “vedranno tutti i popoli della terra che Il Signore vene invocato sopra di te e avranno paura di te” (Deuteronomio 28:10). La fonte di questo assunto si trova nelle parole di Rabbì Yztchaq Luria: “il motivo del precetto della Sukkà per sette giorni è perché l’essenza della Sukkà è collegata con l’Or Maqif (Luce circostante; luce divina che illumina i mondi superiori e tutte le creature che non possono riceverla perché al di sopra del mondo materiale. L’ Or Makif è più di una semplice benedizione. È un segno della grande profondità dell’amore del Creatore, un assaggio del Mondo Infinito).
I maestri del Midrash Tanchumà insegnano che il verso della Torà che comanda di prendere Lulav il primo giorno della festa, alluderebbe anche al fatto che il primo giorno di Sukkot sia “primo per il conto dei peccati”. E Rabbì Levì Yitzchak di Berditchev (1783-1841) spiega tra Rosh Hashanà e Kippur la nostra Teshuva, qualora la facessimo, sarebbe motivata dal timore, dalla paura di uscire colpevoli il giorno del Giudizio quando il Signore siede sul trono della giustizia. Tuttavia, dopo questi dieci giorni, quando il Signore ha comunque cancellato le nostre colpe, arriva la festa di Sukkot chiamata il “tempo della nostra gioia” in cui osserviamo i precetti della Sukkà e delle quattro specie (il Lulav: palma, cedro, mirto e salice), attraverso i quali la Torà dice “gioirete davanti all’Eterno vostro Dio” (Levitico 23:40). Provare questa gioia significa aver fatto ancora Teshuva, ma stavolta motivata dall’amore.
Il Talmud (Yomà 86b) riporta un insegnamento che afferma che per mezzo della Teshuva per timore, le colpe volontarie possono essere trasformate in colpe involontarie, mentre con la Teshuva per amore addirittura diventare dei meriti. Per questo il Midrash Tanchumà dice che il primo giorno di Sukkot è “primo per il computo dei peccati” nel senso che il Signore, grazie alla Teshuva per amore, in questo momento fa il conto delle colpe per trasformarle in meriti.
Nelle Massime dei Padri è scritto: “Aqavya ben Mahalalel diceva: Tieni d’occhio tre cose e non peccherai: sappi da dove vieni, dove stai andando e davanti a chi sei destinato andare in giudizio e a rendere conto” (Avot 3:1). Alla luce di questo Midrash, il Gaon di Vilna spiega questo insegnamento sottolineando che quando una persona trasgredisce una norma della Torà, di fatto fa due cose negative: 1. un’azione che è contraria alla volontà del Signore; 2. non aver compiuto una mitzwà. Ecco Aqavyà, quando dice che dobbiamo in fututro “andare in giudizio – din” intende per le colpe commesse e “rendere conto – cheshbon” per le mitzwoth non compiute.
Pertanto con la teshuva per timore, quando le trasgressioni volontarie sono trasformate in involontarie, non possiamo essere condannati a “rigore di giudizio- din”, tuttavia quelle colpe dovranno essere espiate secondo il “rendere conto – cheshbon”. La Teshuva per amore è necessaria quindi per ottenere quella espiazione sia dal rigore del giudizio sia dalla resa dei conti, per cui ogni trasgressione sarà alla fine considerata come una mitzwà compiuta.
Ma come è possibile far scaturire in noi la Teshuva per amore per mezzo della mitzwà di risiedere per sette giorni nella Sukkà?
A questa domanda risponde Rabbì Yztchaq Luria (Aryzal, 1534-1572).
Nell’opera “Shaar Haqawwanot” l’Aryzal ricorda la norma che una Sukkà è considerata idonea anche se ha due pareti grandi e una terza più piccola. Questa forma rappresenta l’allusione all’abbraccio di Dio al Suo popolo: “un braccio è fatto di tre parti, la prima lunga che si collega alla spalla, la seconda centrale sempre lunga e la finale, il palmo della mano, la più piccola.
Se pensiamo alla forma del braccio quando è nella posizione di abbraccio richiama esattamente la forma della Sukkà.
Risiedere nella Sukkà vuol dire essere abbracciati da Dio, vuol dire ricevere il segno della grande profondità dell’amore del Creatore che è la spinta per far scaturire in noi lo stesso amore, grazie al quale la nostra Teshuvà sarà completata.
Chag Sameach umoadim lesimcha a tutti!