Nell’ora di Ne’ilà 5771, 18 settembre 2010
Tra due giorni, il 20 settembre, la nostra Comunità parteciperà alle celebrazioni ufficiali in Campidoglio per il 140esimo anniversario di Porta Pia e i 150 anni dell’Unità d’Italia. In una sede molto autorevole ci è stato chiesto se e con quale spirito avremmo partecipato. Per spiegare che questa è proprio una nostra festa, ho ricordato la storia del primo colpo di cannone che aprì la breccia di Porta Pia, sparato da una batteria agli ordini di un ufficiale ebreo, l’unico a non doversi preoccupare della minaccia di scomunica papale per chi per primo avesse aperto il fuoco contro le mura di Roma. Alcuni discendenti di quell’ufficiale sono membri della nostra Comunità.
Perché ricordare questa storia proprio ora e qui, in uno dei momenti più sacri della vita religiosa ebraica? Perché la tanto desiderata conquista della libertà per i nostri antenati di questa città, fine della barbarie dell’ultimo ghetto dell’Europa Occidentale, fu anche l’inizio di una nuova forma di vita ebraica e di una rivoluzione di abitudini e di modi di pensare.
Dopo 140 anni, due cicli completi di 70 anni, non si riflette spesso su quanto le scelte di una gran parte della Comunità di allora abbiano segnato fino ad oggi i nostri modi di vivere l’ebraismo. Il mondo circostante offriva la libertà e l’uguaglianza, anche se non proprio la fraternità, aprendo opportunità che fino a poco prima erano state solo un sogno. Gli ebrei di allora le sfruttarono appieno, ma a prezzo di un cambiamento radicale del modo di vivere e sentire l’ebraismo. E’ in quel momento che divenne regola comune la distinzione tra l’essere ebrei dentro casa e cittadini fuori dalla porta di casa, la divisione tra principi di fede teorici da coltivare e riti religiosi da trascurare, l’inversione della scala di importanza per cui qualsiasi tipo di studio civile doveva essere prioritario e lo studio della Torà secondario o marginale, la debole o mancata resistenza all’imposizione di convenzioni e abitudini esterne in totale sfregio alla sacralità del Sabato, di ogni altra festa e di ogni altra norma. Un processo che una volta iniziato divenne progressivamente autodistruttivo, erodendo i fondamenti del nostro sistema. Ciò che è successo a Roma in una data ben precisa, si è verificato ovunque ogni volta in cui il mondo si è aperto agli ebrei. E per chi si è mosso da un luogo all’altro qualche volta sono bastati anche pochi mesi, per cambiare abitudini di secoli.
Ci è stato trasmesso un ebraismo mutilato, di compromesso, privato delle sue ricchezze più preziose, e malgrado questo ci è stato presentato come se fosse la condizione normale.
Perché ricordare queste cose nell’ora di Ne’ilà? Perché questo é il momento unico e raro in cui le nostre Sinagoghe si riempiono come mai succede in tutto il resto dell’anno e noi partecipiamo ad una straordinaria esperienza collettiva. Il rumore di fondo della nostra folla, dovuto alle chiacchiere che almeno per un’ora bisognerebbe sospendere, cessa magicamente quando il Cohen dà la berakhà e il beth hakeneset si trasforma in una distesa bianca di talledot che uniscono i nuclei famigliari, o quando passano i Sefarim, o quando suona lo shofar. In questi momenti l’ebraismo è vissuto non come un ragionamento che deve convincere ma come una voce antica e potente che parla direttamente e potentemente all’anima, la chiama verso ciò che è sacro.
Ma quanto dura questo ascolto? Quanto è efficace? Quanto incide nelle nostre coscienze? E’ in queste ultime ore che dovrebbe culminare il nostro processo di teshuvà iniziato 40 giorni fa. Teshuvà, che convenzionalmente si traduce “pentimento”, è letteralmente il “ritorno” da una strada sbagliata. Ma nella lingua ebraica comune teshuvà significa anche “risposta”. Se c’è una risposta ci deve essere una domanda. Quale? Ne potremmo immaginare tante, da quelle generiche, tipo: ti sei comportato bene? a quelle più radicali, tipo: sei sicuro che il tuo modo di essere ebreo, come ti è stato trasmesso o come te lo sei costruito, sia quello giusto e non debba essere messo in discussione? Sei sicuro che la libertà e la pace che ti offre la società circostante debba essere goduta cancellando per forza il proprio ebraismo?
Essere ebrei è sempre difficile, sia sotto le dittature che umiliano corpo e spirito che nelle società libere che attraggono e seducono. La libertà arrivò per gli ebrei in Egitto quando la schiavitù li aveva abbrutiti al punto tale di farli scendere fino all’ultimo di quelli che la tradizione chiama i 50 gradini dell’impurità. Ma subito dopo l’Esodo e la liberazione ci fu bisogno della Torà. Noi crediamo di poter fare a meno della Torà, o di poterla usare come un catalogo o un menù dal quale scegliere l’articolo o la portata che ci piace. Non deve essere così. Se è giusto usare uno spirito critico, il primo oggetto della critica deve essere il nostro modo di pensare e le nostre abitudini. Intorno a noi tra l’altro sta succedendo qualcosa di speciale che ci riguarda e nemmeno ce ne accorgiamo, mentre siamo attenti perlopiù a vigilare su ogni forma di antisemitismo. Mentre molti ebrei scappano dall’ebraismo, l’ebraismo esercita un’attrazione speciale e irresistibile al nostro esterno, che rimane stupito dalla genialità del nostro pensiero, dalla ricchezza della nostra cultura, dal fascino dei nostri riti. Guardate quanti libri sull’ebraismo, che pochi di noi leggerebbero, sono stampati in italiano e anche venduti; quante pagine dei quotidiani ogni giorno parlano di noi e della nostra cultura. Siamo al centro di un’attenzione positiva e non ce ne rendiamo conto. Possediamo dei tesori e non sappiamo di averli o cosa farne. Ci resta magari un senso di difesa; ci preoccupiamo molto dell’antisemitismo e questo è giusto. Ma attenzione a non confondere due tipi di lotta all’antisemitismo. C’è chi lotta contro l’antisemitismo perché non lascia agli ebrei la possibilità di confondersi con gli altri. E c’è chi lotta contro l’antisemitismo perché non lascia agli ebrei la possibilità di essere ebrei. E’ di questo secondo aspetto che dovremmo occuparci e preoccuparci.
L’ora di Ne’ilà, nella quale immaginiamo simbolicamente che si chiudano le porte dei palazzi in cielo, e nella quale il Re firma per ognuno di noi la sua sentenza, è l’ora in cui dovremmo fare anche noi i nostri conti finali e non lasciare che l’emozione passi senza lasciare un segno, un impegno, un ritorno, una risposta. Soprattutto un investimento sul futuro.
L’anno che è passato lascia il suo strascico penoso di catastrofi naturali e disastri ambientali dovuti alla responsabilità umana, insieme alle polemiche infinite e poco utili del nostro piccolo mondo interno che imita la società generale, tutte cose che hanno messo in evidenza la sostanziale debolezza umana; di tutto l’anno vorrei ricordare un’unica immagine, dello scorso gennaio: quella dell’ospedale da campo montato dai soldati israeliani a poche ore dal terremoto di Haiti, dove sono state salvate migliaia di vittime, mentre la gente locale applaudiva con gratitudine “viva Israele”. E’ il valore ebraico della scienza unita alla solidarietà umana, che Maimonide avrebbe chiamato con i nomi di maddà’ e ahavà. Abbiamo delle enormi forze e potenzialità, per correggere noi stessi e riparare il mondo, che traggono la loro energia proprio da qua dentro, in questi luoghi consacrati, nel legame con gli insegnamenti della nostra tradizione. Adoperiamoci per trarre da questo forza e continua ispirazione.
A tutti un caro augurio di chatimà tovà
Rabbino capo di Roma