In una delle Parashot che leggiamo questa settimana, Parashat Mas’è, è scritto: “Comanda ai figli d’Israele:… Questa è la terra che vi toccherà in eredità, la terra di Canaan e i suoi confini” (Bamidbar 34:2) Queste ultime parti del libro di Bamidbar concludono la storia della generazione uscita dall’Egitto e del loro soggiorno nel deserto, generazione quasi tutta perita prima di raggiungere la Terra Promessa. Il peccato commesso dagli esploratori era avvenuto nel secondo anno del soggiorno nel deserto, quando furono tutti informati che il deserto sarebbe diventato la loro destinazione finale e che non avrebbero potuto entrare in Eretz Israel. Come hanno fatto gli Ebrei ad avere la forza di perseverare per i successivi 38 anni, sapendo che l’obiettivo di colonizzare la Terra d’Israele non si sarebbe realizzato durante la loro vita?
Ad un livello più profondo e subconscio, ognuno di noi è afflitto da questo problema non appena diventiamo consapevoli della nostra mortalità, in genere quando siamo più in là con gli anni. La maggior parte di noi, con l’avanzare degli anni, trova difficile reprimere tali “intimazioni di mortalità”. Il Midrash insegna che ogni anno, dopo il peccato commesso dagli esploratori, Moshè ordinò ad ogni ebreo di scavare la propria tomba la sera di Tish’a beAv e di dormirci. La mattina dopo, una percentuale significativa non si sarebbe alzata (Bava Batra, 121a Rashbam). La generazione del deserto non riuscì a reprimere un senso della propria imminente rovina, ma il modo in cui riuscirono a venire a patti con la realtà ci può insegnare una lezione importante.
Il segreto della loro sopravvivenza è insito nel modo in cui la Terra doveva essere divisa, come descritto nella Parashà di Mas’é che leggiamo questa settimana. Questo aspetto è richiamato anche nella Parashà di Pinechas che abbiamo letto la scorsa settimana, dove un versetto implica che la Terra doveva essere divisa in base al numero di persone che vi entravano fisicamente (Bamidbar 26:53), mentre due versetti dopo, il testo implica che la divisione era basata sui numeri della generazione che lasciò l’Egitto e morì nel deserto. Questi versetti sembrano contraddirsi e necessitano di una spiegazione
Il Talmud (Bava Batra 117a) porta una soluzione a questa apparente contraddizione per mezzo di un esempio pratico: Reuven e Shim’on lasciano l’Egitto; Reuven ha un figlio, Shim’on ne ha due. I tre figli che entrano nella terra di Canaan ricevono tre porzioni di eredità, a rappresentare il fatto che questo è il numero di figli che fisicamente ereditano la terra. Ma per dare credito ai due padri che uscirono dall’Egitto, i tre ragazzi dividono le loro porzioni a metà: il figlio di Reuven riceve una porzione e una metà, e i due figli di Shim’on uniscono le loro eredità per ricevere ognuno la loro porzione e una metà.
Ciò spinge Rabbì Yonathan a gridare: “Quanto è diverso questo da qualsiasi altra eredità; In genere i vivi ereditano dai morti, mentre qui i morti ereditano dai vivi!” La logica del Talmud rappresenta in realtà un messaggio molto importante. La narrazione del Popolo di Israele è una sinfonia incompiuta, che ha inizio con Avraham e non si concluderà fino all’avvenuta Redenzione finale del mondo. Ogni generazione deve i suoi successi alle solide fondamenta stabilite dai suoi antenati. In questo modo la generazione che uscì dall’Egitto ma che non poté entrare nella Terra Promessa, ebbe possibilità di condividere l’eredità dei figli. Questo spiega una frase apparentemente criptica che contiene un insegnamento che viene tramandato ogni anno attraverso l’Haggadà di Pesach: “È dovere di ogni individuo sentirsi come se fosse personalmente uscito dall’Egitto”. Superficialmente, un’emozione del genere sembra impossibile. Come possiamo noi identificarci con qualcosa che è accaduto approssimativamente 4.000 anni fa?
La risposta risiede in un’esperienza che molti vivono in prima persona quando, la sera del Seder, si siedono al tavolo attorno al quale si celebra Pesach dove, attraverso i propri figli e i propri nipoti, possiamo riconoscere alcune delle nostre caratteristiche genetiche ma, ancora più importante, possiamo rivedere i nostri valori e le nostre usanze, nelle loro parole e nelle loro azioni: In quel momento è possibile capire quanto di noi risiede in loro e quanto di loro fosse risiede in noi. Anche se noi non siamo i nostri nipoti e loro non sono noi, è in quel preciso momento che è possibile smettere di avere paura della propria mortalità, perché quanto viviamo ci mostra fino a che punto è possibile partecipare all’eternità. Come dice eloquentemente il Talmud: “Yaakov non è mai morto” (Ta’anit 5b). Finché i suoi figli e nipoti sono vivi e seguono le sue usanze e i suoi valori, anche lui è vivo.
Sebbene sia importante la trasmissione di questa eredità in ambito familiare, questo aspetto non è limitato al contesto familiare e non necessita di figli e nipoti biologici; Chiunque influenzi le nuove generazioni – come insegnante, come autore, come mecenate, o come chiunque renda possibile la continuità della narrazione – condivide questa eternità. I “figli spirituali” possono essere persino più significativi dei figli biologici. Quello che è fondamentale è essere permeati dal desiderio di preservare nel tramandare la nostra narrazione alla generazione futura. È questa interpretazione che ha spinto i nostri saggi a dichiarare: “Chiunque insegni la Torà al proprio nipote è come se l’avesse ricevuta direttamente sul monte Sinai”, come insegnano i nostri saggi: “La corona degli anziani sono i loro nipoti e la gloria dei figli sono i loro antenati” (Mishnà Avot 6: 8).