La Rassegna Mensile di Israel, vol. 51, no. 3 (Settembre-Dicembre 1985): 661-668
Riccardo Di Segni (*)
(*) L’Autore, rabbino e medico, insegna nel Collegio Rabbinico Italiano. È membro del Comitato di redazione della Rassegna Mensile di Israel.
Nella discussione sullo Statuto delle Comunità ebraiche italiane un problema rilevante riguarda i rapporti tra Rabbino e Comunità. Questo argomento era stato già regolato con precise disposizioni nelle leggi sulle Comunità Israelitiche e sull’Unione[1] alle quali erano state portate lievi integrazioni nelle delibere del Congresso Straordinario delle Comunità Israelitiche del 28-29 Aprile 1968[2]. Con il nuovo assetto legislativo l’argomento dovrebbe tornare ad essere, almeno per la maggior parte delle questioni coinvolte, di pertinenza interna delle Comunità; in altri termini la questione resterebbe al di fuori del testo delle Intese, che tratterebbero soltanto il riconoscimento estremo dei titoli e delle funzioni rabbiniche; tutto il resto dovrebbe essere regolato nello Statuto.
Nel momento in cui l’argomento torna ad essere oggetto di discussione ci si chiede quali siano i criteri da adottare nelle nuove norme; se ciò prescrivevano i R. Decreti abbia valore tuttora e pertanto debba essere trasferito negli stessi termini sostanziali nel nuovo testo.
È evidente che questo problema non può essere certamente risolto soltanto secondo le consuetudini e i criteri giuridici della legge italiana. Esso tocca uno degli aspetti più delicati della problematica comunitaria nel suo rapporto con la tradizione e la legge ebraica, di cui appunto il Rabbino rappresenta l’insegnante, l’interprete e il giudice che la applica.
Questa discussione richiede chiarezza su un punto preliminare essenziale: se e fino a qual punto la legge ebraica tradizionale (halakhà) debba essere considerata e applicata in queste scelte. Se tutti o almeno la maggioranza degli ebrei italiani rispettassero fedelmente il modello dell’ortodossia tradizionale la risposta sarebbe ovviamente e naturalmente affermativa. Sappiamo bene invece che coloro che seguono un modello di stretta osservanza rappresentano una minoranza nell’ambito delle Comunità[3]. C’è da chiedersi che senso abbia imporre una posizione di minoranza. In realtà i termini del problema non sono esattamente questi. A parte l’osservanza delle norme, vi è un atteggiamento di fondo nei riguardi della tradizione che è presente in una vasta fascia di popolazione ebraica italiana, difficile da valutare numericamente con precisione, ma certamente maggioritario; è l’atteggiamento per il quale si distingue tra ambito e scelte private, da una parte e struttura e scopi delle istituzioni pubbliche dall’altra. La tradizione, più o meno seguita nelle scelte private, viene riconosciuta come elemento culturale unificante nel momento dell’aggregazione e della socializzazione. Ogni disposizione legislativa deve di conseguenza tenere conto di questa posizione.
La dimostrazione del fatto che questa posizione sia realmente condivisa dalla maggioranza dovrebbe scaturire da sondaggi e votazioni (ed è ciò che si verificherà nel corso del prossimo congresso che dovrà votare lo Statuto); ma esiste un altro tipo di dimostrazione, di tipo storico, che è data dal modello di organizzazione comunitaria esistente in Italia, prodotto da un singolare e onorevole compromesso che garantisce la convivenza piuttosto pacifica delle diverse componenti culturali e delle diverse intensità di adesione religiosa; tutto questo mantenendo la fedeltà ufficiale delle istituzioni al modello della ortodossia. È anche il risultato storico della polemica ottocentesca sulla Riforma, che in Italia, per quanto accettata in forma ‘strisciante’, non è mai riuscita ad affermarsi ufficialmente[4]. Non è cosa da poco, per l’ebraismo italiano, aver realizzato un modello di unità delle sue molto diverse componenti, che non intacca l’ortodossia. Se un nuovo congresso deliberasse contro questo modello, si verrebbe a creare una inedita spaccatura verticale che porterebbe fuori dalla ‘maggioranza’ la componente di stretta ortodossia. Chiunque persegua questo obiettivo ne deve seriamente meditare le possibili conseguenze, valutando i possibili benefici a fronte dei danni reali.
Queste considerazioni di ordine generale sono rinforzate dall’esame di alcuni aspetti pratici. Per fare un esempio di che cosa oggi significhi per un ebreo italiano appartenere a una Comunità ortodossa, si pensi al fatto che la certificazione di appartenenza ad una Comunità ebraica italiana e l’attestazione dello stato civile, redatte dal Rabbino locale, sono di norma accettate senza problemi nel mondo ebraico ortodosso. Non è così per ampie fasce di Comunità ebraiche di altre nazioni, in particolare degli Stati Uniti d’America, dove le Comunità sono affiliazioni religiose divise sotto le etichette di ‘ortodossi’, ‘riformati’, ‘conservativi’. In futuro la situazione potrebbe complicarsi ulteriormente: si pensi alle discussioni sulla definizione di ‘chi è ebreo’ ai fini della applicazione della ‘legge del ritorno’ nello Stato di Israele.
Da questo esempio emerge di conseguenza l’importanza di garantire alla funzione rabbinica nelle Comunità alcune prerogative essenziali, necessarie per mantenere la realtà giuridica della denominazione ortodossa, e per assicurare nel futuro l’unità dell’ebraismo italiano con la maggioranza del mondo ebraico. Queste prerogative essenziali sono il controllo dell’anagrafe comunitaria, nell’iscrizione e nella reiscrizione dopo revoca, e la certificazione dello stato civile. Il primo punto è effettivamente previsto nella “Bozza di Statuto – testo approntato dalla commissione giuridica dell’Unione, 20-4-82” (da questo punto sarà chiamata brevemente “Bozza di Statuto”), che all’art. 2, 1-2 riconosce il diritto al Nulla Osta da parte del Rabbino Capo. II secondo punto, quello dello stato civile (che riguarda l’applicazione del diritto matrimoniale ebraico) non è previsto esplicitamente, anche perché forse si dà per scontato che si tratti di una prerogativa rabbinica giudicarlo, ma non sarebbe certo inutile affermarlo con chiarezza.
Questo tipo di attribuzioni, per quanto essenziale per le conseguenze che comporta, è solo una parte delle funzioni esercitate da un Rabbino di Comunità. Normalmente il Rabbino Capo si occupa dell’insegnamento della Torà nelle istituzioni comunitarie, dirige le funzioni sinagogali e le liturgie extrasinagogali (come funerali), controlla i servizi rituali (macellazione, bagno, forno delle azzime ecc.). Tutte queste attività, se sono eseguite nell’ambito comunitario (cioè in edifici di proprietà della Comunità , o da personale in qualche modo da essa dipendente), per il loro buon andamento devono avere due tipi di garanzie in rapporto di reciprocità: da una parte un dirigente responsabile, che risponde alia direzione della Comunità, dall’altra l’impegno a garantire le possibilità tecniche di funzionamento (strutture, finanziamenti ecc.). Il primo ruolo è normalmente attribuito al Rabbino Capo, il secondo al consiglio della Comunità.
Nel testo della Bozza di Statuto, che non si discosta molto dalla precedente legge del 1930, queste attribuzioni sono delineate, ma sarebbe necessaria maggiore chiarezza. L’istruzione e l’educazione religiosa, l’esercizio del culto ecc. rientrano nei compiti istituzionali delle Comunità definiti dall’art. 1 della Bozza di Statuto, e quindi, genericamente, nelle attribuzioni del Consiglio, Giunta e Presidente (artt. 21-25); quanto al Rabbino Capo, secondo l’art. 28, spetta a lui ‘la direzione spirituale della Comunità’, ‘interviene alle sedute del Consiglio e della Giunta con voto consultivo e deve essere inteso quando si tratta di provvedimenti relativi al culto e all’istruzione ebraica’; se la Comunità è ‘priva di Rabbino Capo, spetta al consiglio assicurare nel modo più idoneo i servizi religiosi e culturali. In pratica, che il Rabbino debba assicurare i servizi religiosi e culturali, lo si deduce indirettamente da quest’ultima frase. Il concetto di ‘direzione spirituale’, se può andare come premessa, richiede ulteriori precisazioni, perché ad esempio potrebbe essere messo in discussione se il controllo di una macelleria è questione ‘spirituale’. Per quanto riguarda il dovere dei dirigenti di assicurare i servizi, non c’è niente di preciso. Che fare allora se il consiglio si rifiuta di pagare lo shochèt o di riparare il bagno rituale? Come possono difendersi il Rabbino, come responsabile, e il fedele della Comunità, come utente, da queste possibilità di disservizio? Sono tutte eventualità reali e la casistica comunitaria degli ultimi anni ne è piena di esempi. Evidentemente il ricorso alle votazioni per cambiare un consiglio che non funziona è una procedura molto lenta, e può essere anche possibile che certe esigenza siano espresse solo da una minoranza. Ma torniamo al discorso preliminare: qui si tratta di esigenze essenziali, che rientrano negli scopi istituzionali della Comunità. Certi diritti devono essere comunque garantiti È necessario di conseguenza prevedere strumenti legislativi perché il funzionamento dei servizi debba essere comunque assicurato, anche contro la volontà degli amministratori: non solo contro delibere negative (che sono i casi più eclatanti, di cui discuteremo subito dopo), ma anche contro il rischio più reale e concreto di omissione di atti di ufficio, partendo dal supposto che è atto di ufficio la garanzia del corretto funzionamento dei servizi.
Stiamo qui delineando una eventualità di conflitto tra i dirigenti comunitari e il Rabbino, in quanto rappresentante di alcune esigenze religiose. In proposito è bene chiarire quale è la posizione della halakhà su questi punti[5]. Secondo la legge rabbinica il governo della Comunità viene esercitato secondo principi democratici democratici dai suoi rappresentanti eletti a maggioranza, e con delibere prese a maggioranza. Le delibere (il termine tradizionale è taqqanoth) hanno valore cogente sull’intera Comunità, che vive nel luogo dove la decisione è stata presa e che ha partecipato all’assemblea o eletto suoi rappresentati. Anticamente, in assenza di altre possibilità repressive, l’osservanza di una delibera poteva essere tutelata dalla minaccia della pena della scomunica, una forma di isolamento economico e sociale del re della comunità. Era una prassi abituale, ad esempio, una volta che veniva decisa una tassa, minacciare la scomunica per gli insolventi. In teoria il principio potrebbe valere anche oggi, anche se per noti motivi l’istituto della scomunica è caduto in disuso nelle nostre Comunità. La regola rabbinica stabilisce che le delibere comunitarie accompagnate dalla minaccia di scomunica per i non adempienti, devono essere rispettate con lo stesso rigore delle leggi scritte della Torà le altre delibere, senza riferimenti a scomuniche, hanno lo stesso rigore impositivo delle norme tradizionali dettate dai rabbini.
II governo delle Comunità nel corso della storia si è praticamente basato su questi principi. Quindi anche oggi, nella Comunità italiane, avranno valore secondo la halakhà le delibere dei rappresentanti democraticamente eletti delle Comunità, e in futuro le delibere dei consigli comunitari. Una volta decisa una tassa, o un regolamento qualsiasi, dovrà aver valore su tutti i rappresentati, come se fosse una norma rabbinica tradizionale (visto che la Bozza di Statuto non prevede la scomunica). In tutto questo meccanismo i Rabbini teoricamente non c’entrano. Per la gran parte degli argomenti amministrativi l’autorità politica spetta ai rappresentanti della Comunità e non ai rabbini, ed è quindi giusto che questi ultimi abbiano un solo voto consultivo. Ma a questo punto vi è una riserva fondamentale. La stessa halakhà che conferisce autorità sacrale alle delibere comunitarie, stabilisce che queste non hanno alcun valore quando sono contrarie alla stessa halakhà. Per fare un esempio limite, se un consiglio decidesse di aprire gli uffici comunitari di Sabato, la delibera non avrebbe alcun valore secondo la legge ebraica. È necessario quindi avere un organismo di controllo, una possibilità di appello, una struttura giudicante. Tale possibilità è effettivamente l’art. 21 e dall’art. 51,1-2 della Bozza di Statuto. Secondo questi articoli ogni iscritto può ricorrere contro una delibera del Consiglio che a suo avviso sia contraria alla legge e tradizione ebraica, e il ricorso viene discusso da un Collegio di Probiviri che, dopo aver sentito il parere della Consulta rabbinica, ha l’autorità di dichiarare non valida la delibera. Il Collegio dei probiviri è costituito da tre persone estratte a sorte dalla Giunta dell’Unione tra otto nomi eletti dal Congresso delle Comunità: questi a loro volta devono essere ‘cittadini italiani che abbiano ricoperto la carica di Consigliere della Comunità o dell’Unione’ (art.51, 1). Questo meccanismo, per quanto rappresenti un’importante novità rispetto al passato, rivela ancora degli aspetti discutibili, sia dal punto di vista di principio che da quello della funzionalità pratica. Già a livello del Consiglio di Comunità il potere del Rabbino non dovrebbe essere relegato a quello di semplice consulente, quando si discutono delibere concernenti problemi di legge e tradizione ebraica: si vi sono reali motivi di conflitto sarebbe opportuno conferire al Rabbino l’autorità di chiedere almeno un rinvio o un riesame della delibera contestata, fermo restando per il seguito, il diritto di chiunque al ricorso. Quanto al collegio giudicante, la sua composizione non offre garanzie per la tutela dei principi in discussione. Si tratta di un collegio politico investito di capacità di giudizio, ma non di un collegio giuridico. Sarebbe come dare la toga di giudice costituzionale a chi non ha la laurea in giurisprudenza (cfr. l’art. 135 della Costituzione). Anche in questo caso un vero collegio giuridico già esistente, la Consulta Rabbinica, interviene solo per dare un parere. È chiaro che se il conflitto riguarda la Consulta Rabbinica, deve essere qualcun altro a giudicare, ma chi giudica deve pur avere gli strumenti giuridici. Un giudizio di conformità alla legge rabbinica può essere espresso solo da esperti di legge rabbinica. Invece, paradossalmente, qui si richiede soltanto la cittadinanza italiana (concetto ignorato dalla halakhà) e l’esperienza politica di consigliere. Insomma qui vi è un nodo politico e di principio essenziale da sciogliere: anche in questo caso il modello equilibrato di compromesso e convivenza rischia di essere attaccato nelle sue basi.
In questa discussione sui rapporti tra Rabbino e Comunità, alla luce della legge ebraica tradizionale, non si possono omettere altri dati che inseriscono il nostra problema in una più ampia prospettiva. È noto ad esempio che nei codici tradizionali (come quelli di Maimonide, o Ya’akòv ben Asher o di Caro) non esiste una trattazione sistematica dell’argomento. Vi sono regole che parlano del rispetto dovuto ai rabbini; della loro autorità a istruire secondo la legge, a giudicare, a punire; dei rapporti reciproci tra maestri e relativi conflitti di autorità. Sui ‘Rabbini Capi’ vi è solo qualche accenno in note successive. Che senso ha allora parlare di rapporti Rabbino/Comunità alla luce della legge ebraica, quando questa non prende il problema in considerazione?
La causa dell’omissione del problema nei testi classici è dovuta al fatto che la figura del Rabbino Capo, cioè di un rabbino nominati ufficialmente nella Comunità, è relativamente recente nella storia ebraica[6]. In Italia la nomina dei rabbini da parte di alcune Comunità è iniziata nel Rinascimento, con notevoli differenze di attribuzioni legate alle differenti tradizioni e appartenenze (sefardita, italiana, ashkenazita), e solo molto tardivamente si è avuta una certa omogeneità di funzioni. Le Comunità che non avevano un rabbino nominato, non ne sentivano la necessità perché i rabbini svolgevano ugualmente le loro funzioni negli ambiti che erano loro propri: dalla scuola, la jeshivà, ove esisteva una gerarchia interna basata, sull’anzianità e la cultura, alla Sinagoga, o le differenti Sinagoghe. È proprio questa la situazione regolata nei codici classici. Presso le antiche comunità italiane, secondo quanto è possibile intuire da fonti sporadiche, l’organizzazione munitaria si appoggiava per questioni pratiche a una figura professionale differente da quella del Rabbino, il chazàn, con le funzioni spesso associate a quelle di scriba e segretario. Gli esuli dalla Spagna portarono con sé un modello più definito di Rabbino al servizio della Comunità, che aveva come compiti specifici l’insegnamento, la risposta ai quesiti rituali, la guida morale, l’oratoria sinagogale. Le comunità del Nord Italia sentirono il bisogno di nominare un rabbino per altri motivi: fu determinante la necessità di avere una autorità rabbinica che confermasse le decisioni dei dirigenti comunitari, sostenendole con aspetto di sacralità (in particolare per le decisioni accompagnate da scomunica). In questa chiave si crearono le basi per un rapporto molto dinamico tra i due poli, quello laico e quello rabbinico, che a seconda delle differenti condizioni locali ebbero varie soluzioni; da un aumento di autorità e prestigio conferiti al rabbino a uno stato più o meno avvilente di dipendenza economica e di giudizio.
Queste note storiche servono a chiarire alcuni dati: in primo luogo che il modello legislativo di cui oggi stiamo discutendo non è una novità, ma neppure rappresenta una situazione assoluta radicata alle origini della storia ebraica. In Italia è presente da circa quattro secoli; nella sua configurazione più recente è il prodotto di una particolare evoluzione storica, che ha oggi ancora un significato preciso e una funzione indiscutibilmente positiva; ma comunque resta il principio per il quale la figura del Rabbino Capo non è indispensabile in una Comunità, mentre è invece essenziale che esistano nella Comunità dei Rabbini che esercitano la loro attività di insegnamento. È un concetto che non ha soltanto un significato ideologico, ma che dovrebbe essere sempre presente agli amministratori comunitari.
Un secondo aspetto, più tecnico, riguarda le procedura di revoca dei Rabbini. La tradizione, per quanto recente, ha data prassi di nomina democratica: sono i rappresentan che eleggono e licenziano il Rabbino. Le procedure previste in questo senso dalla Bozza di Statuto (art. 29), con i meccanismi di controllo per i casi più problematici della revoca, rientrano nel modello consolidato e, per le eventuali varianti, nelle facoltà discrezionali che sono conferite dalla halakhà alle assemblee comunitarie.
Un ultimo accenno va fatto su una questione particolare: secondo la halakhà. i Rabbini che si occupano di Torà ‘a tempo pieno’ sono esentati dal pagamento delle tasse comunitarie. II principio è che la Comunità è comunque debitrice in tutti i sensi ai suoi Maestri, e non il contrario. La regola tradizionale parla letteralmente di talmidè chakhamim, letteralmente ‘i discepoli dei sapienti’, una denominazione tradizionale in epoca talmudica. Spesso chi non ha voluto applicare questa regola si è scusato dicendo che i Rabbini non possono essere identificati con i talmidè chakhamim. Nell’Italia rinascimentale questo diritto fu comunque applicato[7]. È il caso di verificare l’opportunità di inserire questa norma nello Statuto.
RICCARDO DI SEGNI
[1] R. Decreto 1930, n.1731, artt. 33, 34, 42, 44, 54, 55; R. Decreto 19 novembre 1931, n.561, artt. 26, 31, 61, 62, 63, 79, 80, 81.
[2] Art. 9 e 12.
[3] Cfr. Sergio Della Pergola, Anatomia dell’Ebraismo Italiano, Assisi, Roma, 1976, in partic. i capitoli 1, 8, 9, 11; Shalom Bahbout et al. (a cura di), Alla ricerca di una identità – passato, presente, futuro, Roma 1980, pp. 61-125.
[4] Cfr. M.E. Artom, Tentativi di riforma in Italia nel secolo scorso e analisi del fenomeno nel presente, “Rassegna Mensile d’Israel” XLII, 1976, pp.355-366; l’inserto n.l, Riforma e Ortodossia, in “Alef-Dac” 1984, n. 19-20, pp. 11-22.
[5] La codificazione ufficiale di questi principi è in Shulchàn ‘Arùkh, Jorè Deà, 228. Per una approfondita analisi storica cfr. Menahem Elon, Jewish Law – History, Sources, Principles (in ebraico), Jerusalem 1978, (second edition), vol. I, pp. 558-630.
[6] Il testo fondamentale sull’argomento è Roberto Bonfil, The Rabbinate in Renaissance Italy (in ebraico), Jerusalem 1979, in particolare il 3° capitolo, dal quale derivano questa e altre informazioni successive.
[7] 7) Cfr. Shulchan ‘Arukh, Jore De’a, 243; per l’Italia Bonfil, The Rabbinate, cit., p. 111.