Per effetto dell’anno embolismico in corso alcune Parashot che normalmente si leggono dopo Pessach in questo ciclo precedono la festa. Si tratta di brani del libro di Wayqrà difficili da comprendere. È un’occasione straordinaria per rileggerli e interpretarli in funzione del tema dell’Uscita dall’Egitto che ci apprestiamo a rinarrare durante il Seder. Questo Shabbat, il primo sabato del mese di Nissan, leggeremo la Parashat Tazria’. Dopo aver parlato degli animali impuri, la Torah passa a trattare le regole di impurità degli esseri umani. È uno status della persona che in molti casi si riconnette alle funzioni della riproduzione: ogni volta che nell’organismo si verifica un cambiamento in questo ambito, a esso corrisponde una condizione di tum’ah. Per ciascun tipo di tum’ah la Torah individua la via alla purificazione (taharah).
Il primo argomento della Parashah riguarda la partoriente, la cui taharah avviene in tre fasi. La Torah stabilisce che la donna che ha appena avuto un bambino (maschio) entra in una condizione di tum’ah per sette giorni: secondo Abrabanel è questa la durata prevalente delle malattie e di tutti gli stati di alterazione. In questo primo periodo essa non può avere relazioni con il marito. Per quaranta giorni dopo il parto, inoltre, non può ancora entrare nel Bet ha-Miqdash. Solo una volta trascorso anche questo secondo periodo essa porta le offerte che le sono richieste, ha il permesso di entrare nel recinto sacro e mangiare terumah (se è sposata con un kohen) e gli altri qodashim.
Shemuel Bornstein, Rabbino di Sochaszow in Polonia (1855-1927), nel suo commento alla Torah Shem mi-Shmuel riporta un’antica tradizione cabalistica secondo cui il processo dell’Uscita dall’Egitto richiama una tempistica analoga sul piano collettivo. Le piaghe e le sofferenze che l’hanno accompagnata sono assimilabili alle doglie del parto. Esse si sono gradatamente intensificate, finché i nostri Padri (e noi con loro) siamo stati espulsi a costituire una nazione indipendente. Proprio come la puerpera deve sottoporsi alle tre fasi di purificazione, volte a liberarla di tutto il fardello di impurità che si è venuto accumulando nell’utero senza potersene sgravare nel corso della gravidanza, così anche il popolo ebraico passa attraverso tre momenti per allontanarsi definitivamente dalle impurità dell’Egitto.
La notte dell’Esodo non rappresentò ancora un distacco completo. Il Midrash racconta che in un primo momento il Faraone stesso li accompagnò, sincerandosi che gli Ebrei avrebbero assecondato alla sua richiesta che pregassero per lui (Shemot Rabbà 20, 3). I commentatori aggiungono che la schiavitù genera una dipendenza psicologica profonda, acuita in questo caso dalla lunga durata: uno schiavo liberato non si sente completamente tale sapendo che il suo ex padrone si trova ancora in circolazione e potrebbe riacciuffarlo. Sul piano più propriamente spirituale la nefasta influenza dei costumi egiziani si faceva ancora sentire sulla comunità degli Ebrei appena redenti. Ci sarebbe voluto il passaggio del Mar Rosso e l’annegamento dei persecutori affinché sperimentassimo un’autentica liberazione, materiale e spirituale. Come è noto, questa avvenne al settimo giorno dopo l’Esodo, Shevi’ì shel Pessach.
Da quel momento gli Ebrei poterono riprendere le loro relazioni con il Partner Celeste, che fornì loro la manna quotidiana nel deserto. Ma questo costituì ancora una fase intermedia. I nostri Padri non erano ancora maturi per entrare nel qodesh, il Patto con l’Eterno. Nei quaranta giorni successivi il popolo doveva prepararsi a questo incontro che avvenne, come è noto, il giorno di Shavu’ot. Il Dono della Torah fu preceduto dai sheloshet yemè hagbalah, i tre giorni preparatori in cui D. aveva dato a Moshe l’ordine di recingere la montagna affinché il popolo non accedesse al luogo della Rivelazione. Alla vigilia dell’Evento il popolo recò sacrifici (Shemot 24, 5), esattamente come una puerpera al termine del periodo di purificazione. Da quell’istante essa ha il permesso di mangiare tutte le offerte sacrificali (qodesh): in modo corrispondente il popolo si nutre spiritualmente della Torah.
Il messaggio derivante da questo suggestivo parallelismo è chiaro. Non esiste rivolgimento positivo nella nostra vita individuale e sociale che non sia preceduto e spesso anche accompagnato da sofferenze che possono persino essere lancinanti. L’idea ebraica è che le transizioni richiedono un profondo esame di coscienza: si cambia fuori per cambiare dentro. La Teshuvah non è mai una passeggiata. I dolori sono temporanei e hanno lo scopo di spronarci ad affrontare questo processo. Forse abbiamo qualcosa di cui doverci ripulire. Approfittiamo del monito che ci giunge. Interpretiamo gli eventi di conseguenza. Leggiamoli come un’occasione di revisione e trasformazione interiore, con la piena consapevolezza che si tratta di sofferenze temporanee: come quelle della partoriente preludono a una gioia futura, almeno proporzionata all’intensità dell’angoscia patita. Una volta affrontate nel modo giusto le supereremo con l’aiuto di D. e, come dice il Profeta, “H. tornerà a rifulgere su di te” (Yesha’yahu 60, 2).
Rav Alberto Moshe Somekh