XXXVII Incontro Internazionale per la Pace – 11 settembre 2023 16:00 | axica convention center
Rabbino Capo di Roma, Italia
Condividendo l’impostazione di questo panel e le sue finalità non mi potrò sottrarre al dovere e al piacere di seguire la linea indicata. Perlomeno all’inizio, parlerò in favore del NOI. Ma alla fine di questo breve intervento cercherò anche di fissare qualche limite. “Non è bene che l’uomo- Adamo- sia solo” (Gen. 2:18), dice il Creatore all’inizio della storia umana. E gli affianca subito una compagna, “un aiuto in corrispondenza a lui”, uguale e allo stesso tempo differente e contrapposta, modello nucleare della complessità dell’intera società. Nasce così la prima coppia, unita e diversa, e ancora non è nata la società, la moltitudine di esseri umani. Ma il destino dell’uomo è quello di non essere solo, di aver bisogno di altri.
Gli esseri umani vivono insieme per necessità, per difesa, per scambi di servizi. Le aggregazioni umane possono essere alla radice puramente utilitarie, egoismi raggruppati. Un conto è stare insieme per ricevere e un altro per dare. Non basta stare insieme. Una antropologa famosa ha detto che il primo segno di progresso dell’umanità non è stata una invenzione tecnologica, come la ruota, l’accensione del fuoco ecc. ma una frattura ossea ridotta e guarita. Un animale che si frattura un arto è perduto, non si può muovere per alimentarsi e sarà cibo per predatori. Una persona che si frattura un arto ha bisogno che qualcuno lo medichi, ripari la ferita, e si prenda cura di lui mentre è immobilizzato. È qui che nasce la società, quella in cui ciascuno è al servizio degli altri.
L’ebraico della Bibbia, che ci è rimasto solo con un documento letterario, è una lingua piuttosto povera, tranne che in alcuni casi. Uno di questi è quando deve definire le collettività e usa una ricchezza di termini differenti, ognuno dei quali ha una sua spiegazione etimologica e una storia evolutiva. C’è una parola che indica il popolo, ‘am che significa stare insieme. Ce n’è un’altra ‘edà, che di solito si traduce con congrega, la cui radice è la stessa della parola ‘ed, testimone, e ya’ad destinazione. In questo caso l’insieme delle persone ha qualcosa da dire e ha uno scopo da realizzare. In mezzo tra ‘am e ‘edà ci sono altri termini come tzibbùr, pubblico, e qahàl e qehillà la comunità che si riunisce in assemblea. Quando la Bibbia ebraica fu divulgata in greco, i traduttori cercarono delle buone parole che rendessero con precisione non solo il significato originario ma che avessero in qualche modo un suono simile. Per cui qehillà fu reso con ecclesìa, una parola che poi ha fatto una lunga strada. La qehillà non è ancora ‘edà e la ’edà non è per definizione automaticamente buona. È chiamata ‘edà ra’à (Nu. 14:35) “cattiva congrega” il gruppo dei dieci esploratori che diffamò la terra d’Israele. La ’edà ha uno scopo ma non tutti gli scopi sono buoni. Il “noi” può essere perverso e in questo caso sono al contrario i pochi, i singoli, gli io, che opponendosi resistono e portano avanti valori diversi.
In ogni caso e con una certa ironia è proprio dalla storia di quella congrega malvagia di dieci persone che i maestri derivarono una regola fondamentale della liturgia ebraica. Che è quella che bisogna pregare insieme, e che certe preghiere si possono recitare solo se è presente un minimo di dieci persone. Che poi è lo stesso numero della trattativa tra Abramo e D a proposito della annunciata distruzione di Sodoma e Gomorra: se ci sono 10 giusti non distruggerò le città, promette D. (Gen. 18:32). Ma 10 giusti non c’erano. Però nella preghiera collettiva non ci devono essere 10 giusti, ci devono essere dieci persone. L’esempio è quello della lista degli ingredienti per il qetòret, il profumo del Santuario. Tra questi ingredienti ce n’era uno che preso da solo puzzava. Mescolato agli altri contribuiva a creare un profumo speciale. Lo stare insieme presuppone la partecipazione senza esclusioni prioritarie e i difetti non solo si perdono nel gruppo, e contribuiscono al suo miglioramento.
Per questo si insegna che la preghiera migliore è quella collettiva delle persone che si riuniscono, e che anche la confessione è collettiva, al plurale; ognuno poi in silenzio confessa le sue colpe personali al Creatore. Non deve farlo ad alta voce. Quello che potrebbe essere in apparenza un atto di umiltà e di umiliazione pubblica viene inteso come un’esibizione da evitare. C’è l’ipertrofia dell’io anche nell’ostentazione della modestia.
Insegnano i maestri che chi vede moltitudini di persone deve benedire il Signore con una formula particolare: benedetto sia il Sapiente artefice di cose misteriose, perché ognuno è diverso dall’altro. L’umanità è fatta di diversità e la diversità è ricchezza anche nei gruppi che si potrebbero considerare omogenei; nessun essere umano è uguale agli altri, dall’aspetto fisico al pensiero. E questo è un mistero della creazione che va lodato
Una regola fondamentale dettata da Hillel, maestro ai tempi di Erode, è quella che dice “non ti distaccare dal pubblico” (Avot 2). Detto così, il principio già ha una sua notevole forza. In ogni caso sono utili le interpretazioni. Secondo il Talmud significa partecipare alle disgrazie collettive, condividerne le sofferenze e i dolori; perché chi si allontana dal pubblico non ne vedrà la consolazione. È il discorso che Mordekhai fa alla nipote Ester quando le chiede di intercedere presso il re per scongiurare il rischio di sterminio: “non pensare di salvarti godendo della tua situazione privilegiata; perché se rimarrai in silenzio la salvezza verrà da un’altra parte e tu e la tua famiglia sarete invece distrutti” (Est. 4:13). Essere noi significa condividere una sorte comune lavorare insieme per migliorare; è un’illusione pensare di salvarsi da soli.
Non distaccarsi dal pubblico significa anche conformarsi ai costumi generali, partecipare alle decisioni di comune interesse e alla gestione della cosa pubblica, pregare con tutti e per tutti; e per chi ha ruoli direttivi non perdere il contatto con le persone, ma rispettarle, servirle e temerle.
Il pubblico va rispettato. I sacerdoti che impartiscono la benedizione lo fanno con il volto rivolto al pubblico e la schiena verso i libri sacri, ai quali mai bisognerebbe voltare le spalle.
Il pubblico va servito, va aiutato. Il capo che sia laico o religioso è un servitore. E ognuno deve fare il suo dovere di solidarizzare. La società che si vuole costruire è quella del reciproco servizio.
L’ebraismo non ha conosciuto il fenomeno monastico, se non per una breve frazione di tempo all’inizio del primo millennio. L’idea del mònos, al maschile e al femminile, gli è culturalmente estranea e antagonista; isolarsi dalla comunità per una scelta ascetica è sempre stata un’evenienza rara e marginale.
C’è un’altra famosa frase attribuita a Hillel. Di questa frase è più nota la fine, quella che dice “se non ora quando”, usata e abusata anche in politica. Prima Hillel aveva detto altre due cose: Se io non sono per me, chi è per me? e quando io sono per me chi sono io? Senza retorica Hillel chiarisce che dobbiamo essere noi a preoccuparci di noi stessi, perché forse nessuno potrà farlo al posto nostro; ma ridimensiona questa necessità chiedendosi: se io penso solo a me, chi sono io? Che razza di essere umano è quello che pensa solo a sé stesso?
Abbiamo ampiamente dimostrato fin qui la prevalenza del NOI sull’IO. Ma in conclusione vorrei citare questo brano di Maimonide, guida rabbinica e filosofica dell’ebraismo medievale. “Fa parte della natura dell’uomo, egli scrive, essere trascinato nelle opinioni e nei comportamenti appresso ai suoi amici e di comportarsi come le persone del suo paese: pertanto l’uomo deve unirsi ai giusti e ai saggi per imparare dalle loro azioni e allontanarsi dai malvagi. Se una persona vive in un paese che ha cattivi costumi e in cui la gente non procede rettamente, se ne vada in un luogo in cui la gente è giusta e si comporta bene. Se tutti i paesi che conosce e dei quali ascolta la fama non si comportano bene come ai nostri tempi, o che non può andare in un paese i cui costumi sono buoni per impedimenti di natura militare o per malattia, se ne stia da solo a casa come è detto “sieda solitario e in silenzio” (Lam. 3:28) e se la gente è così cattiva e peccatrice che non lo lascia stare nel paese se non si mescola con loro e si comporta come loro, se ne vada nelle grotte negli anfratti e nei deserti e non prenda le abitudini dei malvagi” (Deòt 6:1).
“No”i, ci insegna Maimonide non significa necessariamente bene, anzi. E “noi” può significare anche omologazione. Che è un rischio. “Una d’arme di lingua d’altare” diceva Manzoni nel marzo 1821, presentando l’ideale di una nuova società; e ancora c’è qualcuno che lo prende a modello. Quello che mi preoccupa è soprattutto la parola altare. Potenziale origine di discriminazione. Abbiamo visto fin troppo dolorosamente che cosa significhino le grandi aggregazioni politiche e/o religiose nazionali, in cui l’individuo è calpestato nella sua dignità, non solo chi è estraneo al gruppo e per definizione nemico, ma anche chi è parte del gruppo.
Ogni “io” chiuso in sé stesso è una contraddizione alle potenzialità umane. Non è realizzato. È incompleto. Ma non basta essere “noi”. Il rischio della congrega malvagia è sempre all’orizzonte.