C. Renda – 27/1/2023
Riccardo Di Segni è dal 2001 capo rabbino della Comunità ebraica di Roma. Huffpost lo ha raggiunto telefonicamente in occasione del Giorno della Memoria 2023.
Rav Di Segni, cosa rappresenta per lei la Giornata della Memoria?
È un appuntamento importante, che si è rivelato estremamente utile per diffondere la conoscenza della Shoah e delle persecuzioni contro gli ebrei. È diventato un evento centrale anche nel calendario ebraico, ma è un’occasione rivolta non tanto alla nostra comunità quanto a tutto il pubblico. Questo perché la conoscenza di quanto è accaduto è purtroppo ben radicata tra gli ebrei, mentre non lo è tanto oppure è cancellata in ampi settori della popolazione.
Nei giorni scorsi, le parole di Liliana Segre hanno avuto grande risonanza. Ha affermato che “tra qualche anno sulla Shoah ci sarà una riga tra i libri di storia e poi più neanche quella”. Pensa davvero che ci sia un rischio di oblio?
Non sono in grado di prevedere il futuro, ma immagino che la senatrice Segre sia spaventata come lo sono stati tantissimi reduci, come lo era Primo Levi. Io posso dire che nei libri di storia in cui ho studiato io non c’era neppure quella riga. Adesso c’è una coscienza su questo e si investe molto, a partire dalle scuole.
L’impressione in realtà è che in Italia l’attenzione alla parte culturale e divulgativa, nelle scuole e sui media, anno dopo anno stia crescendo.
Ho incontrato in questi giorni alcune scuole che hanno lavorato, si sono impegnate, sono state premiate. C’è una organizzazione diffusa, quasi capillare per trasmettere la memoria, poi chiaramente bisognerà vigilare che determinate memorie non scompaiano, ma il quadro non è così fosco come alcune angosce potrebbero rappresentarlo.
A lei cosa fa paura oggi?
Il fatto che si riduca la rappresentazione dell’ebraismo alla memoria della persecuzione e si dimentichi tutto ciò che di vitale, positivo, creativo c’è nell’esperienza ebraica. È un tranello in cui cadono tutti, anche molti ebrei della nostra comunità. Una distorsione alla quale bisogna porre riparo.
Sempre Liliana Segre riporta con preoccupazione un sentire che si sta diffondendo: “Basta con questi ebrei, che cosa noiosa”. L’altro rischio è il rigetto?
Una questione reale è il dosaggio di questi temi, perché un dosaggio troppo forte può determinare reazioni di rigetto. Per questo sarebbe molto opportuno – ed è un insegnamento della nostra tradizione – limitare a momenti particolari determinati ricordi, non farne continuamente un tema centrale.
C’è questo elemento del tempo inesorabile che passa e che porta via con sé uno a uno i testimoni diretti della Shoah. Si avvicina, mi permetta questa espressione, l’anno zero della memoria, con il passaggio della testimonianza diretta a quella della tradizione orale. Sarà questo un momento che richiederà uno sforzo supplementare?
Certamente sì. Anche se è da tener presente l’enorme lavoro di raccolta di memorie e testimonianze, ma certo sentire la viva voce di una persona che è passata da quelle esperienze ha un effetto emotivo molto più forte rispetto a chi racconta fatti di seconda mano. Chiaramente la svolta è inevitabile, bisogna essere pronti ad affrontarla, ma credo che siamo pronti.
Lei stesso appartiene a una generazione nata dopo la Seconda Guerra Mondiale, ma porta nella sua storia familiare i segni delle persecuzioni nazifasciste. Crede che questi valori con cui lei è cresciuto siano arrivati ai figli e ai nipoti della comunità ebraica con la stessa forza?
Sì, addirittura si parla di nipoti e pronipoti che vivono con angosce tramandate. Io conosco ragazzi che quando hanno degli incubi si sognano i tedeschi.
Come era il Ghetto di Roma quando lei era piccolo? Cosa è rimasto oggi?
Prima di tutto era un posto dove passavano le macchine, dove la gente abitava. Poi piano piano si è spopolato ed è diventato il posto dove le persone vengono a farsi quattro chiacchiere e a passeggiare. Adesso è un posto di grande vitalità con ristoranti caratteristici, un tempo era una normale via commerciale piena di attività. Consideri che oggi c’è la scuola ebraica, un tempo le scuole ebraiche stavano da un’altra parte. È stata una trasformazione continua, ma le memorie ci sono, sono vive e tramandate anche là.
Come vive un cittadino ebreo in Italia, oggi?
Vive come tutti gli altri, con tutti i problemi che si hanno al risveglio della mattina, le difficoltà economiche e sociali che vi sono. Non c’è una condizione particolare da questo punto di vista. Poi il fatto di essere ebrei espone a un bagaglio di memorie e un bagaglio identitario che determina sollecitazioni molto particolari, molto specifiche.
Mi spiego meglio. Guardando dall’esterno, non appare facile essere ebrei. Richiede una certa disciplina, regole come il riposo dello Shabbat o quelle alimentari, che poi sono vissute nella comunità con maggiore o minore rigore, resistono al tempo. In un mondo che corre e in cui è sempre più difficile fermarsi, queste regole sembrano sempre più difficili da sostenere. Oppure lei ritiene che proprio i valori che queste regole portano con sé aiutino a non perdersi nel mondo di oggi?
Essere ebrei è sempre stato difficile, in qualsiasi situazione. Non soltanto per l’ostilità che uno può incontrare in tutti i modi, ma anche per la difficoltà di seguire la strada che le regole religiose impongono, alle quali non tutti si sottopongono con uguale rigore. E questa delle regole è sempre una scelta difficile. C’è chi la vive come un bagaglio poco tollerabile, c’è chi la vede come una opposizione a valori correnti, a ideologie e pensieri e modi di vivere che la società ci propina, rispetto alle quali noi resistiamo con i nostri valori e le nostre idee.
Vede ancora una vitalità culturale nella comunità ebraica?
Dal punto di vista religioso c’è sì stato da una parte un abbandono, che non è una novità, ma anche un grande risveglio, per cui esistono strutture di culto, di servizi religiosi, di studio che solo venti o trenta anni fa erano impensabili. C’è una grande risposta, mai sufficiente, a determinati interessi e c’è un’inattesa vitalità interna dell’elemento ebraico.
Qual è il suo rapporto con la modernità?
Nella modernità viviamo. Esistono pensatori e guide religiose che si mettono di traverso, io faccio parte di altre scuole. Vorrei citare il rabbino Jonathan Sacks che su questo argomento ha scritto testi fondamentali. La modernità non è il bene assoluto o il male assoluto, bisogna conviverci ma anche collaborare alla sua evoluzione. Ci sono anche pensatori che hanno detto che la modernità è un prodotto ebraico, ma forse lo dicevano in chiave antisemita…
Veniamo proprio all’antisemitismo. Lei ha utilizzato una metafora accomunandolo al virus mutante del Covid. Quali sono le varianti più pericolose di questo virus?
Se mi consente una battuta, il paragone col Covid oggi diventa ottimista perché le variabili che abbiamo avuto recentemente sono state molto meno letali delle precedenti. Detto questo, l’antisemitismo è una bestia che assume molti abiti differenti. C’è la variante sportiva degli stadi: sembrano tutte cose innocenti, ma c’è una predicazione di violenza e di intolleranza che poi non colpisce soltanto gli ebrei, è una sacca micidiale. Uno forse potrebbe consolarsi con il fatto che si sfogano là, poi tornano a casa e se lo dimenticano, ma temo che non sia così. C’è la variante politica, concentrata sulle vicende mediorientali in cui c’è una confusione continua fra critiche al governo israeliano e ostilità di fondo per la condizione ebraica vissuta in senso nazionale e sionista. E c’è poi la variante religiosa, con forme di ostilità anti-ebraica che non vengono più dalle chiese più importanti, ma possono venire da altre religioni. Lo spettro è ampio.
Può chiarirmi questo ultimo passaggio sulla variante religiosa. Cosa intende?
Facciamo l’esempio dell’Islam, che è una galassia di modi differenti di concepire quella religione. Alcune parti dell’Islam anche considerevoli hanno buoni rapporti con l’ebraismo, anzi negli ultimi tempi importanti leader dell’Islam hanno fatto dichiarazioni benvenute di chiarimento. Altri però resistono e sono portatori di ideologie molto contrapposte, ostili.
In alcuni paesi d’Europa la vita per le comunità ebraiche non è semplice. Non sto parlando solo di paesi dell’est europeo in cui le svastiche e l’odio nazista trovano sempre più manifestazione, ma anche in paesi come la Francia o nel nord Europa. Lei ha più volte avvertito sui rischi per l’Europa di una immigrazione incontrollata, di massa. Non considera contraddittorio affermarlo da parte di un rappresentante un popolo che è stato costretto alla fuga, all’esilio, un po’ ovunque nel mondo?
Il mio non è un discorso contro l’immigrazione, ma contro la mancata integrazione di chi arriva. Se facciamo l’esempio della migrazione del popolo ebraico, ovunque si è insediato il popolo ebraico si è adeguato al sistema, l’ha accettato e quindi ha fatto in modo che la sua presenza fosse coerente con il territorio e ne promuovesse la crescita. Se si riesce a controllare questa immigrazione e non arrivare a scontri e conflitti micidiali di sistemi e di culture, ben venga. Perché qualsiasi sovvertimento strutturale poi si ripercuote sull’instabilità sociale e quando c’è instabilità sociale la posizione delle comunità ebraiche è un indicatore molto sensibile dei rischi possibili.
Vorrei ora parlare della Giornata della Memoria del 2023. Il principale cambiamento che è intervenuto rispetto allo scorso anno è la guerra in Ucraina. Si è assistito a una nuova chiamata in causa del nazismo, della denazificazione dell’Ucraina, fino a recenti uscite di Sergei Lavrov che ha parlato di “soluzione finale” dell’Occidente contro i russi. Vorrei capire lo stato d’animo con cui assiste a tutto questo. È questo il rischio di banalizzazione della Shoah che teme?
Da quello che ho visto, entrambe le parti in conflitto hanno fatto un uso improprio della memoria della Shoah, ma quando è avvenuto diversi esponenti politici, l’opinione pubblica, i giornali hanno subito denunciato l’improprietà di certi confronti. È chiaro che il tema della Shoah rischia di diventare proverbiale, esemplare, ciascuno può tirarsela dalla parte propria. Bisogna vigilare su questo.
Anche qui vede il rischio che si passi a una Giornata delle memorie, con l’effetto diluitivo sulla tragedia ebraica?
Questo è uno dei rischi che è stato sempre denunciato, metterci tutto dentro significa non distinguere più niente.
Un altro cambiamento importante rispetto allo scorso anno è il governo di Giorgia Meloni. So che lei non ama parlare della politica italiana, ma la Giornata della Memoria riguarda anche il ricordo delle leggi razziali e la persecuzione da parte degli italiani di cittadini ebrei.
Come dice lei, preferisco non parlare di politica italiana.
Un altro cambiamento è molto recente, la scomparsa di Joseph Ratzinger. Riconosce a Papa Benedetto XVI un ruolo importante nell’avvicinamento fra comunità ebraica e cattolica?
La posizione di Papa Benedetto, e prima ancora del cardinale Ratzinger, si distingueva innanzitutto per la sua chiarezza, ha detto delle cose importanti, sia positive che negative, nel rapporto con gli ebrei. Aveva una sua visione di centralità assoluta del messaggio cristiano che per alcuni aspetti non era compatibile con un dialogo in termini di parità, ma d’altra parte è stato lui stesso a promuovere una rilettura radicale dei testi del Nuovo Testamento e a esprimere concetti di assoluto rispetto della realtà ebraica, non dico quella pre-cristiana ma quella attuale. Ha stabilito una linea, con punti favorevoli e sfavorevoli, ma l’ha fatto senza cedimenti e con chiarezza. E la chiarezza aiuta nel confronto.
E passa anche da questo confronto, dalla convivenza pacifica fra le religioni, l’abbattimento dell’odio e del pregiudizio contro gli ebrei, immagino.
È chiaro che un magistero forte in queste direzioni, se viene ascoltato, segna dei punti molto favorevoli e dirige le coscienze.
Ha trovato in Papa Francesco punti di contatto analoghi rispetto a Benedetto?
Sono due Pontificati molto differenti, nella forma e nella sostanza, ma in entrambi si riconosce la volontà di dialogare con il mondo ebraico.