È in corso presso la Galleria d’Arte Moderna di Torino una istruttiva esposizione di disegni e dipinti di Francesco Hayez, considerato il pittore nazionale del Risorgimento italiano, amico di Manzoni e Mazzini. Fra le opere in mostra segnalo una rappresentazione de “La sete patita dai primi Crociati sotto Gerusalemme”. È un tema che fu svolto quasi contemporaneamente anche da Tommaso Grossi in letteratura e da Giuseppe Verdi in musica (“I lombardi alla Prima Crociata”): gli ammiratori ottocenteschi scorgevano nella liberazione del Santo Sepolcro una anticipazione dell’affrancamento dell’Italia dal dominio straniero. Del dipinto colpisce il capovolgimento di prospettiva: ci saremmo infatti attesi che la sete fosse un problema per gli assediati, anziché per gli assedianti! Vedo in questo un eccellente esempio di “teologia del ribaltamento”. Nelle guerre di religione l’aggressore, convinto di agire legittimamente “nel nome del vero D.” contro un nemico miscredente e reo di usurpazione, percepisce se stesso come aggredito. Nelle Crociate, com’è ovvio, la storiografia occidentale identifica le vittime nei Cristiani, benché in realtà essi fossero gli assalitori che avevano attaccato l’occupante musulmano.
Lo scorso sabato 7 ottobre ci ha fatti ripiombare nel Medioevo. L’orologio della storia ha solo trasformato l’antico aggredito in aggressore. La crociata di Hamas contro l’”occupante” sionista, lungi dall’essere un conflitto politico o territoriale, è a sua volta una guerra di religione. La soluzione: “due stati per due popoli”, tanto invocata dal politically correct, è già stata respinta dai palestinesi in più di un’occasione a fronte di laute proposte: avremmo mai potuto pretendere da Goffredo di Buglione che condividesse il possesso di Gerusalemme con i turchi? Anche i nostri aggressori odierni si sono sentiti autorizzati a commettere ogni genere di nefandezze nei confronti dell’infedele, considerato al di fuori del loro orizzonte “morale”, per poi farsi passare per vittime. Questa settimana il mondo ebraico leggerà i Dieci Comandamenti. Abrabanel commenta che almeno la seconda Tavola contiene leggi universali. Nei kibbutzim del sud di Israele quel maledetto giorno in poche ore sono stati violati pressoché tutti. L’attacco ha infranto il nostro Shabbat. Hanno avuto luogo assassini (lo tirtzach), stupri (lo tin’af; cfr. Ibn ‘Ezrà), sequestri (lo tighnov: cfr. Rashì), spoliazioni (lo tachmod: cfr. Shemot 34, 24 e Malbim). E per di più i responsabili, pronti allo spergiuro (lo tissà), hanno commesso falsa testimonianza (lo ta’aneh) nell’affermare di aver colpito solo obiettivi militari, contro l’evidenza dei filmati da essi stessi diffusi in un primo tempo.
Sconsiglio chiunque di noi dal guardare quei video: ci deprimono ulteriormente senza accrescere la nostra consapevolezza, mentre soddisfano il narcisismo dei criminali. Peraltro mi hanno profondamente colpito alcune sequenze trasmesse alcune sere fa da un telegiornale, forse perché non mostravano scene di violenza fisica. Tre terroristi si sono fatti ritrarre in compagnia di alcuni ragazzini del kibbutz Beeri poco dopo aver trucidato i loro genitori. In un gioco perverso insegnavano loro a dire l’espressione “nel nome di D.” in arabo. Mi è sovvenuto l’ultimo saggio del compianto Rav Sacks, “Not in God’s Name” sulla violenza religiosa. Gli abusi fisici sono stati il presupposto di quelli psicologici: ho il terribile presentimento che i bambini siano stati rapiti per dar luogo ad altrettanti casi Mortara del nostro tempo, con l’aggravante di non aver più neppure una famiglia che li richieda indietro. “Per questi io piango” (Ekhah 1, 16)! Ma noi, a dispetto dell’indifferenza (o forse meglio della debolezza) della comunità internazionale, senza indugio li reclamiamo e li riporteremo a casa! Essi sono parte integrante del nostro popolo e il popolo ebraico vive, con l’aiuto di D.!
Be-’ezrat H. e non be-shem H. A differenza di cristiani e musulmani noi ebrei preferiamo richiedere l’aiuto Divino prima di agire, piuttosto che dichiarare di aver agito “nel nome di D.” Nel Tanakh (Bibbia ebraica) troviamo quest’ultima espressione in bocca al giovane David in procinto di affrontare il gigante Goliat. “David rispose al Filisteo: ‘Tu vieni contro di me con la spada, con la lancia e con il giavellotto, ma io vengo a te ‘nel nome di H. degli eserciti, il D. delle schiere di Israel’ che tu insultasti’” (1Shemuel 17, 45). Non ha diritto di presentarsi “nel nome di D.” chi adopera la violenza, perché egli ne è l’antitesi. Nella Tefillah ho trovato usate queste parole due volte in tutto, per di più fuori dai testi più antichi tradizionalmente condivisi da tutti. In alcune Comunità sefaradite prima di pronunciare le parole We-zot ha-Torah in occasione della Hagbahah (elevazione) del Sefer Torah si usa aggiungere: Be-Shem E. Shadday, “nel nome di D. Onnipotente”. È questa in realtà una riaffermazione della Divinità della Torah, non una presentazione di noi stessi! E non sfuggirà che le parole E. Shadday hanno lo stesso valore numerico di Mosheh: semplicemente alludono a colui che ce l’ha consegnata (cfr. Megalleh ‘Amuqqot, 184; Ben Ish Chay, anno I, P. Lekh Lekhà, Introd.). L’espressione Be-Shem H. E. Israel è ancora presente in una formula cabalistica inserita al termine della “recitazione dello Shemà’ prima di coricarsi” secondo il rito ashkenazita. Trattandosi di una perorazione rivolta agli angeli protettori, si vuole ribadire in prima istanza che essi agiscono esclusivamente come emissari dell’Unico D. (Tzelotà de-Avraham, vol. II ad loc.)
Nel Mussaf di Rosh ha-Shanah e Yom Kippur diciamo invece: “il nostro nome hai chiamato con il Tuo, perciò agisci Tu per il Tuo Nome” (u-shmenu qaràta bi-shmakh, ‘asseh lema’an shemakh). Noi ebrei non abbiamo necessità di presentarci “nel Nome di D.”, come se ambissimo a sostituirci a Lui, proprio perché già portiamo il Suo Nome: non una semplice pretesa, dunque, bensì una realtà. “D. è chiamato Saggio, anche noi siamo chiamati ‘popolo saggio’ (Devarim 4, 6); D. è chiamato Pio, anche noi siamo chiamati ‘pii’ (Tehillim 50, 5); D. è chiamato Santo, anche noi siamo chiamati ‘santi’ (Wayqrà 19, 2): “dice il S.B.: ‘in questo mondo siete stati chiamati santi. Ebbene in futuro ‘coloro che saranno rimasti a Tziyon, che saranno sopravvissuti a Gerusalemme, di essi si dirà: santo!’” (Yesha’yahu 4, 3; Midrash Tanchumà, P . Qedoshim, 5). Come a D. si conviene una pluralità di doti, di attributi e di valori, di ciascuno dei quali Egli reca il nome, così noi ebrei siamo da sempre abituati a vivere in pace e armonia, almeno da parte nostra, a contatto con le più diverse civiltà. Nella nostra terra non abbiamo mai dichiarato guerra a nessuno. Al contrario: “la mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutti i popoli” (Yesha’yahu 56, 7). Saranno mai capaci i nostri vicini, dai quali ora siamo costretti a difenderci, a cogliere questo invito a una quieta e produttiva convivenza con la stessa serenità?