Nel corso dell’anno nel Tempio Maggiore di Roma ci sono due momenti inconfondibili. Lo caratterizzano in modo segnato, ciascuno a modo proprio. Hosha’annà rabbà e Tish’è Beav sono impressi nella mente di ogni frequentatore del Tempio. A livello emozionale questi due momenti si trovano agli antipodi: se la gioia incontenibile di Hosh’annà rabbà ricorda, per quanto possibile, quella proverbiale del Santuario di Gerusalemme, l’intensità del lutto della sera di Tish’à beAv non è da meno. Gli stranieri in visita al Tempio spesso riconoscono di non avere mai visto un Tish’à beAv così triste. Sarete portati a dire che gli ebrei romani furono testimoni di quanto avvenne quasi duemila anni fa, e si tratta quindi di un atto dovuto. È possibile che sia così; questa idea deve però essere delineata in un modo più preciso. Non si tratta, infatti, solo di una commemorazione storica, c’è un elemento esperienziale, che è fondamentale per l’esistenza ebraica.
Rav Sacks considera l’ebraismo una religione della memoria. Ricordare è un obbligo religioso, e questo è maggiormente percepibile nelle settimane fra il 17 di Tammuz e il 9 di Av. Il 9 di Av, com’è risaputo, ricorda la distruzione dei due Santuari di Yerushalaim, il primo distrutto dai Babilonesi nel 586 a.e.v., il secondo dai romani nel 70 d.e.v. La memoria di queste tragedie è ben presente nel sentire e nel vivere ebraici. In ogni matrimonio ebraico lo sposo dichiara: se ti dimenticherò, o Gerusalemme, si paralizzi la mia destra (Sl. 137,5). Ogni volta che viene edificata una nuova casa o struttura, una parte non viene intonacata a memoria della distruzione del tempio. All’inizio del XIX secolo lo storico Chateaubriand, visitando Gerusalemme, fu preso dall’emozione quando vide per la prima volta l’esigua comunità locale, che aspettava pazientemente il mashiach. Notando come questa piccola nazione fosse sopravvissuta, mentre i grandi imperi che tentavano di distruggerla fossero svaniti, disse: se c’è qualcosa tra le nazioni del mondo contrassegnato con il marchio del miracoloso, questo è, secondo noi, quel miracolo.
Ci si deve chiedere, tuttavia, se è davvero giusto ricordare. Questa domanda deve essere posta anche in relazione alla Shoah. In fondo, se ci pensiamo, tanti conflitti dipendono dal ricordo di ingiustizie che risalgono a molto tempo fa. Se ce ne dimenticassimo, il mondo sarebbe senz’altro più pacifico. E allora, perché ricordare? Rav Sacks ritiene che la storia e la memoria siano profondamente diverse. La storia è la storia di qualcun altro. La memoria vuole invece dire qualcosa su di me. Vuole insegnarmi qualcosa sulla mia provenienza e sulla narrazione di cui faccio parte. Dobbiamo sì ricordare il passato, ma non dobbiamo permettergli di imprigionarci, dobbiamo renderlo una fonte di speranza e non di frustrazione. Questa concezione della memoria è quantomai preziosa nella società contemporanea. Si tratta di un vecchio adagio della filosofia, posto già da Platone, che rifletteva nel Fedro sull’inutilità del libro. La memorizzazione su supporti esterni, oggi spinta alle sue estreme conseguenze, sta atrofizzando la nostra memoria. Quanti numeri di telefono conosciamo a memoria? I nostri figli imparano a memoria le poesie? Conoscono i percorsi che hanno condotto alle grandi conquiste delle quali ci vantiamo, ad esempio la libertà, la dignità umana e la giustizia? Il Novecento, con le sue terribili e ripetute tragedie, ce lo ha insegnato. Tutte queste acquisizioni, se non siamo più che vigili, rischiano di svanire in men che non si dica. Per questo siamo tenuti a coltivare la nostra memoria. Ne va della nostra stessa identità.
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