Auto-celebrazione. Perché sì, perché no
Alcuni anni fa celebrai un matrimonio in un piccolo paese della collina torinese. In Italia le nozze aventi effetti civili devono essere registrate nel comune in cui hanno luogo, a prescindere dalla provenienza delle parti. In quell’occasione lo sposo era americano (extracomunitario!) e la sposa cittadina francese. Ma ciò che più fece letteralmente impazzire il segretario factotum del minuscolo municipio era che la cerimonia si sarebbe svolta non in una chiesa, neppure in un altro luogo di culto, ma… in una casa privata. Durai fatica a convincerlo che per legge la registrazione dell’atto spettava proprio a lui.
Stranezza per stranezza, assai più recentemente un giovane israeliano mi ha chiesto il permesso di essere lui a recitare le prime due benedizioni sotto la sua chuppah (gli erussin, o qiddushin) al posto del Rabbino. Per intenderci, il testo in cui si ringrazia D. di averci proibito determinate unioni (‘arayot) e di averci concesso solo le donne che abbiamo regolarmente sposato. Avrei dovuto vietarglielo, tacciandolo di eccessivo protagonismo proprio “nel giorno della gioia del suo cuore”? O viceversa acconsentirlo, al pensiero di quanto siano rare ormai le occasioni di un matrimonio ebraico? Nessuna considerazione del genere e neppure un ardito laboratorio innovativo. È un’antica questione squisitamente halakhica e la regola lo consente. Lo sposo è stato accontentato, dietro la sola condizione che la particolarità venisse illustrata al pubblico prima di cominciare la cerimonia.
Mi spiego meglio. Risale al Medioevo la discussione sull’esatta natura della Birkat erussin e dell’atto nuziale in sé. Secondo Maimonide matrimonio e procreazione costituiscono due precetti distinti e pertanto la benedizione in questione è una Birkat ha-Mitzwah a ogni effetto: lo confermerebbe l’inclusione delle parole asher qiddeshanu be-mitzwotaw… nel testo. Come tale dovrebbe essere recitata preferibilmente dal diretto interessato alla Mitzwah di sposarsi.
Rabbenu Asher (Rosh), dal canto suo, dissente. Non esiste altra Birkat ha-Mitzwah che sia recitata su un divieto – argomenta, riferendosi alla proibizione delle ‘arayot con cui il testo esordisce. Per Rosh il solo precetto comandato è la procreazione, mentre il matrimonio è stato istituito solo per mettere ordine nelle relazioni coniugali. Pertanto la Birkat erussin va classificata come semplice Birkat ha-Shevach, benedizione in lode della qedushah di Israel che ha scelto la via del matrimonio. In quanto tale può essere recitata da qualunque altro uomo sia presente alle nozze, non necessariamente lo sposo. La decisione legale dello Shulchan ‘Arukh (Even ha-’Ezer, 1 e 34) è conforme a Maimonide. Illustri Decisori degli ultimi secoli ribadiscono esplicitamente il principio che sia lo sposo ad effettuare la recitazione, senza invalidare l’atto (Resp. Nodà’ bi-Yhudah Tinyana, EHE 1; Resp. Iggherot Moshe EHE 1,87). Anzi, il Ben Ish Chay di Baghdad (anno I, P. Shofetim, 2, preceduto dal Levush) fornisce della Berakhah una terza classificazione ancora, paragonandola alle benedizioni che si dicono prima di mangiare (birkhot ha-nehenin). Queste per loro natura si prestano a essere recitate solo da chi gode del cibo.
Peraltro da secoli vige in tutto il popolo d’Israel il Minhag di affidare la recitazione a un delegato dello sposo (Remà): più esattamente il Rabbino. Perché? “Tutti gli ebrei sono garanti l’uno per l’altro”. Si ha pertanto il potere di recitare una Birkat ha-Mitzwah per conto di un’altra persona che deve assolvere l’obbligo, nella fattispecie quello del matrimonio. Nel nostro caso almeno tre considerazioni hanno trasformato quella che in origine era solo una facoltà in una vera e propria prassi condivisa. 1) Non svergognare chi non ha avuto l’opportunità di apprendere l’ebraico del testo (cfr. Mishnah Bikkurim 3,7; Bet Shemuel a EHE 34; R. Refael Meldola, Chuppat Chatanim, p. 41); 2) il timore che lo sposo sia psicologicamente provato dall’importante passo che sta compiendo e possa confondersi nella recitazione; 3) in epoca posteriore, l’esigenza di presentarsi davanti all’autorità non ebraica con un ufficiale celebrante per ottenere il riconoscimento del matrimonio ai fini legali.
Si può sostenere che nel caso di cui scrivo tutti i fattori in questione venivano meno. 1) Lo sposo era di madre lingua ebraica: la sua dimestichezza poteva dunque trovare adeguata giustificazione senza suscitare l’altrui imbarazzo. 2) Abbiamo oggi a disposizione testi stampati delle Berakhot nuziali, tali da prevenire la confusione che avrebbe potuto ingenerare la recitazione fatta a memoria. 3) Il matrimonio in questione, per richiesta degli sposi, non prevedeva la registrazione agli effetti civili. Aggiungo che siffatta scelta di auto-celebrare il proprio matrimonio contribuisce a una progressiva de-clericalizzazione dell’ebraismo in linea con l’abitudine di tenere la cerimonia fuori dal Bet ha-Kenesset, sempre più diffusa ormai anche in Italia.
Terminata la chuppah, alla domanda se fossi favorevole a generalizzare l’auto-celebrazione ho risposto di no. L’opzione può essere data per quelle circostanze che la ammettono, perché “questa è la Halakhah sebbene si insegni diversamente” (Shabbat 12b). D’altronde “un Minhag in Israel è Torah”: non solo in quanto cambiarlo nel nostro caso potrebbe urtare la sensibilità di chi è avvezzo a vedere il Rabbino nel ruolo di Messadder Qiddushin, ma anche perché tale prassi in quanto universalmente accettata è degna di rispetto indipendentemente dalle ragioni che avranno portato a istituirla. Di più. Qui diciamo che “un Minhag sorpassa la Halakhah”: lungi dal contraddire quest’ultima, l’usanza corrente di individuare un celebrante si limita a scegliere una via alternativa all’ideale normativo originario, ma è pur sempre pienamente valida e consentita.