Da Unorthodox a Shitsel, Netflix da anni dedica spazio alla rappresentazione dell’ultraortodossia ebraica. Ora il suo catalogo si arricchisce di un nuovo drama: La famiglia di diamanti, thriller con estetica all’europea ed (eccesso di) adrenalina all’americana.
Tra Unorthodox, storia della liberazione di Esther dalla comunità chassidica da cui anni prima era scappata – verso la Berlino delle libertà – anche sua madre, a Shitsel, studio sul e dall’interno di un nucleo di haredim di Gerusalemme, entrambe fortunate distribuzioni Netflix, si colloca La famiglia dei diamanti, una serie in otto episodi a finale apertissimo.
La sceneggiatura, scritta da Rotem Shamir e Yuval Yefet, segue il ritorno a casa di Noah, ‘evaso’ dalla sua famiglia, dal destino di ereditarne la longeva impresa, nel commercio dei diamanti grezzi, e dall’intera comunità ultraortodossa di Anversa verso Londra, dove si è rifatto una vita e ha avuto un figlio da una donna poi prematuramente scomparsa, la cui madre è un’insospettabile lady gangster. Dopo la morte improvvisa, per suicidio, del fratello Yanky, Noah decide di rientrare nelle vite dei genitori, del fratello e della sorella maggiori nonché della cognata Gila, a cui lo lega un sentimento che la lontananza fisica ha accantonato, ma non estinto. Noah prova a risolvere quel che si è complicato, dal debito per cui il fratello si è ucciso a una catena di complicità criminali in cui la famiglia è rimasta arpionata.
Già a ripercorrerne succintamente la sinossi, si comprende come in questo show Netflix due siano le componenti principali: da una parte l’intreccio crime, flesso nella direzione dell’action movie all’americana; dall’altra il dramma più intimista della riparazione di relazioni familiari e sentimentali ferite. L’estetica, sobria, fa da collante tra due modi antitetici di concepire l’impegno drammaturgico: il dinamismo che frastaglia la vicenda in sempre nuove deviazioni e contrarietà, e lo scavo psicologico, l’indagine paziente della dialettica intersoggettiva nel luogo in cui ha origine e sempre ritorna, la famiglia.
La famiglia dei diamanti, di per sé godibile anche se, a tratti, un po’ troppo sfilacciata, prende a non funzionare soltanto laddove e quando – come nella teoria ippocratica degli umori – le due componenti che dovrebbero agire in armonia si sbilanciano, sbilanciamento che perlopiù avviene nel senso di un’esagerazione adrenalinica, di un innalzamento di ritmo prodotto artificialmente attraverso l’intensificazione dei colpi di scena e della repentinità tutta esteriore, e quindi brusca e inverosimile, degli accidenti, delle avversità, delle peripezie. Se la sceneggiatura si fosse concentrata di più – o in modo più bilanciato – sulle vicende quotidiane, sulle psicologie dei suoi personaggi, sui moti minimi di un’interiorità sfiorata sempre troppo precipitosamente, La famiglia dei diamanti si sarebbe potuta iscrivere nella nostra memoria, avrebbe potuto lasciare un segno, toccare qualche corda significativa. Ciò, però, non avviene o avviene puntualmente a metà, sommessamente, senza forza di incidersi davvero.
La famiglia dei diamanti: valutazione e conclusione
Nel meritorio interesse a rappresentare l’esistenza delle e nelle comunità ebraiche ultraortodosse di Europa, Asia e Stati Uniti, Netflix propone una nuova storia da quel mondo: il ritorno di un figliol prodigo – si perdoni l’utilizzo di una parabola neotestamentaria, aliena alla mitologia ebraica – dopo il suicidio di un fratello, gesto, quest’ultimo, che ha gettato discredito sulla famiglia e aperto una serie di questioni di complicata gestione materiale ed emotiva.
Impostato come un teso dramma di stile europeo – è ambientato ad Anversa e gli stilemi fotografici di riferimento sono nordici –, lo show sconta una sceneggiatura a momenti illanguidita nella stereotipia dialogica, ma soprattutto il deragliamento, più che una più modesta deviazione, verso modalità rappresentative proprie dell’action movie, il cui susseguirsi di cose che accadono e presuntamente movimentano la vicenda finiscono per meccanizzare il racconto e svuotarlo della sostanza umana, della sua vocazione intimista, purtroppo non sufficientemente esplorata e valorizzata. Tra gli attori – loro, sì, misurati – la menzione d’onore, più che al protagonista, comunque solido, Kevin Janssens, va a Marie Vinck, delicata interprete di Gila, figura di donna sospesa tra l’imperativo sacrificale ereditato dall’educazione e una sottile sensibilità per la ribellione, la scommessa nei confronti di una possibile, futura autodeterminazione.
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