Pur nel solito pregiudizio laicista, Tramballi coglie le novità del governo Netanyahu
“Hanno provato col capitalismo, hanno provato col socialismo. C’è una cosa che non hanno provato: ‘Se tu obbedisci’”, spiegava qualche giorno fa dell’economia israeliana Bezalel Smotrich. La sottomissione alla quale si riferiva il leader di Sionismo religioso, uno dei partiti di estrema destra che avranno ruoli fondamentali nell’imminente governo di Bibi Netanyahu, è alla Torah, il testo fondamentale dell’ebraismo.
L’esecutivo più di destra e più religioso della storia del paese non rischierà solo di compromettere le relazioni di Israele con Stati Uniti e mondo arabo, per come promette di trattare la questione palestinese. Né minaccia solo la democrazia dello Stato laico, le sue regole, il suo sistema di controlli ed equilibri dei poteri. Le parole di Smotrich che del nuovo esecutivo sarà niente meno che il ministro delle Finanze, mettono in discussione anche l’economia israeliana: sembrano voler dare un’inconciliabile impronta religiosa a un sistema di successo fondato sull’hi-tech.
In un’intervista a un giornale ultra-ortodosso, “Mishpacha”, Smotrich cerca anche di spiegare quale sia la teoria economica della Torah, citando il Deuteronomio: “Più Israele promuove più Torah, più ebraismo, più il comandamento di occupare la terra, più bontà e solidarietà; più Dio, il Solo, che sia benedetto, ci inonderà di grande abbondanza”. Nella labirintica trattativa per formare il nuovo governo, dopo due anni le Finanze passeranno ad Aryeh Deri, leader di un altro partito ultra-ortodosso, il sefardita Shas. Nel 2021 Deri era stato condannato per truffa ed evasione fiscale. Per legge, un politico con una simile fedina penale non può diventare ministro. Ma Netanyahu e i suoi alleati religiosi contano di aver cambiato norme e giudici entro il 2024.
Come ogni economia, anche quella israeliana dovrà passare per un 2023 complicato. Secondo il ministero delle Finanze, la crescita del Pil scenderà dall’8,6% del 2021 e dal 6,3 del ’22, al 3,5% dell’anno prossimo. Per Bank of Israel, Ocse e altri istituti, sarà fra il 3 e il 2%. L’inflazione del 2022 è la più alta dal 2008: il 5,5%.
Un decennio fa Israele era stato definito “Startup Nation”. In un paese che non arrivava a 10 milioni di abitanti c’erano più startup e “angels”, i finanziatori del settore, che in Francia e Germania messe insieme (circa 160 milioni di abitanti). Da qualche tempo, però, le startup diminuiscono dell’11% l’anno. Dopo il boom del 2021, l’anno del denaro facile e delle valutazioni esagerate, le cose stanno cambiando. L’hi-tech sta licenziando pesantemente.
Paragonati agli altri paesi ad economia avanzata, i dati israeliani non sembrano tutti così negativi. L’inflazione americana è al 7,1%, nell’eurozona al 10. La nuova economia perde posti di lavoro ma la riduzione delle startup è anche causata da una crescita e da un consolidamento delle imprese di successo. Gli “angels” non sono diminuiti. “Il terzo quarto di quest’anno il volume degli investimenti nell’Israel tech è aumentato rispetto al quarto precedente”, spiega Moram Chamsi, partner del fondo secondario Amplefield Investments.
Se arrivate a Tel Aviv in treno da Gerusalemme, scendendo alla stazione Savidor vi sembrerà di aver lasciato un mondo teocratico e di essere arrivati in una metropoli libera e aperta del XXI secolo avanzato. Lì il peso del conflitto con i palestinesi e un’esagerata presenza di Dio; qui un dinamismo che spinge a credere sia impensabile che i Territori occupati e il conflitto siano a una quindicina di chilometri in linea d’aria dal centro di Tel Aviv.
Mezz’ora di treno veloce fra due città apparentemente di due paesi diversi. I grattacieli del centro di Tel Aviv ricordano un po’ Hong Kong prima del giro di vite di Xi Jinping e l’opulenza di Wall Street; la parte della città che guarda al mare è una Los Angeles mediterranea. Gli israeliani laici contavano di aprire il servizio pubblico ferroviario anche di Shabbat. Ora sarà impossibile: gli israeliani religiosi che saranno maggioranza di governo, hanno già detto di voler ridurre anche i pochi lavori ammessi nel giorno della preghiera e sospendere la rete elettrica.
Prima Shimon Peres nei governi di centro-sinistra, poi Bibi Netanyahu in quelli di centro-destra, (laici anche se negli esecutivi israeliani c’è sempre stato almeno un partito religioso) avevano trasformato l’economia: da uno dei pochi socialismi realizzati al mondo a una delle più smaglianti economie di mercato. Nel corso dei decenni il sistema era anche stato capace di separarsi dai conflitti interni ed esterni del paese. Durante la seconda Intifada, la guerra in Libano e quelle più brevi a Gaza, la Borsa di tel Aviv e il resto dell’economia continuavano a crescere.
Ora tutto questo rischia di finire o quanto meno di essere compromesso dalla visione religiosa del mondo dei nuovi alleati di Netanyahu. “C’è una genuina preoccupazione per un possibile declassamento del rating se fra gli investitori internazionali nasce la sensazione che Israele non abbia responsabilità fiscale e una politica economica matura”, scrive il quotidiano conservatore Jerusalem Post.
Probabilmente Bezalel Smotrich sarà costretto a comportarsi come i suoi predecessori da quando, negli anni Ottanta, Shimon Peres riformò l’economia, garantendo politiche fiscali conservatrici. Nel suo programma, Sionismo Religioso promette economia di mercato, privatizzazioni, competizione. Tuttavia, anche una teocrazia come l’iraniana concede uno spazio relativamente ampio alla libera impresa; anche i programmi economici dei Fratelli musulmani sunniti sostengono il “laissez faire”. L’ecosistema necessario perché l’hi-tech israeliano continui ad avere successo, richiede molto più dei fondamentali dell’economia: ha bisogno di una società aperta, di libertà di pensiero, di idee e non di dogmi. I regimi che pretendono di essere investiti dal divino hanno sempre altre priorità.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul Sole 24 Ore
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