Lo scorso 25 dicembre, il capo della cristianità (cattolica), al termine della solenne cerimonia di quel giorno, ha rivolto gli auguri ai fedeli in diverse lingue, a testimonianza del successo e della diffusione di quella fede ai quattro angoli della Terra. Si è rivolto cioè, ai cristiani che, pur parlando lingue differenti, condividono la stessa fede.
Non sappiamo se la stessa cosa si sia ripetuta anche in altre simili occasioni, ma tra le lingue utilizzate c’era anche l’ebraico. A voler pensare bene, si potrebbe certo trattare di un gesto di cortesia nei confronti del popolo che parla quella lingua, gli ebrei. A voler pensar male, il saluto in ebraico risulta assai più stridente: in fondo, mai come nel popolo ebraico, la religione è legata al senso di nazione e di lingua. Si può parlare francese essendo cattolici o musulmani, o tedesco non essendo protestanti. Ma parlare in ebraico non vuol dire certo parlare alle poche migliaia di cattolici che vivono in Israele, vuol dire parlare agli ebrei.
Perchè dunque parlare del Natale agli ebrei? Beh, forse in pochi lo hanno capito, ma le due paroline del messaggio in ebraico erano ancora più inquietanti: “Hamashìach nolàd” (è nato il messia). Il papa non ha infatti solo tradotto le parole “Buon natale”, come (forse) ha fatto per tutte le altre lingue. Ma ha in pratica messo il dito sulla più grande piaga teologica aperta tra le due religioni. Gli ebrei infatti non hanno riconosciuto nell’uomo di Betlemme il messia. Lo aspettano ancora, duemila anni dopo.
Se qualcuno aveva dei dubbi sui vari richiami di qualche settimana fa, alla unicità della religione cattolica, nel procurare la “salvezza eterna”, stavolta avrà perlomeno conferma di quanto distante possa ancora essere un dialogo sincero, “tra pari”, tra queste due religioni.